testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione
Il Centro di ricerca su carcere, marginalità e devianza “L’altro diritto” promuove attività di ricerca e di intervento sociale nel campo del penitenziario sin dalla sua nascita nel 1996. Il Centro ha una convenzione con il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Firenze e con il Centro di ricerca interuniversitario Adir per lo svolgimento di attività di ricerca e per il supporto nell’attività di didattica delle Cliniche legali per la protezione dei diritti. Svolge attività in collaborazione con il Tribunale di sorveglianza di Firenze con il quale ha una Convenzione per la realizzazione di un osservatorio sulla giurisprudenza e per lo sviluppo dello studio clinico legale .
Le attività de L’altro diritto coinvolgono personale strutturato afferente al Dipartimento di scienze giuridiche dell’Unifi, studenti provenienti dai percorsi delle Cliniche legali, giuristi del terzo settore e cittadini sensibili alle tematiche della protezione dei diritti fondamentali. Le attività de L’altro diritto sono state ideate ed organizzate per rispondere ad alcune recenti sfide. Quella della giurisdizionalizzazione dei diritti e degli interessi delle persone private della libertà personale e, in secondo luogo, quella di una sinergia tra pubblico e privato no-profit per l’erogazione di servizi di supporto legale di prossimità negli Istituti penitenziari.
Con riferimento specifico al tema del lavoro penitenziario, il Centro gestisce dal 2004 lo “sportello tutele sociali” per la protezione dei diritti dei lavoratori detenuti, servizio che è attivo in molti istituti penitenziari della Toscana nell’ambito di un Protocollo d’intesa con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria . Tale attività è promossa grazie a una risalente collaborazione con la Cgil e il Patronato Inca insieme ai quali ha promosso alcuni importanti contenziosi in materia di lavoro dei detenuti degli ultimi anni. Il primo nasceva da due decisioni della Corte di Cass., sentenze 8 luglio 2004, n. 3275 e n. 3276, recepite dall’Ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Roma, Francesco Centofanti, del 20 gennaio 2005, n. 22/EE/04, in cui si riconosceva il diritto dei detenuti a percepire una “mercede” (secondo la terminologia in uso nella legislazione dell’epoca) adeguata ai Ccnl che si erano susseguiti nel tempo e non ai livelli salariali individuati dall’amministrazione nel 1993 e mai aggiornati. Il secondo, al quale il presente contributo è dedicato, è quello relativo al disconoscimento del diritto dei detenuti a beneficiare dell’assicurazione contro disoccupazione involontaria, denominata “Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego” (NASpI, prevista dall’art. 1 del d.lgs. n. 22, 4.3.2015), per il lavoro svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
Il contenzioso relativo alla NASpI rappresenta un caso particolarmente significativo di litigation a partire dal quale è possibile ricostruire alcuni dei profili più rilevanti in tema di effettività del diritto del lavoro in ambito carcerario. Se è vero che il contesto penitenziario costituisce, in generale, uno degli ambiti nei quali la distanza tra law in books e law in action si manifesta in modo più marcato, è proprio nel settore del lavoro penitenziario che tale divario tende ad ampliarsi ulteriormente. Proprio a partire da tali premesse, l’attività del Centro è stata strutturata con l’obiettivo di ridurre il divario tra diritto formale e diritto effettivamente praticato, mediante l’introduzione, all’interno degli istituti penitenziari, di servizi di consulenza legale finalizzati a facilitare l’accesso alla giustizia. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza la collaborazione con le organizzazioni sindacali e con i patronati, i quali non solo agevolano l’accesso alle tutele previdenziali e assistenziali, ma offrono altresì un supporto essenziale nell’ambito dell’attività contenziosa.
2. La normalizzazione del lavoro dei detenuti
Ai fini della discussione del caso relativo al disconoscimento del diritto dei lavoratori detenuti alla NASpI, è necessario premettere un sintetico inquadramento teorico degli istituti e dei principi generali su cui si fondano le argomentazioni sviluppate nell’ambito del contenzioso.
È fondamentale evidenziare come punto di partenza dell’azione di strategic litigation sia stato il tentativo di dare concreta effettività al principio di equivalenza tra il lavoro detenuto e quello libero . In tal senso bisogna ricordare che se nella storica pronuncia della Corte costituzionale n. 1087 del 1988 veniva sostenuta la tesi della specialità del lavoro penitenziario e si giustificavano deroghe rispetto al regime di tutele previsto per il lavoro libero; nella giurisprudenza successiva, anche alla luce dell’evoluzione normativa, sia a livello nazionale che internazionale, si è progressivamente abbandonato tale impostazione, orientandosi verso una concezione fondata sul principio di normalizzazione, ovvero sull’assimilazione del lavoro intramurario al lavoro libero, con conseguente estensione delle relative garanzie .
Senza pretesa di esaustività, è importante tracciare alcune delle principali tappe di questo percorso.
Sul piano internazionale si tenga presente, in primo luogo, quanto previsto dalle Mandela rules delle Nazioni Unite e dalle European prison rules (E.p.r.) del Consiglio d’Europa . Entrambe le fonti propongono il superamento dell’obbligazione lavorativa a carico dei detenuti (reg. 26 delle Epr e reg. 96 delle Mandela Rules) suggerendo, dunque, che il rapporto di lavoro nasca dalla libera volontà delle parti come avviene in libertà. I due testi si differenziano sul piano delle tutele da riconoscere ai lavoratori detenuti. Limitate nel caso delle Mandela Rules che prevedono una retribuzione ordinaria e la previdenza solo per il lavoro svolto da detenuti per conto di privati, mentre per il lavoro alle dipendenze dello Stato ammettono compensi ridotti e garantiscono solo l’assicurazione contro infortuni e malattia, lasciando la previdenza alla discrezionalità dei singoli Stati (Regole 100,101 e103). Più ampie nel caso delle European Prison Rules che, invece, superano questa distinzione, riconoscendo il diritto a un’equa retribuzione e all’inserimento nei sistemi nazionali di sicurezza sociale a prescindere dal datore di lavoro (regola 26). Le raccomandazioni dell’Onu e del Consiglio d’Europa sono, in parte, state recepite dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel caso Corde Edu, Stammer v. Austria, 7 luglio 2011 n. 37452/02 .
Passando alla giurisprudenza nazionale, si ricordi in primo luogo la Corte cost. n. 158/2001 con cui è stato riconosciuto il diritto alle ferie dei lavoratori detenuti e si è affermato che il rapporto di lavoro tra lavoratore detenuto e amministrazione penitenziaria ha una formale autonomia rispetto a quello punitivo che comporta un “contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato”. Di estrema rilevanza è poi la sentenza n. 341/2006 , in cui la Corte costituzionale ha attribuito al giudice del lavoro la competenza sulle controversie relative al rapporto di lavoro penitenziario , sancendo il diritto dei detenuti a una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, equiparabile a quella riconosciuta ai lavoratori liberi (artt. 24, co. 2, e 111, co. 2, Cost.). La Corte ha dichiarato illegittima ogni discriminazione irrazionale tra detenuti e cittadini liberi in ambito lavorativo, estendendo le garanzie anche ai datori di lavoro. Ha inoltre censurato l’inadeguatezza della procedura camerale prevista dall’ordinamento penitenziario, in quanto priva di un contraddittorio effettivo, e ha escluso che esigenze organizzative dell’amministrazione possano legittimare la compressione dei diritti fondamentali.
Da ultimo, con il d.lgs. n. 124/2018 , il legislatore italiano ha introdotto significative innovazioni in materia di lavoro penitenziario, avvicinandosi sensibilmente al modello delineato dalle European Prison Rules e quanto già acquisito dalla giurisprudenza. In particolare, pur mantenendo la previsione di retribuzioni ridotte per il lavoro svolto in favore dello Stato, conformemente alle previsioni delle Mandela Rules, è stata abrogata dall’art. 20 o.p. la disposizione sull’obbligatorietà del lavoro, superando definitivamente la concezione autoritativa dell’istituto. La riforma ha inoltre confermato il pieno accesso dei detenuti al sistema previdenziale (art. 20 o.p.) e ha imposto all’amministrazione penitenziaria l’attivazione di servizi di supporto per l’accesso a prestazioni assistenziali e misure di politica attiva del lavoro (art. 25-ter o.p.) . Tali modifiche segnano il compimento del processo di privatizzazione del rapporto di lavoro carcerario auspicato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 158/2001, riconoscendo al detenuto una piena capacità contrattuale. Il rapporto lavorativo assume così natura volontaria e paritetica, generando diritti e obblighi sostanzialmente assimilabili a quelli dei rapporti di lavoro ordinari, salvo espresse deroghe previste dalla legge, come quella relativa alla remunerazione ridotta (art. 22 o.p.).
3. Il contenzioso in materia di diritto dei detenuti all’assicurazione contro la disoccupazione involontaria
Il rapporto tra lavoro penitenziario e tutela contro la disoccupazione involontaria rappresenta un nodo interpretativo complesso. Tradizionalmente, la condizione detentiva era considerata incompatibile con l’accesso agli ammortizzatori sociali, in quanto la disoccupazione era vista come effetto necessario della privazione della libertà personale. Tale convincimento era rafforzato anche dalla natura punitiva del lavoro derivante dall’obbligazione lavorativa prevista per tutti i condannati (art. 22, 23 e 25 c.p.) che comportava la perdita della libertà di contrarre come effetto accessorio della condanna a una pena detentiva e dal fatto che il regolamento carcerario del 1931 prevedeva solo alcune tassative tutele previdenziali e assicurative. L’ordinamento penitenziario del 1975 ha innovato questo quadro, riconoscendo all’art. 20 il diritto dei detenuti alla generalità dei diritti previdenziali, aprendo così la possibilità di estendere anche a loro le tutele previste dall’art. 38, comma 2, Cost., tra cui rientra la protezione contro la disoccupazione involontaria . L’effettività di tali tutele è stata poi rafforzata con la legge 28 febbraio 1987, n. 56, che all’art. 19 ha introdotto due principi tuttora fondamentali: da un lato, la detenzione equivale allo stato di disoccupazione senza necessità di conferma (comma 2); dall’altro, essa non comporta la decadenza dal diritto all’indennità di disoccupazione (comma 3). Questa evoluzione normativa, ulteriormente confermata dalla riforma d.lgs. n. 124/2018, è coerente con i principi costituzionali in materia di funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.) nonché con la tutela dei lavoratori prevista dall’art. 38 Cost., confermando l’assimilazione del lavoro penitenziario alle logiche del lavoro libero.
Nonostante tali previsioni nel 2018 una circolare del DAP , recepita dall’INPS , ha escluso la possibilità per i detenuti di percepire la NASpI durante la detenzione, ammettendola solo dopo la scarcerazione. Tale interpretazione si fonda su due argomenti: da un lato, la presunta “specialità” del lavoro penitenziario, ritenuto non assimilabile al lavoro subordinato comune; dall’altro, il modello organizzativo basato sull’alternanza dei detenuti sul posto di lavoro, denominata “turnazione”, che comporterebbe una sospensione temporanea della prestazione e non una cessazione del rapporto, che non dà diritto alla NASpI. Tale presa di posizione, si noti, arriva contraddittoriamente subito dopo la citata riforma d.lgs. n. 124/2018 che, come visto, con il superamento dell’obbligazione lavorativa sanciva l’equiparazione del lavoro penitenziario a quello libero.
4. La giurisprudenza del giudice del lavoro
Il contenzioso che è seguito da questa decisione, che ha visto impegnati tra gli altri il Centro, la Cgil e l’Inca, ha portato ad una serie di decisioni di merito e, da ultimo, della Suprema Corte di cassazione che hanno smentito la posizione dell’INPS e dell’amministrazione, riconoscendo il diritto alla NASpI . La giurisprudenza del lavoro ha affrontato la compatibilità della NASpI con le specifiche modalità organizzative del lavoro penitenziario, esaminando in particolare due ipotesi di cessazione dell’attività: la scarcerazione e l’avvicendamento sul posto di lavoro.
Nel valutare l’accesso alla NASpI da parte di ex detenuti, la giurisprudenza del lavoro ha riconosciuto che la scarcerazione è causa di cessazione involontaria del rapporto, trattandosi di evento non dipendente dalla volontà del lavoratore . Anche trasferimenti ad altri istituti sono stati considerati idonei a fondare il diritto alla NASpI, perché indipendenti dalla volontà del lavoratore, come affermato dalla Corte d’Appello di Torino e confermato da quella di Milano .
La giurisprudenza fonda il diritto alla NASpI su una lettura costituzionalmente orientata della normativa, richiamando gli artt. 3, 4, 35, 38 e 27 Cost., nonché la sentenza della Corte costituzionale n. 158/2001, che afferma l’autonomia del rapporto di lavoro penitenziario rispetto a quello punitivo. Il diniego del trattamento ai soli detenuti lavoranti per l’amministrazione violerebbe il principio di uguaglianza, risultando discriminatorio. Inoltre, impedire l’accesso alla NASpI al momento della scarcerazione comprometterebbe la funzione rieducativa e il reinserimento sociale del lavoro penitenziario, svuotandone la portata pedagogica e riabilitativa prevista dall’art. 15 o.p. Sul punto preme ricordare che tale affermazione è del tutto coerente con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella decisione n. 1087/1988 quando, chiamata a valutare la legittimità della norma contenuta all’art. 22 o.p. che consente che ai detenuti venga corrisposta una remunerazione ridotta di 1/3 rispetto ai Ccnl, ha affermato che una riduzione eccessiva delle mercedi “sarebbe certamente diseducativa e controproducente; il detenuto non troverebbe alcun incentivo ed interesse a lavorare e, se lavorasse egualmente, non avrebbe alcun interesse ad una migliore qualificazione professionale”.
L’accesso alla NASpI a seguito dell’interruzione del rapporto lavorativo dovuta alla turnazione carceraria è maggiormente controverso rispetto all’ipotesi della scarcerazione e del trasferimento. In tal caso, infatti, l’interpretazione suggerita dall’Inps è che non si verificherebbe una cessazione del rapporto di lavoro ma una mera sospensione, dal momento che i detenuti ruotano sul posto di lavoro. Si tenga presente che l’avvicendamento sul posto di lavoro è una prassi usata da sempre nel contesto penitenziario per far fronte alla scarsità dell’offerta lavorativa che l’amministrazione, ai sensi dell’art. 15 o.p., sarebbe pur tenuta ad assicurare. Dopo la riforma del d.lgs. n. 124/2018 tale pratica è stata formalizzata all’art. 20 comma 5 stabilendo che la Commissione preposta all’organizzazione del lavoro all’interno degli istituti debba stabilire dei “criteri per l’avvicendamento nei posti di lavoro”. Nella prassi ciò si verifica di rado e ne consegue che per il lavoratore la possibilità di essere riammesso al lavoro è circostanza assolutamente non certa e non prevedibile.
Sul punto vari tribunali del lavoro hanno rigettato la tesi della semplice “sospensione” dell’attività, affermando che essa configuri una vera cessazione del rapporto a termine, in quanto la riassegnazione non è garantita e, infatti, i contributi cessano. Pertanto, si realizza una perdita involontaria del lavoro, assimilabile alla scadenza di un contratto a tempo determinato, che legittima l’accesso alla NASpI. Anche i Tribunali di Cosenza Siena, Firenze e Genova hanno riconosciuto che la cessazione al termine del turno è involontaria. È stata inoltre rigettata la tesi della specialità richiamando la sentenza n. 158/2001 della Corte costituzionale che, come visto, ha affermato l’autonomia del rapporto lavorativo penitenziario, riconoscendogli le tutele ordinarie del lavoro libero, e l’art. 20 o.p. che prevede l’inclusione dei detenuti nel sistema previdenziale.
I Tribunali di Padova e Genova hanno inoltre rilevato che la NASpI è una misura di protezione universale per tutti i lavoratori subordinati, salvo esclusioni esplicitamente previste — tra le quali i detenuti non sono contemplati. Pertanto, un’eventuale esclusione costituirebbe una violazione dell’art. 3 Cost.. Come ha chiarito anche il Tribunale di Siena, l’esclusione dei detenuti dall’accesso alla NASpI configura una forma di discriminazione incompatibile con i principi costituzionali sanciti dagli articoli 3, 4, 35 e 38 della Costituzione. In particolare, il giudice ha evidenziato come i detenuti rappresenterebbero l’unica categoria di lavoratori subordinati tenuta a versare regolarmente i contributi previdenziali senza, tuttavia, poter accedere alle prestazioni corrispondenti, in palese violazione dei principi di uguaglianza, tutela del lavoro e protezione sociale .
5. Il diritto dei detenuti alla protezione contro la disoccupazione involontaria nella giurisprudenza della Corte di cassazione.
L’interpretazione suggerita dai giudici di merito ha trovato conferma in una importante pronuncia della Corte di cassazione, la n. 396 del 5 gennaio 2024, con cui ha respinto il ricorso dell’Inps avverso la decisione della Corte d’appello di Torino che aveva riconosciuto il diritto all’indennità NASPI maturata a seguito di scarcerazione e condannato l’INPS al pagamento della relativa prestazione. La Suprema Corte nel respingere gli argomenti del ricorrente, fa chiarezza sui principi che presiedono alla disciplina del rapporto penitenziario.
In primo luogo, la Corte osserva che da una lettura sistematica dell’evoluzione normativa si può evincere il riconoscimento ai lavoratori detenuti di diritti equivalenti a quelli dei lavoratori liberi, sia sul piano previdenziale che assicurativo (art. 20 o.p.), fatta eccezione per le remunerazioni che sono ridotte di 1/3 (art. 22 o.p.). Si evidenzia come nel corso degli anni, il lavoro intramurario abbia sempre più perduto i tratti di specialità che all’inizio lo caratterizzavano ed abbia visto il riconoscimento in favore del lavoratore detenuto dei diritti spettanti a tutti i lavoratori in genere e delle azioni a tutela innanzi al medesimo giudice del lavoro (C. cost. n. 341/2006). La Corte, evolvendo la teoria della specialità in quella della normalità del lavoro, afferma che “la causa tipica del rapporto di lavoro –costituita dallo scambio tra attività lavorativa e remunerazione- resta centrale anche nel lavoro intramurario: anche qui, invero, la funzione economico sociale principale del rapporto lavorativo va vista nello scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e compenso del lavoro”. Confermando, infine, quanto sostenuto dalla giurisprudenza costituzionale relativamente alla valenza rieducativa dell’equiparazione con il lavoro libero afferma che: “il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi”.
Con riferimento specifico ai profili previdenziali la Corte afferma che “dall’esame della disciplina generale e dei singoli istituti, dunque, emerge che il lavoro intramurario è equiparato al lavoro subordinato anche ai fini previdenziali ed assistenziali, e che anzi le norme speciali previste sono norme di maggior favore”. Con riferimento alla NASpI afferma che la cessazione del rapporto di lavoro per scarcerazione è sicuramente non ascrivibile alla volontà del detenuto e che, in ogni caso, il fatto che l’amministrazione sia tenuta a versare i contributi per l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria corrobora la tesi del diritto alla NASpI. Né rileva il fatto che l’assegnazione dei posti di lavoro avviene a rotazione, “atteso che si tratta di modalità necessaria a conciliare l’impegno sancito a carico dell’Amministrazione di «assicurare» ai detenuti il lavoro (art. 15, co. 2, O.P.) con la notoria scarsità quantitativa dell’offerta di lavoro in carcere, da cui non può dipendere alcuna conseguenza in termini di trattamento previdenziale”.
In una successiva sentenza la n. 4741 del 23 febbraio 2025 la Corte di cassazione si è pronunciata sul citato caso del detenuto cui la Corte d’appello di Torino aveva riconosciuto la NASpI maturata durante la detenzione a seguito di cessazione del rapporto di lavoro nell’ambito dell’avvicendamento. Anche in tal caso la Corte ha respinto il ricorso dell’Inps e confermato il diritto alla NASpI. La Corte, in primo luogo, recependo le argomentazioni della decisione n. 396/2024, conferma l’assimilazione del lavoro penitenziario a quello libero sotto tutti i profili, incluso quello previdenziale. Particolarmente rilevanti sono poi gli argomenti con cui rigetta la tesi secondo cui l’avvicendamento non darebbe luogo a cessazione ma a sospensione del rapporto di lavoro. La Corte rileva la mancata attuazione dell’art. 20 comma 5 che, come visto, imporrebbe alla Commissione per il lavoro di determinare i criteri per l’avvicendamento. Secondo la Corte tale omissione rende non prevedibile l’eventuale riammissione al lavoro che, oltretutto, nel caso di specie non si è neppure verificata. Pertanto, conclude la Corte, anche nel caso di specie ci troviamo di fronte ad una interruzione del rapporto di lavoro estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore.
6. Un’eccezione negativa nel quadro giurisprudenziale: il caso del detenuto lavoratore e il diniego della NASpI
Nel quadro giurisprudenziale analizzato vi è una eccezione negativa rappresentata da un caso cui il Centro L’altro diritto e la Cgil di Firenze hanno collaborato direttamente. Il caso riguarda un detenuto che aveva prestato attività lavorativa come addetto alle pulizie in carcere per oltre un anno, percependo la relativa mercede, e in seguito alla cessazione dell’attività aveva presentato domanda per la NASpI, sostenendo di essere in possesso dei requisiti previsti dalla normativa. L’INPS aveva, però, respinto la domanda. Nel caso di specie il Tribunale di Firenze con decisione n. 311 del 5 maggio 2022 aveva accolto il ricorso presentato dal detenuto, supportato da L’altro diritto e la Cgil. Il Tribunale faceva ricorso ad una lettura costituzionalmente orientata della normativa penitenziaria e concludeva che questa deve essere necessariamente interpretata nel senso di estendere ai detenuti le ordinarie tutele previste per il lavoro richiamando l’art. 35 Cost. Successivamente la Corte d’appello sorprendentemente decideva di distaccarsi dall’orientamento giurisprudenziale dominante e di accogliere il ricorso dell’Inps avverso la decisione del Tribunale respingendo il ricorso del detenuto .
Gli argomenti della Corte d’appello segnano una netta cesura con la giurisprudenza maggioritaria sin qui analizzata. Secondo i giudici di secondo grado, il presupposto fondamentale per l’accesso alla NASpI, ossia la perdita involontaria dell’occupazione, non può ritenersi sussistente nei casi di cessazione dell’attività lavorativa all’interno del carcere. Infatti, tale attività è regolata da un meccanismo di rotazione stabilito dall’amministrazione penitenziaria, finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale del detenuto, e non può essere assimilato alla perdita di un rapporto di lavoro nel libero mercato. In altre parole, a giudizio della Corte, il lavoro dei detenuti pur dovendo riflettere taluni profili del lavoro libero, si distingue sostanzialmente per la sua finalità e per l’assenza di un reale vincolo di subordinazione a un datore di lavoro “esterno”. La Corte ha inoltre evidenziato che il legislatore, nel delineare la disciplina della NASpI, ha inteso riferirsi a lavoratori in condizione di disoccupazione inseriti (o reinseribili) nel mercato del lavoro, soggetti a percorsi attivi di politiche del lavoro e riqualificazione professionale. Tali condizioni, per loro natura, non risultano applicabili al detenuto che permane all’interno dell’istituto penitenziario.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, con decisione 22 maggio 2025 n. 1621 ha tuttavia cassato la sentenza della Corte d’Appello. La Corte richiamandosi ai suoi precedenti rigetta, ancora una volta, la tesi della specialità del lavoro dei detenuti sostenuta nella sentenza impugnata. La decisione, se da un lato ribadisce con fermezza il principio per cui il lavoro svolto in carcere non costituisce una categoria speciale, svincolata dalle ordinarie tutele lavoristiche, dall’altro introduce una sottile ma significativa distinzione tra le mere interruzioni dovute all’avvicendamento programmato e le vere e proprie cessazioni del rapporto, con importanti conseguenze sul diritto alla NASpI.
La Corte, nel cassare la pronuncia della Corte d’Appello, ha dedicato particolare attenzione al funzionamento concreto del sistema lavorativo penitenziario, sottolineando che questo venga programmato non solo per garantire una distribuzione equa delle opportunità tra i detenuti, ma anche per soddisfare “bisogni rieducativi, economici, e di sviluppo della personalità del detenuto a cui ognuno è interessato, in vista del dignitoso recupero rieducativo e di agevolazione al proprio reinserimento sociale”. Tale programmazione, secondo la Corte, induce a ritenere “l’unitarietà del rapporto il cui principale connotato oggettivo e temporale è l’avvicendamento nelle lavorazioni programmate, sia l’aspettativa del detenuto ad essere chiamato al lavoro”. Tale conclusione è confermata anche da precedenti pronunce in tema prescrizione del credito retributivo che viene fatto decorrere solo dal momento della scarcerazione e non dall’eventuale sospensione intervenuta precedentemente. In questo quadro, le temporanee sospensioni determinate dal meccanismo di rotazione non possono essere equiparate a una risoluzione del rapporto, poiché il detenuto conserva un’aspettativa legittima di essere nuovamente chiamato al lavoro. Ciò non esclude tuttavia che durante la detenzione il rapporto di lavoro non possa comunque cessare per altre cause “di carattere soggettivo (età, stato di salute, idoneità al lavoro), ma anche di carattere oggettivo (trasferimento della sede di detenzione, mutamento delle lavorazioni richieste dall’Amministrazione, termine finale delle rotazioni)”.
La Corte conclude che tali circostanze meritino un accertamento di merito finalizzato a verificare se l’interruzione sia dovuta ad avvicendamento programmato o ad altra causa, pertanto rinvia alla Corte d’Appello.
La decisione della Corte risulta senz’altro apprezzabile per l’accurata analisi del sistema di organizzazione del lavoro penitenziario. Non possono tuttavia essere condivise le conclusioni che ne vengono tratte.
In primo luogo, occorre rilevare come l’involontarietà della perdita dell’occupazione, nel caso dei detenuti lavoratori, derivi dal fatto che è prerogativa esclusiva dell’amministrazione penitenziaria decidere se riammettere o meno il detenuto al lavoro. L’avvicendamento risulta, di fatto, una circostanza non prevedibile e comunque estranea alla volontà del lavoratore, come correttamente riconosciuto dalla Corte nella precedente decisione n. 4741/2025.
In secondo luogo, va sottolineato che tale imprevedibilità è ulteriormente confermata dalla prassi dell’organizzazione del lavoro penitenziario, nella quale non risultano stabiliti criteri oggettivi per la rotazione degli incarichi lavorativi, come invece previsto dall’art. 20 dell’Ordinamento penitenziario. L’assegnazione e l’avvicendamento restano infatti rimessi alla discrezionalità del personale, normalmente appartenente al corpo di polizia penitenziaria. Non sorprende, dunque, l’assenza di allegazioni da parte dell’INPS nel caso in commento circa l’esistenza di criteri predeterminati per l’avvicendamento, o in merito alle specifiche circostanze che avrebbero determinato la sospensione o l’interruzione del rapporto di lavoro.
Infine, preme sottolineare che la decisione della Corte comporta un notevole sacrificio dei diritti del lavoratore detenuto a fronte delle esigenze organizzative dell’amministrazione. Da un lato, infatti, non sono previsti limiti particolari nell’organizzazione del lavoro e nella determinazione dei criteri per l’avvicendamento. Al punto che nella prassi tali criteri non sono mai determinati dalla Commissione di cui all’art. 20 o.p. o, se lo sono, non risultano conosciuti dai detenuti, come verificato dallo Sportello tutele sociali de L’altro diritto. Dall’altro lato, il detenuto conserva un’aspettativa al lavoro che, in linea di principio, potrebbe anche non esser mai soddisfatta dall’amministrazione che resta pur sempre libera di non riammettere i detenuti.
In conclusione, ritengo che tale decisione non tenga in debita considerazione la particolare vulnerabilità della condizione di lavoratore detenuto - data dalla sovrapposizione del rapporto punitivo con quello lavorativo - che imporrebbe all’interprete particolare cautela nel bilanciare le esigenze e le prerogative dell’amministrazione con i diritti del lavoratore. Sotto questo profilo, la decisione della Corte rappresenta un arretramento rispetto alla precedente giurisprudenza che, invece, aveva sottratto la tutela del lavoro dei detenuti dall’esclusivo alveo dell’art. 27 Cost. per condurlo in quello più appropriato dell’art. 35 Cost.
Nella concezione originaria, il lavoro penitenziario veniva inteso come un’attività dalla natura esclusivamente rieducativa, che realizza uno scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e opportunità di rieducazione. Tra i limiti di questa visione vi era senza dubbio la possibilità di sacrificare i diritti dei lavoratori detenuti, giustificandolo con il superiore interesse alla rieducazione. Tale interesse, inoltre, conferiva un ampio margine di discrezionalità all’amministrazione penitenziaria nell’organizzazione e gestione del lavoro. Emblematico in tal senso è il caso della Corte costituzionale n. 1087/1988 che giustificava le mercedi ridotte proprio sulla base di tali argomentazioni.
La concezione attuale, nell’avvicinare la natura del lavoro penitenziario al paradigma costituzionale delineato dall’articolo 35 della Costituzione, tende a configurarlo come un vero e proprio rapporto di natura economico-salariale, fondato sullo scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e retribuzione. Tale impostazione comporta una piena valorizzazione dei diritti del lavoratore detenuto e una conseguente limitazione della discrezionalità riconosciuta all’amministrazione penitenziaria nella gestione del rapporto di lavoro. Ma è importante sottolineare che secondo questa prospettiva la funzionalità rieducativa del lavoro non impedisce affatto la piena tutela dei diritti dei lavoratori, trattandosi di due aspetti non sono compatibili, ma anche legati funzionalmente: quanto più il rapporto di lavoro è vicino a quello libero tanto meglio realizza la finalità rieducativa . Come già intuito da Tocqueville - che già nell’Ottocento sosteneva la necessità di riconoscere tutele ai detenuti lavoratori - il salario non ha solo una funzione economica, ma rappresenta anche un fondamentale strumento pedagogico, in quanto educa alla cultura del lavoro e alla responsabilità personale .