testo integrale con note e bibliografia
È sicuramente meritorio il compito assolto dagli studiosi, di diversa formazione (non solo giuridica),che fanno parte del “Gruppo Freccia Rossa” di elaborare un progetto di riforma dell’attuale disciplina delle sanzioni dei licenziamenti illegittimi, al fine di superare la frammentazione e l’incertezza interpretativa, dovuta non solo al succedersi di diverse regolamentazioni, anche settoriali, ma anche ai ripetuti interventi in materia della Corte Costituzionale e alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza di legittimità e di merito.
Al di là della evidente natura compromissoria tra le diverse soluzioni individuate, che incide anche sulla tenuta complessiva della proposta, non può non apprezzarsi, in tutta la sua importanza, il tentativo di addivenire ad una regolamentazione unitaria e semplificata, per facilitare anche – direi soprattutto – l’applicazione delle regole da parte degli operatori, ad ogni livello, del mercato del lavoro (e i quattro principi ispiratori della riforma proposta, riportati nella relazione illustrativa, danno conto delle finalità perseguite e delle esigenze concrete tenute presenti nella elaborazione delle distinte regole).
Bisogna, però, riconoscere – e questa non è (soltanto) una critica, ma una constatazione, che lo sforzo di sintesi, e di fruttuoso bilanciamento degli interessi contrapposti, degli studiosi proponenti difficilmente troverà il giusto riconoscimento nella sede politica legislativa, che è l’unica, in base alle scelte dei cittadini e dei governanti del momento, a poter formulare una disciplina concreta e realizzabile, non so dire quanto stabile, visti gli interventi normativi che si sono susseguiti negli anni più recenti.
Insomma, non so dire se quello messo in campo dagli studiosi del “Gruppo Freccia Rossa” sia un mero esercizio retorico di politica del diritto – fine a sé stesso – ma credo che le scelte della politica del diritto del lavoro seguiranno indubbiamente altre strade, strade diverse, ancora tortuose.
Questa mia osservazione preliminare trova conforto proprio nella conclusione della relazione illustrativa, nella quale gli studiosi proponenti tengono a precisare che «il progetto Freccia Rossa non è una mediazione politica, né una proposta ideologica, ma il tentativo di costruire un diritto del lavoro “post- giurisprudenziale”, per recepire le migliori acquisizioni dottrinali, tener conto dei più recenti indirizzi della Corte costituzionale, superare le contraddizioni delle riforme precedenti, mediare tra diversi indirizzi giurisprudenziali e proporre una sintesi normativa funzionale e tecnicamente avanzata».
Intanto, alcune considerazioni, di carattere generale.
La prima. I proponenti, anche, nella illustrazione delle proposte formulate a maggioranza e per contrastare quelle della minoranza, utilizzano, spesso, la semplificazione e la prevedibilità (ovviamente coniugata con la certezza del diritto). Si tratta di concetti in linea di massima condivisibili, ma una disciplina legislativa in materia di licenziamenti, per essere coerente nella affermazione dei principi, delle regole e delle conseguenti sanzioni, non può essere condizionata dalla finalità della prevedibilità, a tutti i costi, delle conseguenze dell’esercizio dei poteri datoriali: dovendosi ogni datore di lavoro misurare con le scelte di mercato, in ogni tipo di attività e per ogni settore. Non è dato capire perché, solo, o in gran parte, per la disciplina dei rapporti di lavoro, ed in particolare per le ipotesi della cessazione degli stessi, debba valere questa finalizzazione.
La seconda. Mi sono fatto persuaso che ogni rivisitazione, meritoria, del regime sanzionatorio dei licenziamenti, non possa prescindere da una ricostruzione più ampia, teorica e applicativa, anche della individuazione dei presupposti e delle regole della disciplina sostanziale dei licenziamenti. Che ne rappresenta il presupposto necessario.
Da ultimo. Ho letto che nel progetto era stata inserita una disposizione, poi soppressa nella fase finale, diretta a garantire l’applicazione della astreinte di cui all’art. 614 bis c.p.c. alle sentenze di reintegrazione, che secondo Adalberto Perulli, Franco Scarpelli e Valerio Speziale avrebbe dovuto essere mantenuta, proprio per garantire effettività alla tutela reintegratoria.
Concordo su questa osservazione, nella prospettiva, anche, di considerare del tutto ingiustificata (e incostituzionale) l’esclusione dell’applicazione di questo strumento processuale alle controversie di lavoro, che trova invece applicazione in ipotesi di violazioni di obblighi di fare meno gravi e rilevanti.
Le mie osservazioni di merito riguarderanno, inevitabilmente, solo alcuni dei temi e delle regole della proposta di riforma analizzata.
Per quanto riguarda il campo di applicazione (art. 1) resta la esclusione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che trovo ingiustificata, proprio nella prospettiva della massima semplificazione e unificazione dei regimi, in questo modo contraddetta, ritenendosi così ancora vigente il sistema dei due regimi, separati e autonomi.
Ho letto che questo tema non è stato oggetto di specifico confronto nell’ambito dei lavoratori preparatori, giudicando i proponenti di soprassedere, al momento, con l’impegno di tornare su questa tematica, come sottolineato da Bruno Caruso e Marco Marazza.
Certamente non sarebbe stato semplice superare questa divisione, ma credo che questo sforzo debba essere compiuto, almeno in prospettiva.
A mio avviso sarebbe stato giusto prendere in considerazione le ipotesi di recesso espressamente escluse, per chiarire, in maniera possibilmente completa, il relativo regime sanzionatorio; almeno quelle non disciplinate organicamente da norme speciali.
Mi riferisco ai dirigenti e alle diverse ipotesi di recesso di cui all’art. 2118 c.c. ( anche se per queste ultime si prevede, come pure per le ipotesi regolate da norme speciali, l’applicazione dell’art. 2 sulla reintegrazione in caso di licenziamento nullo.
Manca, se ho letto bene, una norma di regolamentazione delle conseguenze sanzionatorie applicabili nel caso di conversione a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato, dovendosi intendere, evidentemente, la riforma applicabile dal momento in cui ha efficacia la conversione.
La disciplina della reintegrazione nel licenziamento nullo (art. 2) non pone particolari problemi, essendo stata adottata una nozione ampia di nullità, estesa anche alle ipotesi non espressamente previste dalla legge, ivi compreso il licenziamento intimato oralmente.
La tutela reintegratoria piena è quella, solita, conseguente, ma manca il riferimento alla detrazione dell’aliunde percipiendum, così come previsto per il caso del licenziamento ingiustificato.
Per quanto riguarda la reintegrazione nel licenziamento ingiustificato (art. 3) mi limito ad osservare che: a) la nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, nei termini posti dalla norma ( insussistenza della condotta contestata o della natura disciplinare della stessa) porrà sempre problemi interpretativi; b) per la nozione di giustificato motivo oggettivo è alquanto restrittivo il presupposto della insussistenza della modifica organizzativa posta a base del licenziamento, posto che diversi sono i motivi del g. m. o., non solo di tipo organizzativo; c) l’omissione della procedura disciplinare, di cui all’art. 7, st. lav., nella sussistenza degli altri presupposti, forse avrebbe meritato non la reintegrazione in servizio, ma la tutela indennitaria, magari maggiorata, in casi specifici di fatti e comportamenti gravi accertati nel corso del giudizio, nel contraddittorio delle parti; d) l’aumento sino ad un massimo di 24 mensilità del risarcimento dei danni per il periodo precedente alla sentenza di reintegrazione, ancorato a presupposti certi (considerevole durata del processo, tenuto conto anche del comportamento processuale delle parti, dell’impegno del lavoratore nella ricerca di una nuova occupazione, della misura del trattamento di disoccupazione) consente al giudice un’ampia valutazione del caso concreto, con l’esercizio, però, di un ampio potere discrezionale.
Con riferimento alla tutela indennitaria (art.4) viene confermata la scelta, fatta propria dal legislatore delle riforme, di diversificare il regime sanzionatorio in base ai presupposti dell’ingiustificatezza.
È, questa, una scelta che può non condividersi, ma ormai è entrata nel comune sentire dei giuslavoristi; tuttavia, la forbice del risarcimento tra un minimo di otto mensilità e un massimo di trentasei mensilità è troppo ampio, anche se sono indicati validi criteri per la sua determinazione, sempre molto discrezionale, del giudice; dovendosi, a mio avviso, aumentare il limite minimo.
Mi sembra non coerente escludere la tutela reintegratoria per il difetto di proporzionalità del recesso rispetto alla condotta contestata.
Non vedo per quale motivo il licenziamento palesemente sproporzionato possa essere valutato non solo sul piano della sua legittimità/illegittimità, ma anche su quello, conseguente, delle relative sanzioni.
È di tutta evidenza che si tratta di una forma di abuso del diritto.
Faccio mie, sul punto, le osservazioni espresse in particolare da Adalberto Perulli, Franco Scarpelli e Valerio Speziale sulla possibilità di sanzionare con la tutela reale (art.3) le ipotesi di licenziamento pretestuoso, da individuare in quelle nelle quali appare palese l’inconsistenza della giustificazione addotta per il recesso, utilizzando i loro stessi esempi: palese insussistenza della giustificazione; evidente sproporzione del licenziamento disciplinare rispetto alla mancanza di gravità della condotta contestata, anche se non espressamente indicata tra quelle soggette a sanzione conservativa; palese incoerenza o creazione ad hoc della misura organizzativa posta a base del recesso.
Si tratterebbe, quindi, di ricondurre, alla fattispecie del motivo illecito, anche non esclusivo il licenziamento meramente pretestuoso; oppure si potrebbe creare una autonoma fattispecie di licenziamento, quello pretestuoso, con le conseguenze della tutela reale.
Non mi convince, però, la previsione dell’onere del lavoratore di provare, anche in via presuntiva, il motivo illecito, anche non esclusivo: in casi come questo, deve essere il datore di lavoro a provare la genuinità della scelta operata, lasciando al giudice il potere di trarne le relative conseguenze.
Le considerazioni svolte con riferimento alla violazione della proporzionalità valgono anche, e a maggior ragione, per la violazione dell’obbligo di ricollocazione o dei criteri di individuazione del lavoratore nell’ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo, che a mio avviso dovrebbero essere sanzionati con la tutela reintegratoria piena. Soprattutto nelle ipotesi di g. m. o., che è caratterizzato dalla scelta necessaria, rispondente ad uno specifico nesso di causalità, del lavoratore, di quel lavoratore, inciso dal licenziamento.
Con riferimento alle ipotesi di licenziamento affetto da vizi formali o procedurali (art.5), sanzionate con la tutela indennitaria con limiti, minimo e massimo, assai ridotti, è criticabile, a mio avviso, la ricomprensione anche del difetto di motivazione, che rappresenta il fondamento giustificativo del licenziamento.
Ho letto che, ferma restando la proposta conferma per le ipotesi di licenziamento nullo del regime sanzionatorio della reintegrazione forte, per Marco Marazza gli ulteriori vizi del licenziamento avrebbero dovuto essere sanzionati (in linea con lo spirito delle ultime riforme legislative ed al fine di garantire al meglio gli obiettivi di semplificazione e prevedibilità) esclusivamente con una tutela di tipo indennitario.
È vero che la soluzione adottata, che prevede la coesistenza della sanzione della reintegrazione debole e di quella indennitaria, rappresenta un compromesso ragionevole; e tuttavia la tutela indennitaria, a mio avviso, è troppo estesa.
Sui licenziamenti nelle piccole imprese e organizzazioni di tendenza (art.6), il discorso è più complesso.
È apprezzabile il riferimento alla dimensione sovranazionale del limite dei sessanta dipendenti, come anche dei collaboratori di cui all’art. 2, d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (esclusi quelli di cui al comma 2 della medesima disposizione).
Resta peò insufficiente, a mio avviso, il criterio occupazionale come unico criterio di riferimento per la definizione, in senso lavoristico, delle piccole imprese; ciò anche alla luce della recente giurisprudenza, non solo costituzionale, che valorizza altri profili dell’impresa.
È positiva, invece, la valutazione dell’anzianità di servizio quale criterio, oggettivo, per determinare il massimo dell’indennità risarcitoria, anche se, a mio avviso, è preferibile la valutazione di tutti i criteri normalmente utilizzati a questi fini, lasciando ampia discrezionalità al giudice nella determinazione dell’indennità tra un minimo e un massimo, senza paletti intermedi.
Le mie critiche sulla insufficienza del mero criterio dimensionale per la definizione della piccola impresa trovano conforto nelle osservazioni di Adalberto Perulli, Franco Scarpelli, Valerio Speziale e Carlo Zoli, che hanno proposto di escludere in ogni caso dal regime delle imprese minori l’impresa sottosoglia, ma appartenente a gruppi di imprese o comunque soggetta a direzione e controllo di altra impresa.
È, questo, un passo in avanti, che aiuta a meglio tratteggiare i confini della piccola impresa, anche con riferimento alla nozione, di carattere generale, ricavabile dalla normativa civilista e commercialistica, interna e comunitaria. Ma non è a mio avviso sufficiente, perché il problema della necessaria svalutazione del solo criterio occupazionale può valere anche per l'impresa che opera autonomamente sul mercato.
La disciplina di cui alla presente legge è giustamente applicabile ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto (art. 6,comma 5).
L’art. 7, che disciplina la materia dei licenziamenti collettivi ,riscrive alcune norme fondamentali della legge 23 luglio 1991,n.223.
Particolarmente apprezzabile è la modifica dell’art. 4,comma 3, della l. n. 223/1991, che
disciplina, nello specifico, il contenuto della comunicazione di avvio della procedura dei licenziamenti collettivi.
Va da sé che per l’individuazione dei lavoratori da licenziare prevalgano gli accordi collettivi stipulati con le associazioni di categoria.
In assenza di accordi, limitare la scelta dei lavoratori da licenziare all’unità produttiva di riferimento e alle ulteriori sedi aziendali collocate entro una distanza di 200 chilometri, mi sembra riduttivo, rispetto alla possibilità di considerare l’intero territorio nazionale.
Lo sforzo ulteriore sarebbe quello del riferimento, in qualche modo, anche al “gruppo” imprenditoriale, nazionale e internazionale.
La tutela meramente indennitaria (art.7,comma 4) riservata ai licenziamenti intimati in violazione delle procedure di cui all’art.4, comma 12, della legge n. 223/1991 e all'art. 189, comma 6, del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 12 e successive modificazioni, o in violazione dei criteri di scelta di cui all'articolo 5 della legge n. 223/1991, riafferma un principio a mio avviso non condivisibile, che affida i licenziamenti collettivi a una tutela minore, non solo per le violazioni procedurali, che talvolta sono sostanziali e niente affatto meramente formali, ma anche per la violazione dei criteri di scelta, che rappresenta il cuore di questi licenziamenti.
Su questo punto mi trovo d’accordo con Adalberto Perulli, Franco Scarpelli e Valerio Speziale che hanno criticato la scelta di adottare la sanzione meramente indennitaria per la violazione dei criteri di scelta, trattandosi di profilo di invalidità che attiene alla persona del lavoratore e che spesso, nella realtà, sottende scelte orientate da criteri di fatto non ostensibili e indifferenti alle esigenze di un corretto bilanciamento sociale dell’impatto della riduzione del personale.
Sugli altri punti della disciplina legislativa proposta, ho letto che anche sul tema dei licenziamenti collettivi sono state fatte osservazioni in particolare da Adalberto Perulli, Franco Scarpelli, Valerio Speziale e Carlo Zoli, innanzitutto sulla criticata esclusione della tutela per il difetto di giustificazione della riduzione di personale “in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” come recita l’art. 24 della legge n.223/1991.
È, questo, un punto fondamentale, non solo per il contrasto con la norma suindicata e con i principi espressi anche dalla l. n. 604/1966( in una prospettiva di ricostruzione teorica dei rapporti tre le due leggi principali) e dall’art. 24 della Carta Sociale Europea, sulla scia dell’annosa questione della c.d. causalità o acasualità dei licenziamenti collettivi.
La soluzione proposta da Adalberto Perulli sulla unificazione dl regime sanzionatorio del licenziamento, individuale e collettivo, di tipo economico (in linea con alcuni sistemi normativi adottati in Europa) è interessante e potrebbe essere risolutiva dei contrasti, teorici e applicativi, se è vero, come è vero, che quello collettivo, altro non è che un licenziamento plurimo per giustificato motivo oggettivo.
Non di tutti i contrasti, però, ma solo di alcuni, senza dimenticare che il licenziamento collettivo rimane pur sempre ancorato ad una procedura preliminare, di fondamentale importanza, che coinvolge le organizzazioni sindacali.
Si potrebbe equiparare, come sostenuto da questi proponenti, l'ipotesi dell'assenza di giustificazione della riduzione del personale a quella disciplinata dall'articolo 3, comma 1, del progetto di legge per il caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ciò troverebbe condivisione con le mie osservazioni sopra svolte.
Non condivido, invece, l’osservazione formulata dagli altri studiosi, per i quali una soluzione di tal genere consentirebbe, potenzialmente, un controllo del giudice sulla scelta imprenditoriale posta alla base della riduzione e/o trasformazione di lavoro che ai sensi dell’art. 24 della legge n. 223/1991, trattandosi di una scelta datoriale, che non può essere considerata del tutto discrezionale e libera.
Non ho osservazioni particolari sulla revoca del licenziamento (art.8) e sull’offerta di conciliazione (art.9); mentre, con riferimento al tentativo obbligatorio di conciliazione ( art. 10) per il licenziamento per g. m. o. disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’art. 6, comma 1, la scissione tra la comunicazione all’Ispettorato territoriale del lavoro competente dell’intenzione di procedere al licenziamento, dei motivi sottesi e delle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato e la comunicazione del licenziamento in caso di fallimento del tentativo di conciliazione o di decorso dei termini previsti, sembra risolvere il problema degli effetti della risoluzione del rapporto dall’intimazione e non dalla preventiva comunicazione del tentativo di conciliazione.
Sarebbe stato utile specificarlo e disciplinare anche la situazione intermedia, che potrebbe pregiudicare l’interesse di una delle parti (non necessariamente del datore di lavoro), tenuto conto che si tratta di licenziamento con preavviso.
Peraltro, proprio nell’ottica conciliativa, non trovo giustificata l’esclusione delle ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all'articolo 2110 c.c., nonché per i licenziamenti e le interruzioni del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui all'articolo 2, comma 34, della legge 28 giugno 2012, n. 92.
Soprattutto per il comporto (oggetto di interminabili diatribe giurisprudenziali, in ragione della tutela a livello europeo del lavoratore disabile e del principio degli accomodamenti ragionevoli, ormai di generale applicazione),il procedimento preventivo di conciliazione potrebbe essere una felice occasione di chiarimento delle rispettive posizioni e di composizione stragiudiziale di una controversia caratterizzata da profili assai delicati, che spesso emergono solo in sede giudiziaria
