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Una breve nota biografica. Mariella Magnani, nata a Lomello (Pavia), ha conseguito la laurea in giurisprudenza con lode presso l'Università di Pavia il 13 dicembre 1972, con una tesi in diritto del lavoro, relatore Professor Tiziano Treu. Dal 1975 è iscritta all'albo degli avvocati ed è patrocinante in Cassazione. È componente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Pavia.

Già ricercatrice nell'Università di Pavia e, dal 1986, professore ordinario di diritto del lavoro nell'Università di Torino, è stata, dal 1991, professore ordinario di diritto del lavoro nella Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Pavia, ove ha fondato e diretto il corso di perfezionamento in Diritto del Lavoro fino al 2019. Il 20 gennaio 2020 le è stato conferito il titolo di Professore emerito. Dall'a.a. 2008/2009 fino all’a.a. 2024/2025 è stata anche professore a contratto nell'Università Luiss Guido Carli di Roma.

Il 30 maggio 2022 è stata nominata da Papa Francesco Giudice applicato del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano.

Ha ricoperto diversi incarichi istituzionali: dal 2002 al 2009 è stata componente della Commissione di Garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, della cui pubblicazione periodica è stata responsabile. È stata componente della commissione ministeriale incaricata di elaborare uno "Statuto dei lavori", della commissione ministeriale sulla riforma degli ammortizzatori sociali e della commissione ministeriale sul contrasto alla povertà lavorativa.

Dal 2009 al 2012 e dal 2015 al 2018 è stata componente del Consiglio direttivo dell'Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale (AIDLaSS). Dal 2013 al 2023 è stata componente del Comitato scientifico dell’associazione Avvocati Giuslavoristi Italiani (AGI).

Affianca all'attività professionale l'attività di ricerca ed editoriale: è condirettrice di Diritto delle Relazioni Industriali (Giuffrè); reporter per l'Italia dell'International Labour Law Reports (Brill Nijhoff); componente del Comitato scientifico di Argomenti di diritto del lavoro (La Tribuna); del Comitato scientifico di Lavoro Diritti Europa;del Comitato dei referee di Diritti Lavori Mercati (Esi); del Comitato di direzione del Massimario di Giurisprudenza del Lavoro (Giappichelli); del Comitato di valutazione di Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro (Giappichelli); del Comitato dei garanti di Labor (Pacini Giuridica).

È autrice di numerose pubblicazioni in materia di diritto sindacale, del lavoro e della previdenza sociale, oltre a manuali di diritto del lavoro e diritto sindacale, anche comparato (di cui alla bibliografia allegata).

                                                                   

 Hai qualche ricordo particolarmente significativo dei tuoi studi liceali svolti a Pavia, immagino?

 

Ho frequentato il liceo classico a Genova, presso l’Istituto Marcelline. Era una scuola privata ma l’esame di maturità si svolgeva presso un liceo statale e quell’anno capitò il Liceo “Cristoforo Colombo”. Il periodo di studi presso le suore, con la sua disciplina e le sue regole, ha certamente contribuito a temprare il mio carattere e ha messo in contatto me, che venivo da un paesino della Lomellina, con un ambiente elitario, frequentato dalle figlie della buona borghesia genovese, per nulla conservatore, ma anzi liberale.

 

 Dal liceo all’Università. Dove hai frequentato l’Università e da cosa è nata la scelta di giurisprudenza?

 

L’Università l’ho frequentata invece a Pavia, da studente fuori sede, condividendo con compagne di diverse Facoltà abitazioni in affitto. Non avevo alcuna vocazione specifica per il diritto, che ovviamente non avevo mai incontrato nei miei studi liceali, nel corso dei quali mi ero piuttosto appassionata alla letteratura ed alla storia dell’arte. Tuttavia, un avvocato serviva in casa, avendo i miei genitori intrapreso un’attività prima commerciale e poi industriale, e dunque toccava a me, essendo l’unica figlia.

Insomma, non sono figlia d’arte. Devo dire però che grazie all’incontro, già come matricola, con professori e con un gruppetto di compagni/compagne di belle speranze - alcuni dei quali divenuti a loro volta professori universitari - la facoltà mi è piaciuta subito. Soprattutto ero attratta dalla decifrazione della realtà attraverso le regole che stavo imparando. Ricordo la grande soddisfazione che ebbi quando, continuando i miei genitori a ricevere a casa libri da case editrici (ricordo una pubblicazione di quegli anni: la selezione del Reader’s Digest) accompagnata dall’avvertimento che se non fossero stati restituiti entro un certo termine avrebbero dovuto essere pagati, presi carta e penna e, sulla base dell’insegnamento appena ricevuto dal diritto privato per cui “chi tace non dice niente” e non invece “acconsente” (secondo il detto comune), diffidai dal continuo invio, rassicurando che avremmo custodito i libri fino a che non li avessero mandati a riprendere. Naturalmente non scrissero più.

 

 Pavia era, in un certo senso, una sede predestinata, ottima Università e ottima, anche, la Facoltà di giurisprudenza. Puoi descriverci i Professori con i quali sei entrata maggiormente in contatto? Come era la Facoltà di giurisprudenza di Pavia ai tempi di Mariella Magnani studentessa?

Sì, era una sede predestinata abitando io in provincia. Ma anche ottima, come dici tu, vista, tra l’altro, la presenza di Collegi universitari di merito, come gli storici Ghislieri e Borromeo, che spingevano naturalmente verso l’alto il livello dell’insegnamento. Inoltre, stante la dimensione limitata della Facoltà, i frequentanti, da cinquanta-sessanta del primo anno, si riducevano fisiologicamente ad una trentina negli anni successivi. Di conseguenza, era facile entrare in contatto con i professori.

Quelli del primo anno sono stati determinanti: tra essi, per la capacità didattica e di coinvolgimento degli studenti, rammento un privatista raffinato, forse non sufficientemente ricordato, Antonio Liserre, giunto a Pavia appena prima di Piero Schlesinger, che ci ha reso facile e perfino divertente lo studio del diritto privato. Accanto a lui lo storico del diritto Gabrio Lombardi, grande intellettuale cattolico, l’economista Mario Talamona e successivamente Guido Rossi. Ma non posso non ricordare anche il romanista Filippo Gallo e, negli anni successivi, Rodolfo Sacco, Vittorio Denti, Cesare Pedrazzi, Umberto Pototschnig, per fare solo qualche esempio dei grandi maestri che insegnarono a Pavia nel corso dei miei anni universitari.

Tutte persone con cui si poteva entrare direttamente in contatto, data la dimensione di “comunità” che aveva la Facoltà, salvo coloro che, per la loro naturale ritrosia, erano inavvicinabili.

Ti sei laureata nel mese di dicembre del 1972 in diritto del lavoro con Tiziano Treu. Hanno pesato, credo, l’interesse della materia ma anche il carisma del Maestro.

Mi sono laureata il 13 dicembre 1972, relatore appunto Tiziano Treu, in una sessione straordinaria del quarto anno, per consentire ai collegiali di partecipare subito al bando per borse di studio, con una tesi, per così dire sperimentale, su “Attività e diritti sindacali nella prima giurisprudenza milanese sullo Statuto dei lavoratori”. Quella tesi costituiva sostanzialmente una prova, così come quella svolta l’anno successivo da Pier Antonio Varesi, per la ricerca ideata e diretta da Treu sull’applicazione dello Statuto dei lavoratori. Si trattava di raccogliere le decisioni dei Pretori milanesi, con un meticoloso lavoro svolto in cancelleria, ordinarle, classificarle, tracciare poi le conclusioni sull’interpretazione del titolo III e dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori data da una giurisprudenza di punta come quella milanese.

Nel corso degli anni universitari, avevo maturato in realtà un interesse per gli studi di diritto civile, grazie all’empatia di Liserre e al carisma di Sacco, ma poi l’assoluta novità della materia, specie dopo la svolta dello Statuto dei lavoratori, mi ha indotta a cambiare direzione. Treu era un giovane professore con un metodo di insegnamento alternativo appreso negli Stati Uniti (più esercitazioni e relazioni su casi giurisprudenziali da parte degli studenti che lezioni cattedratiche), metodo che, del resto, a Pavia anche professori più anziani, come il processualcivilista Vittorio Denti, dopo la ventata del ’68, seguivano. Egli si dimostrò ben lieto di affidarmi quella tesi in vista della ricerca che aveva già progettato.

 

Come è proseguito il rapporto con il tuo Maestro dopo la laurea e nel seguente percorso accademico?

Il rapporto con Treu è proseguito naturalmente dopo la laurea, avendo io conseguito una borsa di studio prima rettorale, successivamente ministeriale e poi, ancora, un contratto quadriennale di ricerca (come si può vedere il mio periodo di precariato non è stato breve). Solo dopo questo periodo divenni ricercatrice e nella commissione di concorso vi era Giuseppe Pera, che ricordo nitidamente nel bello studio che fu di Alfredo Fedele e poi di Schlesinger e che, talvolta, abusivamente occupavo. Se escludiamo Mirko Fidanza, laureatosi appena prima di me e prematuramente scomparso, sono stata la prima allieva di Treu.

Il periodo indubbiamente più bello e formativo per me è stato quello immediatamente successivo alla laurea: mi ero laureata, come ho già anticipato, con una tesi che è stata un esperimento per altre tesi analoghe e per la ricerca successivamente condotta da Treu sull’applicazione dello Statuto dei lavoratori. In questa ricerca sono stata subito cooptata: ricordo le riunioni, anche domenicali, e pure con studiosi di altre materie, come il processualcivilista Michele Taruffo ed il sociologo Franco Rositi. Ma è soprattutto con la tesi che ho potuto toccare con mano il cambiamento di paradigma, come oggi non si può fare a meno di dire, portato dallo Statuto al diritto del lavoro. Treu ci accompagnava ad incontri periodici in Tribunale con i cd. pretori di assalto - ricordo benissimo, anche per la simpatia umana, Romano Canosa - ed ognuno di noi, anche i più giovani, come la sottoscritta, poteva dire la sua. Ma è stata formativa anche la frequentazione di altri ambienti, come la Fondazione Feltrinelli, dove non era raro incontrare e discutere con personalità come Giuliano Amato.

Naturalmente poi c’era il rapporto solido con la Cattolica, dove Treu aveva un incarico di insegnamento ad Economia, incarnato soprattutto dalla frequentazione con Mario Napoli e Pier Antonio Varesi; ma Treu mi spingeva a confrontarmi anche con studiosi di altre discipline, come Carlo Dell’Aringa che si occupava di economia del lavoro e di cui ricordo, accanto alla grande competenza, il tratto gentile e garbato.

A Pavia era assistente di Treu Paolo Tosi, che era stato alunno del Ghislieri e si era laureato con Rodolfo Sacco ma con tesi in diritto del lavoro; di qui i miei rapporti, anche di amicizia, con lui, cui Treu, specie all’inizio, faceva leggere i miei scritti. La comune provenienza e la conoscenza con Paolo Tosi (oltre che con grandi Maestri torinesi che erano stati miei professori a Pavia, come Rodolfo Sacco e Filippo Gallo) ha propiziato, una volta vinto il concorso a cattedra nel 1985, la mia chiamata a Torino, sbaragliando una concorrenza agguerrita come quella di Pietro Ichino e Luciano Ventura.

In parallelo con l’interesse per la ricerca universitaria hai iniziato, sin da subito, l’attività forense. È stata una scelta obbligata dalle incertezze della carriera accademica o segnata anche da un tuo preciso interesse per gli aspetti pratici del diritto?

Per entrambe le motivazioni che tu citi ho voluto completare la mia formazione con un periodo di vero praticantato, ma senza le incombenze di cancelleria e con poche udienze, in uno studio legale pavese di prim’ordine, dove tra l’altro ho potuto mettere subito in pratica quanto avevo appreso nella tesi di laurea: nessuno in studio conosceva, come la conoscevo io, la dirompente novità rappresentata dallo Statuto dei lavoratori. Superato l’esame d’avvocato, tuttavia, pur rimanendo iscritta all’albo, ho sospeso l’attività professionale, a parte qualche consulenza, per dedicarmi all’attività di ricerca. L’attività professionale l’ho ripresa, o forse veramente cominciata, al mio ritorno all’Università di Pavia, dopo il periodo di straordinariato, prima in associazione con un valoroso collega milanese, che pure era stato allievo di Treu, poi da sola con diversi giovani collaboratori; e molti si sono formati con me come avvocati nel tempo.

Credo che l’esercizio dell’attività forense sia un elemento formativo indispensabile, specie per chi studia la nostra disciplina, tant’è che chi non esercita come avvocato fa dell’altro di “pratico”, spesso esercitando come consulente nel sindacato, nelle istituzioni e persino negli organi di governo delle università.

Pur sentendomi - anzi essendo - essenzialmente un professore, è vero che il mio interesse per l’attività forense è stato, specie negli ultimi tempi, effettivo.

Nel 2019 il Presidente uscente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Pavia mi chiese di candidarmi come consigliere, nutrendo in cuor suo la speranza che potessi diventare il successivo Presidente: era comunque tradizione del Coa di Pavia avere un professore-avvocato in consiglio anche per garantire rapporti buoni e proficui con l’Università. Fui eletta ma rimasi semplice consigliere, così come lo sono tuttora (per una breve parentesi, tra il 2022 e il 2023, essendo dimissionario il presidente, lo divenni io: un lavoraccio).

La partecipazione al Consiglio dell’Ordine mi ha aperto squarci di conoscenza sulla professione e sulle miserie e nobiltà dell’avvocatura: ho però potuto incontrare persone di grande valore, che “ci credono”, credono cioè nel ruolo sociale dell’avvocatura, non solo partecipe, ma anzi protagonista dell’amministrazione della giustizia. Abbiamo un canale di conversazione telematico (in sostanza una chat) in cui ci scambiamo notizie, pareri e commenti, altrettanto se non più importante delle “adunanze”. 

Egualmente ho accostato il mondo affascinante dell’avvocatura nel suo complesso, avendo fatto parte del Comitato scientifico di AGI per dieci anni, con colleghi avvocati e professori-avvocati (Raffaele De Luca Tamajo, Franco Scarpelli, Paolo Tosi, per fare solo alcuni nomi) di grande standing, anche professionale.

Dopo il concorso a cattedra hai avuto la nomina a professore ordinario a Torino. Come era la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, con particolare riferimento all’insegnamento del diritto del lavoro?

 

A proposito di concorso a cattedra, erano stati banditi contemporaneamente due concorsi, uno da associato e uno da ordinario. Io, che ero ricercatrice e non ancora associata, partecipai ad entrambi (mi ero messa un termine interno, indotto anche dallo scetticismo con cui mio padre, che voleva per me tutt’altro, seguiva la mia “carriera”: se non fossi diventata professore entro i 35 anni di età mi sarei dimessa dall’Università: magari non l’avrei fatto, ma certo avevo una sana visione critica di chi finiva la sua carriera come ricercatore).

Vinsi il concorso di prima fascia (quindi passai direttamente dal ruolo di ricercatrice a quello di professore straordinario e poi ordinario) e mi fu riferito che anche in quella occasione un ruolo fu svolto da Beppe Pera, che, insieme ad altri professori importanti della materia, la cd. cupola, sostenne la candidatura di giovani promettenti invece di quella di “vecchie cariatidi”, termine che mi fu riferito come da lui utilizzato. E nella compagine dei giovani promettenti c’ero pure io.

Il periodo universitario a Torino è stato tanto stimolante quanto impegnativo. Stimolante perché, da una parte, erano ancora gli anni buoni della Fiat con tutto quel che ne consegue in termini di fermento sociale; d’altra parte, la Facoltà - io come più giovane ed ultima arrivata ero segretaria in Consiglio di facoltà - era composta da grandi Maestri con forti personalità, alcuni dei quali, come ho ricordato, erano stati miei professori a Pavia. Ricordo assai bene Sacco, Gallo, Carlo Federico Grosso, Gastone Cottino, Enrico di Robilant, Gustavo Zagrebelsky, Sergio Chiarloni. I Consigli di facoltà erano molto vivaci ed “inderogabili”, nel senso che essi prevalevano sulle lezioni per giurisprudenza torinese, e molte volte mi è stato chiesto di rettificare il verbale per edulcorare o, al contrario, puntualizzare espressioni utilizzate nel corso di accese discussioni. Diciamo che anche da questi Maestri non della mia materia ho molto imparato, per osmosi.

Il periodo però è stato anche impegnativo perché la facoltà era composta essenzialmente da torinesi, che avevano grande coscienza di sé e del prestigio della facoltà, sicché ai “milanesi” (tutti quelli che venivano da fuori Torino, peraltro pochissimi  - Tosi, Raffaella Lanzillo, Giovanni Furgiuele ed io - erano detti milanesi, anche Furgiuele che pure era fiorentino) non venivano fatti sconti: bisognava fare lezione ed essere presenti tre giorni la settimana, senza peraltro riuscire veramente ad integrarsi nell’ambiente (è ben nota la “riservatezza” dei torinesi). Si aggiunga che il salto tra la piccola facoltà di Pavia, dove a lezione avevamo una trentina di studenti, e la grande facoltà di Torino, dove a lezione c’erano duecento studenti, era grande. Peraltro, tranne un anno in cui, giovanissima, ho sostituito informalmente - informalmente perché il prestigio della sede pavese implicava che solo i professori ordinari potessero tenere un insegnamento - Treu in sabbatico, non avevo mai avuto un corso mio: puoi immaginare anche l’apprensione con cui affrontavo quella folla di studenti. Preparavo le lezioni in modo maniacale e probabilmente esse sono state le lezioni più belle che abbia fatto. Certamente hanno costituito la base per il manuale di Diritto sindacale, la parte della nostra disciplina che la scuola ed anche la sottoscritta prediligeva.

 Ho incontrato alcuni mesi fa un mio studente di quegli anni, ora brillante professore ordinario di diritto commerciale a Firenze, che ricordava le lezioni di quella giovane professoressa. Il rapporto con Paolo Tosi si è cementato in quegli anni, in cui c’era la consuetudine di trovarsi a cena, spesso a casa di Giovanni Villani, prima assistente, poi diventato associato, di diritto del lavoro.

Dopo cinque anni sei ritornata alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia. Nel frattempo, come era cambiata la tua Facoltà dai tempi universitari e dai primi anni di ricerca?

 

La Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia non era nel frattempo molto cambiata; restavano le sue colonne portanti (Vittorio Denti, Michele Taruffo, Corrado Ferri, Franco Mosconi, Vittorio Grevi, Andrea Belvedere) affiancati dagli allievi dei docenti che avevano lasciato Pavia, miei coetanei (ricordo, in particolare, Aldo Travi e Carlo Granelli).

Il mio ritorno a Pavia è stato segnato dall’intensificazione dei rapporti con la Cattolica, specie con Mario Napoli, con cui abbiamo dato vita ad un dottorato consortile, con sede amministrativa a Pavia. Alcuni milanesi come Matteo Corti sono dottori di ricerca “pavesi” dato che Pavia rilasciava il titolo. Avevamo in quel periodo, all’interno del dottorato, una intensa attività di ricerca ed anche didattica: ricordo una magnifica rilettura dei classici ideata da Mario Napoli, in cui a me era stato assegnato - e non casualmente, data la capacità di Mario di leggere le persone - la rifondazione civilistica del diritto del lavoro dopo il periodo corporativo, che era stato affidato invece a Massimo Roccella. Ma, poi, grazie all’appoggio dei collegi di merito ed in particolare del Ghislieri e del Borromeo, che fornivano anche allievi di livello, ho potuto organizzare in quelle sedi prestigiose conferenze, di solito serali, con gli allora grandi della materia, da Gino Giugni a Umberto Romagnoli a Giuseppe Pera (diciamo che il coraggio non mi è mai mancato).

Solo un flash per Giugni, che considero, e posso testimoniare che era considerato non solo da Treu, ma anche da Luigi Mengoni, il più bravo giuslavorista italiano. Ho avuto occasione di incontrarlo più volte: mi ha sempre colpito la sua semplicità nel porgere (del resto si è sempre detto: pensate scientificamente ma porgete con semplicità) anche concetti complessi, la sua chiarezza (penso che il valore della chiarezza/profondità sia misconosciuto), la facilità di entrare in rapporto con lui. Tra i libri che Treu mi ha consigliato/imposto di leggere innanzitutto ci sono stati “Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva” (di cui ho capito solo più tardi il valore essenzialmente metodologico) e “Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro”, una delle più belle monografie che abbia mai letto. 

 In oltre trent’anni di attività universitaria, come professore titolare della cattedra di diritto del lavoro a Pavia, sono tante le iniziative scientifiche e di formazione che hai promosso... Vuoi descriverci quelle più importanti? A cominciare dal Corso di perfezionamento in diritto del lavoro, del quale sei stata fondatrice e direttrice.

 

Del dottorato di ricerca, fucina di giovani talenti, molti dei quali forzatamente o per scelta hanno preso strade diverse dall’accademia - andando spesso a ricoprire ruoli di primo piano in importanti studi professionali - e di altre iniziative scientifiche ho detto prima.

Nel 2011, sull’esempio di quanto avveniva in altre Università, ho dato avvio ad un corso di perfezionamento post-laurea in diritto del lavoro che, grazie alla elevata qualità dei docenti non solo professori ma anche magistrati ed avvocati, ha avuto subito successo, nonostante la relativa perifericità geografica di Pavia, poi superata dopo il periodo covid con le lezioni da remoto. Di questo corso di perfezionamento sono stata direttrice fino al mio pensionamento, avvenuto nel 2019. Ma devo aggiungere la Commissione di certificazione dei contratti di lavoro, cui ho dato avvio grazie alla conoscenza con Michele Tiraboschi, nel lavoro comune alla Commissione di Garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

Appunto, tra gli incarichi istituzionali più importanti c’è quello che hai ricoperto dal 2002 al 2009 come membro della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Come è arrivata la Tua nomina e quale era la composizione della Commissione?

 

Non vi è dubbio che tra gli incarichi istituzionali più importanti ci sia stato quello di componente della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, di cui sono stata chiamata a far parte nel 2002, con il rituale decreto del Presidente della Repubblica.

Nella prima consiliatura ho avuto la ventura di conoscere meglio e lavorare con colleghi di tutt’altro ambiente e formazione come Michele Tiraboschi, Giampiero Proia, Antonio Vallebona. È stato un periodo vivace dal punto di vista della conflittualità sindacale: ciascun commissario aveva un settore principale di cui occuparsi e altri settori di contorno. Io avevo “ereditato” da Giorgio Ghezzi il settore del trasporto pubblico locale, in quegli anni attraversato da grande conflittualità: si trattava anche di fare fronte tecnicamente al fenomeno degli scioperi spontanei, che non si sapeva come catturare dal punto di vista sanzionatorio, dal momento che la legge, come sappiamo, scommette sulla capacità delle associazioni sindacali di governare il conflitto. Di fronte agli scioperi spontanei abbiamo fatto ricorso alla figura civilistica del comitato (il comitato spontaneo di sciopero), con esiti incerti.

Ricordo anche gli svariati e delicati problemi causati dagli scioperi generali (allora all’ordine del giorno, forse come in questi giorni), risolti con una delibera abbastanza creativa. Si discuteva e discuteva in commissione e alla fine si riusciva a trovare una sintesi.

Su mia proposta abbiamo creato in quel periodo la newsletter della Commissione di garanzia, che, finché sono rimasta, cioè fino al 2009, ho diretto; ho scritto diversi editoriali non di circostanza ma di contenuto, rivedendo i quali mi accorgo che riguardano problemi ancora attuali del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

Quel periodo è stato ricco comunque di cose nuove per me: innanzitutto, dopo l’assassinio di Marco Biagi i componenti della Commissione erano stati messi sotto tutela (ciò significa che la polizia mi prendeva la mattina e mi lasciava la sera, me come gli altri componenti della Commissione); in secondo luogo Michele Tiraboschi mi ha proposto l’ingresso nella direzione di Diritto delle relazioni industriali, fino ad allora diretta, dopo appunto la morte di Biagi, dallo stesso Tiraboschi e da Treu. Anche quella un’esperienza impegnativa, ma molto bella ed interessante che tuttora continua.

Come ho anticipato, grazie alla conoscenza con Tiraboschi ho anche dato avvio alla Commissione di certificazione dei contratti di lavoro all’Università di Pavia: l’istituto della certificazione era grandemente osteggiato dalla cultura giuslavoristica italiana, non tanto per motivi tecnici (è evidente a tutti che la certificazione è sempre rovesciabile dal giudice) ma perché prevista dalla cd. legge Biagi che, preceduta dal “limaccioso” Libro Bianco, sembrava voler attentare alla monoliticità della norma inderogabile e perseguire la strada della taylorizzazione della disciplina dei rapporti di lavoro. Io, che sono sempre stata incline alla sperimentazione, mi sono dichiarata disponibile: solo che non potevo fungere da Presidente perché ero professore a tempo definito, sicché si è ricorsi all’escamotage di nominare Presidente Marco Ferraresi, allora ricercatore a tempo pieno, ed io, col decreto di riconoscimento del Ministro del lavoro del 2011, sono entrata come semplice componente (con un’interpretazione creativa della norma sulla incompatibilità).

 Devo dire che i miei allievi erano piuttosto scettici (a cominciare da Andrea Bollani e Marco Ferraresi), ma in seguito hanno dovuto ricredersi, sia a fronte dei buoni risultati pratici della certificazione (tanto che poi c’è stata la corsa delle diverse Università al riconoscimento) sia a fronte delle ingenti risorse che entrano in Università grazie a questa attività e consentono di finanziare assegni di ricerca e varie altre attività scientifiche, sia infine a fronte della esperienza  maturata  dai nostri ricercatori che non svolgono attività professionale e che è utile basamento per le loro ricerche. Il tutto esercitando un controllo rigoroso almeno sui testi contrattuali, come quello esercitato dalla commissione ancora presieduta da Marco Ferraresi, cui talora imputo un eccesso di rigore, specie nei casi di qualificazione.

Il periodo coincidente con l’impegno nella Commissione di garanzia è stato, anche da un punto di vista scientifico e delle attività associative, molto fruttuoso

Mentre ero componente della Commissione sono stata nominata relatrice, con Umberto Carabelli e Alessandro Garilli, al congresso AIDLaSS che si è svolto a Teramo - Silvi Marina nel 2003. Lo ricordo perché per gli studiosi è una sorta di suggello di una raggiunta elevata maturità scientifica. Per svolgere la relazione al meglio mi sono pure recata negli Stati Uniti  alla Wharton School della Penn University dove Janice Bellace, poi divenuta presidente della Associazione internazionale di diritto del lavoro, mi ha guidato alla conoscenza di un economista, Peter Cappelli, che si stava occupando (più di vent’anni fa!) dei problemi dei contingent workers e della retention dei lavoratori (questioni che oggi tengono banco in Italia, come dimostra la diffusione di patti di non concorrenza e durata minima garantita per i datori di lavoro, nonché di misure welfaristiche che rendono più difficile il distacco dall’azienda). Mi ha pure procurato un invito per una conferenza ad Harvard di Robert Reich, già Ministro del lavoro ed autore di un libro di discreta notorietà, intitolato “L’infelicità del successo”. La conferenza e la serata ad Harvard hanno dischiuso la mia mente a prospettive totalmente diverse dalle nostre.

Peraltro, al mondo anglosassone ero già abituata essendo stata diverse volte in estate a Oxford o ancor di più a Cambridge, tra la fine di luglio ed agosto, a studiare, incontrando studiosi come Davies, Deakin, Barnard, che una sera - raccomandandomi “spalle coperte” - mi ha invitata al Trinity College, dove ho avuto la ventura di sedere al tavolo con Amartya Sen. Il giorno dopo, per puro caso, ho incontrato Riccardo Del Punta che si recava a conoscere Simon Deakin, cui, scherzando, ho detto che, se avesse voluto, avrei potuto introdurlo alla conoscenza con Sen, cui lui ambiva. E si è visto che era proprio così, dai suoi successivi studi.

La conoscenza dell’ambiente romano e il riconoscimento alla sottoscritta di doti di equilibrio (che francamente non so quanto possegga) hanno fatto in modo che una gran parte della accademia mi proponesse di candidarmi alla presidenza AIDLaSS. Stanti i suggerimenti, soprattutto domestici, declinai e fu eletto Edoardo Ghera. Le donne non sono mai state capaci (se non pochissime della mia generazione) a porsi problemi di potere, ammesso che la presidenza dell’AIDLaSS implichi l’esercizio di potere.

Il treno non passò più. Alle successive elezioni si candidò Raffaele De Luca Tamajo e mi volle nella sua squadra, al cui successo io contribuii. Quella consiliatura fu molto proficua: fu una consiliatura dialogante, anche grazie ai rapporti personali e di stima tra i componenti della cd. maggioranza, cui io appartenevo, e quelli della cd. minoranza. Non fu così nella successiva consiliatura, cui io partecipai come componente della minoranza, in cui già si stava consolidando una contrapposizione deleteria tra un gruppo di maggioranza oggi egemone, e in alcune frange autoreferenziale, ed uno di minoranza. Si tratta di contrapposizioni legate, mi dicono, a pure logiche di potere (ma in che campo? Le abilitazioni?) e non come avveniva in passato a diverse vedute ideologiche e pure metodologiche della nostra piccola disciplina: si pensi alla contrapposizione tra la scuola romana e quella bolognese e barese cui si è aggiunta successivamente quella milanese, creata da Tiziano Treu. Mi sembra però di intravedere oggi qualche segno, specie con l’avvento delle nuove generazioni, di superamento di quella artificiosa contrapposizione.

Il periodo coincidente con l’impegno nella Commissione di garanzia è stato molto proficuo. Dal punto di vista scientifico, chiesto un anno sabbatico, ho scritto e pubblicato nel 2006 “Il diritto del lavoro e le sue categorie. Valori e tecniche nel diritto del lavoro”, dove ho raccolto il mio pensiero, già contenuto in diversi scritti, su, appunto, le categorie del diritto del lavoro (e su “valori e tecniche”, un’espressione ed anche un tema oggi ricorrenti) evidenziando tra l’altro la “retorica”, a diritto vigente, della visione tradizionale dell’inderogabilità, già attaccata su molteplici fronti. Evidentemente il libro ha evidenziato un’esigenza di riflessione presente nella dottrina giuslavoristica, se proprio a questi temi sono state dedicate le giornate di studio AIDLaSS del 2008, relatori Patrizia Tullini e Carlo Cester.

Nel 2009 ho poi pubblicato “Diritto dei contratti di lavoro”, con cui parimenti ho voluto colmare una lacuna, dando una rappresentazione (ed una dignità) scientifica adeguata all’importanza assunta nell’ordinamento e nella realtà ai rapporti di lavoro cd. non standard. Come ho scritto nella prefazione del libro, l’impostazione della materia soffriva di un ritardo o di una difficoltà di sistemazione concettuale, giacché metteva al centro unicamente il rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, trattando in una ideale, secondaria appendice i contratti di lavoro diversi: un vasto universo rimaneva così poco o punto esplorato. E ciò mentre la realtà mostrava il progredire della differenziazione e della specializzazione. Di questo libro in molti, anche avvocati, mi hanno chiesto se vi fossero nuove edizioni, ma non sono mai riuscita a mettervi mano, non volendo snaturarlo.

Ricordo anche il ruolo che hai svolto in alcune Commissioni per riforme significative nella nostra materia. Cominciamo da quella incaricata di elaborare lo “Statuto dei lavori”.

Sì, ho avuto la ventura di partecipare alla Commissione di studio per la definizione di uno “Statuto dei lavori”, istituita nel 2004 dall’allora Ministro del lavoro Treu: l’idea dello “Statuto dei lavori”, da me sempre condivisa, scontava tuttavia una difficoltà di traduzione concreta, a cominciare dalla definizione delle fattispecie cui imputare i diversi livelli di tutela, tanto che questa Commissione, cui partecipavano colleghi grandemente titolati a discutere di questi temi come Marcello Pedrazzoli, a parte qualche lavoro preparatorio, non produsse risultati.

Hai poi fatto parte delle Commissioni ministeriali incaricate di preparare altre riforme significative per la nostra materia: quella sugli ammortizzatori sociali, nominata dalla Ministra Nunzia Catalfo nel 2020, e quella sul contrasto alla povertà lavorativa, nominata dal Ministro Andrea Orlando nel 2021.

In entrambi i casi vi è stato un gran lavoro di studio, conclusosi con la presentazione di importanti rapporti al Ministro Orlando, che nel frattempo era succeduto alla Ministra Catalfo. La prima commissione, presieduta dal Ministro del lavoro e in cui ho lavorato al fianco, tra gli altri, di colleghi come Marco Barbieri, che fungeva da coordinatore, Simonetta Renga, Vito Pinto, ha tracciato principi, contenuti e perimetro di un’organica riforma degli ammortizzatori sociali basata sull’universalismo differenziato delle tutele, un obiettivo che, ovviamente, è sempre da declinare in relazione alle condizioni del sistema economico. La successiva riforma ha seguito molto parzialmente queste indicazioni, in particolare nel settore degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto.

La seconda, quella per il contrasto alla povertà lavorativa, è stata coordinata da un giovane e brillante economista dell’OCSE, Andrea Garnero, e ha visto la partecipazione, oltre alla sottoscritta e a Silvia Cucciovino, anche di studiosi di altre discipline: il proficuo incontro con economisti e sociologi ha prodotto una relazione di tale profondità e ricchezza di spunti che il dibattito, ormai un po’ asfittico, sul salario minimo non dovrebbe ignorare. A cominciare dall’opportunità di adottare in sede regolativa della materia un approccio sperimentale, intervenendo in un numero limitato di settori caratterizzati da maggiore criticità per poterne valutare adeguatamente gli impatti economici e sul sistema di relazioni industriali.

Sei stata anche autrice di manuali, che, come avviene di solito, concentrano il pensiero dell’Autore sull’intera materia trattata. Che cosa spinge un Professore a realizzare un manuale?

Hai fatto bene a ricordarlo. Ho voluto passare dalla “prova” - perché di questo si tratta - del manuale per non disperdere il frutto di quanto appreso e poi insegnato negli anni. Ho sempre sentito la responsabilità di trasmettere quanto mi era stato consegnato dai padri della materia, portato nella realtà attuale.

Prima del pensionamento - che non mi ha impedito di insegnare altri cinque anni nella Università di Pavia ed anche nella Università LUISS Guido Carli di Roma - ho voluto consacrare, per così dire, il risultato dei miei studi e del mio insegnamento in due manuali (Diritto sindacale e Diritto del lavoro, il primo giunto alla quinta edizione, il secondo alla quarta edizione). È nato prima Diritto sindacale, preceduto a sua volta dai Casi e materiali di diritto sindacale, con Paolo Tosi e Fiorella Lunardon, un’opera che purtroppo ha visto solo due edizioni e, per gli impegni di tutti, non è più stata aggiornata. Per quella primazia che noi, intendo quelli della cd. scuola milanese, gli abbiamo sempre riconosciuto, il corso era in gran parte dedicato al diritto sindacale, considerato il diritto delle fonti, senza conoscere il quale non si può maneggiare consapevolmente il diritto del lavoro, e solo nella parte finale si toccavano i temi fondamentali del rapporto (come la qualificazione). La divisione della materia in due volumi non riflette l’idea che il diritto del lavoro non sia tutt’uno: tutt’altro, riflette l’idea che esso è un unico corpus che poggia appunto sul cd. diritto sindacale, in cui sta la specificità - più che nell’estensione della norma inderogabile - del diritto del lavoro.

In materia sindacale dobbiamo anche ricordare il manuale “Diritto sindacale europeo e comparato” (Giappichelli), giunto alla terza edizione nell’anno 2020; del resto è risaputo il tuo interesse per la comparazione giuridica, considerato che hai tenuto corsi di diritto sindacale europeo e comparato sia nell’Università di Pavia sia nell’Università LUISS Guido Carli di Roma.

 

Con “Diritto sindacale europeo e comparato”, la cui prima edizione risale al 2011, ho cercato di unire la prospettiva eurounitaria, spesso trattata troppo astrattamente e senza considerare l’interazione con i singoli ordinamenti, con quella del diritto comparato e del, tanto trascurato quanto imprescindibile, diritto internazionale privato: un’affascinante scoperta fin dagli anni dell’università. Esso ha costituito la base per un corso progredito all’Università di Pavia e anche per un corso di Diritto sindacale comparato che ho svolto alla LUISS fino allo scorso anno e che tu hai ricordato. Ora Matteo Corti e Marco Ferraresi hanno assunto l’onere di aggiornarlo. È difficile farlo da sola, specie per la parte comparata, per scrivere la quale sono stata indotta a molti viaggi all’estero: ricordo un torrido 30 luglio a Parigi nello studio di Antoine Lyon-Caen, così come un soggiorno ad Ingolstadt, dove Maximilian Fuchs mi ha accolta generosamente fornendomi il suo prezioso aiuto. Sicché finalmente una nuova edizione vedrà la luce.

La “scuola” di Tiziano Treu e i suoi insegnamenti. Cosa significa appartenere alla Scuola di un Maestro?

 

Molte cose le ho già dette. Treu è stato un maestro non convenzionale, convinto che si impara per osmosi e poi, come amava ripetere, “chi ha gambe va”. L’unica indicazione veramente forte era di guardare oltre i confini nazionali, specie al mondo e alla cultura anglosassoni di cui egli aveva fatto esperienza: di qui il mio interesse e la mia passione per il diritto comparato. Peraltro, la comparazione giuridica alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia è sempre stata di casa.

Sono stata la prima allieva diretta di Treu nel senso che ho seguito il suo corso, mi sono laureata con lui, mi sono formata e ho lavorato con lui a Pavia, intrattenendo anche rapporti con la Cattolica, fino al suo ritorno a Milano. Il nostro contatto peraltro è stato continuo, anche se rarefatto, nel corso delle sue esperienze istituzionali, in particolare ministeriali.

Ora, leggendo l’intervista che Treu ha rilasciato ad Antonella Occhino, vedo ancora più nitidamente come la mia formazione sia il prodotto delle esperienze che stava vivendo e del suo cambiamento metodologico e culturale, avvenuto proprio nei primi anni ’70: quando egli, dallo studio delle Pandette e dagli scritti di stampo civilistico, sotto la guida di Mengoni, passò allo studio della law in action e dei sistemi di relazioni industriali, sotto l’influsso dell’esperienza nordamericana e, successivamente, della frequentazione di giuristi come Federico Mancini e, soprattutto, Giugni. Non solo: come ho già ricordato, la mia tesi di laurea è stata un test per la ricerca cui io stessa ho partecipato sull’applicazione dello Statuto dei lavoratori. Dopo uno studio di stampo più civilistico (“La rinnovazione del licenziamento nullo per vizio di procedura”, per cui avevo chiesto aiuto a qualche civilista e letteralmente “saccheggiato” la voce sul Digesto di Sacco su “Nullità e annullabilità”) ero stata incoraggiata ad occuparmi di relazioni sindacali - ricordo lo studio sui Consigli di fabbrica che replicava, su un piano di inquadramento sistematico, l’indagine empirica che lo stesso Treu stava conducendo - e dei temi relativi al mercato del lavoro.

Così si spiega la mia monografia del 1984 “La mobilità interaziendale del lavoro. Profili giuridici”, che mi ha consentito di andare in cattedra. Qui ricostruivo la storica e velleitaria disciplina della l. n. 675 del 1977 - che avrebbe voluto consentire ai lavoratori esuberanti in imprese in crisi o in ristrutturazione di passare da un posto di lavoro ad un altro, evitando la parentesi della disoccupazione - sempre cercando di costringerla nel sistema e con riflessioni, che ritengo conservino molta attualità, sui limiti del potere di licenziamento per motivi economici. Nella parte de iure condendo, giungevo alla conclusione che, al fine di rendere praticabile una reale mobilità del lavoro, era necessario dotare finalmente anche il nostro ordinamento di una disciplina dei licenziamenti collettivi, uscendo dall’assurda convinzione che regolarli avrebbe significato incentivarli.

La materia era alquanto magmatica e, come mi scrisse Pera nell’accogliere la monografia nella collana da lui diretta, “regolamentare”. Tuttavia, credo di essere riuscita nel mio intento di inquadramento nel sistema, se è vero che Persiani, pur negandomi il voto, mi scrisse che notava che c’era ancora qualcuno che praticava il metodo giuridico. Credo anche di aver contribuito a creare un terreno fertile per l’attuazione pure in Italia della direttiva sui licenziamenti collettivi, avvenuta, sebbene con molto ritardo, con la l. n. 223 del 1991. L’ottima recensione da parte di Gino Giugni sul Giornale (ricordo con piacere il suo riferimento alla mia “chiarezza di stile”) mi aiutò nella chiamata alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, nonostante l’agguerrita concorrenza.

Per l’ordinariato volli però tornare a temi maneggiabili con strumenti più tradizionali: tra essi, la voce enciclopedica “Disposizione dei diritti”, pubblicata nel Digesto, IV edizione, che mi costò un anno di lavoro, ed un saggio sugli obblighi di tregua sindacale, in cui potevo dialogare più facilmente con i classici della materia.

Molte altre sono le Scuole di diritto del lavoro che si sono sviluppate nel corso degli anni, restando alla seconda metà del Novecento.

 

All’inizio della mia carriera universitaria, nella percezione mia e del mio ambiente tre erano le principali scuole: quella bolognese, quella barese e quella romana. Ad esse si è aggiunta appunto quella cd. milanese (nonostante il suo fondatore, Tiziano Treu, fosse incardinato a Pavia e pavese fosse pure Paolo Tosi). Il tratto identitario di una scuola era essenzialmente metodologico. E la scuola milanese, sebbene con le radici ben piantate nell’insegnamento mengoniano, era molto tributaria della fondamentale lezione metodologica di Giugni, specie nello studio dell’autonomia collettiva: bisogna guardarsi dall’adottare nello studio dell’autonomia collettiva e delle sue manifestazioni tecniche concettualistiche e deduttivistiche che impediscono al ricercatore di concentrarsi sulla loro specifica tipicità sociale. L’appartenenza ad una scuola trasferisce ai giovani studiosi, ma anche ai meno giovani, il vantaggio di renderli partecipi di un “sapere collettivo” di cui il singolo può approfittare o non approfittare, se non discostarsi. Questa è l’anima di una scuola.

In questo senso, specie in un’epoca di forzato eclettismo metodologico, non vedo la nascita di vere e proprie scuole nuove diverse da quelle indicate, che, forse, a loro volta, non esistono più, sebbene nei più anziani permanga il senso di appartenenza ad un comune tessuto ideale.

Nella tua produzione scientifica hai dedicato attenzione a temi centrali ed oggi ancora grandemente attuali: i vari profili dell’autonomia collettiva, la relazione tra autonomia e subordinazione, la retribuzione ed il salario minimo, i licenziamenti.

Sì, aggiungerei anche i temi del mercato del lavoro. Meno mi sono occupata di previdenza e di pubblico impiego, in questo secondo caso per scelta, trovandolo, nonostante la contrattualizzazione, un diritto del lavoro “inautentico”, secondo una risalente previsione di Mengoni, che trovo sempre fondata: la funzionalizzazione dell’azione amministrativa all’interesse pubblico è infatti sempre sullo sfondo; e ciò mentre la disciplina privatistica è determinata dalla categoria della libertà e non della funzione.

La mia predilezione è andata tuttavia ai temi delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva che, come dici tu, costituisce un problema non solo di fonti, ma anche di interferenza di poteri. In questo settore vedo molto conservatorismo, se non arretratezza culturale. Basti pensare a come viene affrontato il tema dei rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, con ancora diffuse e apodittiche affermazioni della prevalenza del contratto nazionale su quello aziendale; e ciò mentre il decentramento della contrattazione è tendenza inarrestabile.

Ma c’è del conservatorismo anche nel pretendere di rimanere ancorati a quell’astensionismo legislativo che ha caratterizzato il diritto sindacale dall’avvento della Costituzione in poi. E mi stupisce che letture dell’articolo 39 Cost. riattualizzate, ad esempio quella di Massimo D’Antona, non siano ancora state a fondo discusse, come mi sembra sia emerso anche dal recente Convegno di Ancona dell’AIDLaSS.

Insomma, gli ostacoli ad una legislazione sulla rappresentatività delle associazioni sindacali e datoriali ai fini della contrattazione collettiva non sono di carattere tecnico, ma di principio. E questo ho cercato di esprimerlo più volte in differenti scritti, tra i quali ricordo “I sindacati nella Costituzione”, pubblicato nel Giornale di diritto del lavoro del 2018. Tra l’altro, la questione di una legge sulla rappresentatività sindacale è recentemente evocata, e con forza, dalla nuova rimessione alla Corte costituzionale, dopo il monito disatteso di Corte cost. n. 231 del 2013, della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori.

 C’è poi il tema della distinzione tra autonomia, subordinazione e coordinazione.

Il secondo tema centrale che ci interroga - un tema che torna perennemente e sarà sicuramente ripreso in occasione dell’attuazione della direttiva “piattaforme” - è quello della fattispecie fondamentale di applicazione del diritto del lavoro e dunque della distinzione tra autonomia e subordinazione.

Anche a questo proposito ho già espresso più volte il mio pensiero. Al punto in cui siamo, anche a fronte dei nuovi modi di lavorare nelle imprese manifatturiere ma soprattutto nei servizi, il problema non è tanto di affinare il concetto di subordinazione, quanto di dispensare tutele graduate in relazione all’intensità delle esigenze di protezione a tutte le forme di lavoro personale (e non solo).

In ogni caso, sotto entrambi i profili, al fine di discernere autonomia e subordinazione ed articolare le tutele in relazione alle esigenze di protezione, l’articolo 2 del decreto legislativo n. 81 del 2015 può rendere il suo servizio. In particolare, il suo negletto ed anzi criticato secondo comma, che consente ai contratti collettivi di graduare fattispecie e tutele. Ma anche su questa disposizione, irretiti dal problema, spesso travisato, dell’indisponibilità del tipo, non si è mai sufficientemente alzato il velo.

Va da sé poi che entrambi i temi centrali testé evocati, e le nostre discussioni su di essi, dovranno fare i conti col nuovo contesto tecnologico, dominato dalla digitalizzazione e dall’impiego dell’intelligenza artificiale. In particolare, l’uso dell’intelligenza artificiale, che tanto ci inquieta anche per la complessità e la difficoltà di comprensione dei suoi meccanismi, dovrebbe naturalmente cospirare per l’accentuazione di una logica partecipativa, naturale appunto nel momento in cui più che di negoziare diritti si tratta di gestire anticipatamente nuovi rischi, connessi alla gestione algoritmica dei rapporti di lavoro. Altrimenti tutto finirà per essere lasciato alla sola mediazione giudiziaria.

A questo punto non posso non farti una domanda sul tema dei licenziamenti, sempre attuale e in continua evoluzione anche per i ripetuti interventi della Corte costituzionale (e della Corte di cassazione). Che cosa pensi, innanzitutto, del quadro che si è venuto a determinare? E delle proposte di riforma razionalizzatrici e semplificatrici della materia?

Sul tema dei licenziamenti ho espresso la mia opinione in modo articolato in vari scritti e da ultimo, inevitabilmente, nella stessa nuova edizione del manuale di Diritto del lavoro.

Come sappiamo, dopo due tornate riformatrici, quella del 2012 e quella del 2015, e mentre ci si attendeva che la problematica disciplina della legge Fornero con il passare del tempo lasciasse spazio all’applicazione del Jobs Act, aggregato intorno ad un’impostazione meno compromissoria, la Corte costituzionale sembra avere segnato un ritorno alla legge Fornero, con le sue ambiguità e i suoi compromessi, salvo lo scostamento che conosciamo in materia di licenziamenti collettivi.

La previsione che le sentenze della Corte del 2021 e del 2022 sul giustificato motivo oggettivo e il loro assist a favore della reintegrazione non si riverberassero sul Jobs Act è stata disattesa. Comunque la pensiamo ne usciamo un po’ tutti “con le ossa rotte”. Al di là del groviglio interpretativo che si è venuto a determinare, personalmente non credo che il riapprodo alla legge Fornero sia un esito soddisfacente per i motivi che ho enunciato in diversi scritti.

Circolano proposte di nuove riforme che siano allo stesso tempo semplificatrici e razionalizzatrici. Ma non so se qualche maggioranza parlamentare avrà la forza o il coraggio di rimettere mano ad una riforma in una materia così incandescente. E ciò neppure nell’area delle cd. piccole imprese, dove l’ultima pronuncia della Corte costituzionale ci ha lasciato con un duplice regime estremamente divaricato tra prima e dopo il 7 marzo 2015 e dove forte potrebbe essere la tentazione di lasciare al trascorrere del tempo l’unificazione della disciplina.

In ogni caso, al di là del merito, questa vicenda singolare della disciplina dei licenziamenti in Italia solleva un tema di fondo, quello dei rapporti tra legislazione e giurisdizione, di cui stiamo discutendo un po’ alla spicciolata da almeno un quindicennio, a cominciare da un bel dibattito sulla Rivista italiana di diritto del lavoro dedicato a “Il giudice e la legge”.

L’intervista volge al termine. Puoi dedicare qualche parola all’attività non comune di Giudice applicato del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, a tale compito nominata da Papa Francesco?

Nel maggio 2022, praticamente a fine carriera, Papa Francesco mi ha fatto l’onore di nominarmi per un triennio giudice applicato dello Stato della Città del Vaticano: una esperienza unica ed affascinante, dove sperimenti e sei chiamato a misurarti con un mondo nuovo: un’esperienza, anche intellettuale, che molto pretende e molto ti dà.

Ho avuto così il privilegio di vedere il diritto dal lato dello studioso, dell’avvocato, del magistrato. Tre ruoli tutti affascinanti, tra cui brillano, almeno per me, i primi due, la fatica del decidere essendo solo attenuata dal confronto del giudizio collegiale.

Puoi dedicare qualche parola anche alla Fondazione Piero e Giuseppina Magnani, nata lo scorso anno, della quale sei Presidente?

 

Sì, lo scorso anno insieme alla mia famiglia ho costituito una fondazione, la Fondazione Piero e Giuseppina Magnani ets, dal nome dei miei genitori e di cui sono Presidente, con lo scopo di contribuire allo sviluppo e alla tutela del territorio, anche dal punto di vista artistico-ambientale, e all’inclusione sociale: un modo per dare concretezza alla questione della promozione delle aree interne del nostro Paese. La Fondazione ha sede a Lomello, a sua volta sede di una bellissima basilica romanica di cui quest’anno ricorre il millenario. Gli inizi sembrano promettenti: lo scorso anno abbiamo bandito, in collaborazione con il corso di restauro architettonico dell’Università di Pavia e col patrocinio della stessa Università e del Dicastero per la cultura e l’educazione, un premio per le migliori tesi di laurea, specializzazione e dottorato in restauro di beni artistico-religiosi, con un comitato d’onore ed una giuria di altissimo profilo e che ha visto una larga partecipazione di candidati provenienti da tutta Italia e anche dall’estero.

Per finire, nella lunga carriera accademica che hai attraversato e che ti vede, già da qualche anno, Professoressa Emerita di Diritto del Lavoro nell’Università di Pavia, dove ti sei laureata e hai insegnato, c’è una cosa che ti penti di aver fatto e una che rimpiangi di non aver ancora fatto?

 

Naturalmente mi fa molto piacere aver conseguito nel gennaio del 2020 l’Emeritato, da sempre un riconoscimento, almeno così è inteso a Pavia, non solo allo studioso ma anche alla persona.

Nella mia attività di studiosa mi sono sempre attenuta all’insegnamento giugniano (studiate molto, pensate scientificamente e porgete con semplicità, in ciò aiutata dalla mia propensione naturale alla sintesi). Non occorre affliggere il lettore con tutte le letture e i tentativi che si fanno per costruire un argomento e giungere ad una conclusione. E ho cercato di insegnare, non sempre con successo, i valori che ho appreso nella mia scuola e comunque dai grandi maestri che ho incontrato: rigore, voglia di innovazione, sensibilità al mondo del lavoro ma anche al valore dell’impresa, fiducia nel dialogo e nella possibilità di riforme sostenute dalla forza della ragione. Per inciso, sono sempre stata convinta che anche la buona politica del diritto, vale a dire quella che è dichiaratamente tale, rientra appieno tra i compiti del giurista.

Per il resto, non sono molto abituata a guardare indietro; cerco, con i piedi piantati ben per terra, di mantenere lo sguardo rivolto al futuro, nella consapevolezza che ogni “luogo” dove non sei mai stato è bello.

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