Testo integrale con note e bibliografia

Il processo è come una splendida sinfonia ove il sapiente direttore d’orchestra deve coordinare e dirigere l’apporto di tutti gli strumenti musicali, sulla base di un preciso spartito, consentendo a tutti suoni di espandersi armoniosamente senza prevaricazioni di uno sull’altro.
Forse per l’abitudine familiare di ascoltare musica classica, forse per l’incontro con speciali maestri all’università (tra cui Sergio Cotta, Pietro Rescigno, Renato Scognamiglio, Matteo Dell’Olio), forse per la sconcertante e nello stesso tempo banale constatazione che ogni fenomeno associativo richiede delle regole di condotta per promuovere convivenza e cooperazione, o forse per il desiderio di concorrere alla costruzione di una società rispettosa dei diritti fondamentali, decisi - durante il percorso universitario - che il mestiere per me più confacente era quello del giudice.
Gli approfondimenti post laurea in materia di Diritto del lavoro mi convinsero che si trattava di ambito dell’ordinamento avente ad oggetto diritti di grande rilievo sociale.
Concentrando l’attenzione sul tema che mi viene proposto, il processo del lavoro, va, preliminarmente, rilevato che l’esperienza del processo assume posizione centrale, illuminando il grado di effettiva protezione assicurata, dalle fonti legali e collettive, agli interessi in conflitto.
Il problema del convincimento del giudice ai fini della decisione della causa trova la sua essenziale norma di chiusura nella regola di giudizio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.). Questa regola di giudizio è precostituita, nel senso che discende dal diritto sostanziale che il giudice è chiamato ad applicare: l’interpretazione della norma sostanziale di cui si chiede l’applicazione è, dunque, fondamentale per individuare i fatti costitutivi e i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto fatto valere dal ricorrente e, di conseguenza, per individuare il rispettivo carico probatorio delle parti ed impostare correttamente la fase istruttoria del giudizio mediante la selezione dei mezzi di prova ammissibili e rilevanti.
È stato efficacemente detto che la regola dell’onere della prova costituisce un ponte a cavallo tra diritto sostanziale e processo; è la norma di diritto sostanziale che, di volta in volta, riempie di contenuto concreto la regola generale dell’art. 2697 c.c. Di conseguenza, anche ai fini processuali, l’affidabilità, la prevedibilità, l’uniformità dell’interpretazione delle norme costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014) e ogni modifica ed innovazione normativa impone all’interprete un nuovo esercizio ermeneutico che riverbera i suoi effetti anche sulla regola di riparto degli oneri probatori.
Il nostro Presidente della Repubblica, in occasione del secondo giuramento davanti alle Camere riunite, ha raccomandato che i cittadini non debbano “avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”.
Pur se l’attuale affastellamento di fonti del diritto - nazionali e sovranazionali, spesso mal coordinate tra loro, frutto di compromessi ed elaborate con una tecnica di redazione normativa non eccelsa - lascia all’interprete ampio spazio e conseguentemente rende l’obiettivo della certezza del diritto assai difficile, si tratta, in ogni caso, di un obiettivo cui tendere con determinazione. I cittadini, che sono i destinatari delle norme, sono chiamati a conoscerle e ad osservarle; l’intervento del giudice è solo eventuale e l’affidamento che si pone in lui è anche nella prevedibilità della sua decisione, conforme a quanto in quella regola scritta potesse ragionevolmente leggersi e uguale per tutti, nel rispetto dell’art. 3 Cost. Deve, dunque, essere senz’altro condiviso l’auspicio del Capo dello Stato per orientamenti giurisprudenziali chiari e tendenzialmente stabili; il ruolo di adottare pronunzie volte ad indirizzare gli altri giudici spetta proprio alla Corte di Cassazione che esercita l’alto “magistero della nomofilachia” (Corte Cost. n. 119 del 2015).
Dunque, la regola precostituita dell’onere della prova esprime la razionalità del processo, ineliminabile in uno Stato strutturato sul principio di legalità, con il quale sarebbe incompatibile l’arbitrio del giudice che ripartisse carichi probatori secondo soggettivi giudizi di valore. Invero, anche le presunzioni - che, in un certo senso, potrebbero ritenersi un momento di “creatività” dell’interprete - sono per definizione rispettose della regola di giudizio precostituita, risolvendosi in un’operazione ermeneutica della norma sostanziale, quale fonte oggettiva di determinazione dei carichi probatori, così come anche le più audaci presunzioni semplici costituiscono un mezzo per l’adempimento della riaffermato onere probatorio a monte individuato secondo criteri oggettivi.
La regola di giudizio dell’onere della prova opera anche nel processo del lavoro, in cui sono attribuiti al giudice (art. 421 c.p.c.) poteri di iniziativa probatoria più ampi che nel processo civile ordinario; è evidente, tuttavia, che i poteri istruttori del giudice del lavoro, pur non escludendo in astratto l’operatività della regola, tendono a ridurne in concreto l’applicazione, aumentando le possibilità di accertamento dei fatti, nella tendenziale proiezione alla ricerca della verità materiale.
L’ambito entro il quale i poteri istruttori del giudice possono esplicarsi è quello delineato dai fatti affermati dalle parti. Si parla, in proposito, di onere dell’allegazione, come inseparabile compagno dell’onere della prova, nel senso che il soggetto gravato del rischio dell’incertezza su di un determinato fatto è interessato ad introdurlo in giudizio, affinché poi possa essere provato anche, eventualmente, ad iniziativa d’ufficio. Ovviamente opera anche qui - in sintonia con la regola di indifferenza della provenienza della prova - un principio di indifferenza della provenienza dell’allegazione, sicché il giudice, come può convincersi dell’esistenza di un fatto allegato da una parte in base ad una prova addotta dall’altra parte, così può istruire un fatto e, se provato, tenerne conto - salvo il limite della eccezione in senso proprio - ai fini della decisione, indipendentemente dalla parte che lo abbia affermato.
L’onere dell’allegazione, inteso come monopolio delle parti private per la delimitazione dell’ambito di fatto della lite, è collegato con i principi della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e non è affatto incompatibile con l’attribuzione al giudice di poteri istruttori, poiché questa scelta investe un problema (ossia la modalità di accertamento dei fatti di causa) logicamente successivo e distinto.
La caratteristica, dunque, più rilevante della fase iniziale del processo del lavoro è quella dell’onere di allegazione immediata per entrambe le parti con conseguente severa preclusione di allegazioni tardive, che si combina, nel corso della successiva fase istruttoria, con la possibile ammissione d’ufficio di mezzi di prova non richiesti dalle parti. Questi due aspetti, apparentemente confliggenti, sono il compendio di due fondamentali esigenze: da un lato, atteso il carattere almeno parzialmente indisponibile delle situazioni soggettive che ne costituiscono l’oggetto, il processo del lavoro deve necessariamente avere in modo particolarmente accentuato l’obiettivo del perseguimento della verità materiale, e deve quindi evitare il rischio che la rimessione dell’attività istruttoria alla totale disponibilità delle parti private determini una sostanziale violazione o disapplicazione di una disciplina sostanziale inderogabile; dall’altro, in considerazione della particolare deteriorabilità delle situazioni soggettive implicate nel rapporto di lavoro (e più in generale della necessità di garantire effettività alla tutela giurisdizionale), il processo del lavoro, ancorché senza incidere sulla pienezza della cognizione, deve essere rapido e tale rapidità viene ottenuta mediante un massiccio ricorso alla tecnica delle preclusioni, tecnica che, se non adeguatamente temperata, rischia - stante l’impossibilità di allegazione di fatti e di prove tardive - di incidere negativamente sulla giustizia sostanziale della decisione.
Il libero interrogatorio delle parti nel contesto del principio di concentrazione del processo, il tentativo di conciliazione, l’ammissione delle prove chieste dalle parti, l’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi, richiedono come presupposto irrinunciabile che il giudice e gli avvocati conoscano perfettamente la causa sia relativamente ai fatti dedotti in giudizio, sia relativamente alle problematiche giuridiche che la trattazione della causa comporta: questo obiettivo si raggiunge solamente richiedendo alle parti di allegare tempestivamente i fatti posti a base delle rispettive domande ed eccezioni.
La rigidità del sistema rigoroso di preclusioni e decadenze è, dunque, bilanciata dal potere istruttorio d’ufficio che deve limitarsi ai fatti allegati tempestivamente ed comporta l’obbligo di motivare — in ossequio a quanto prescritto dall’art. 111, primo comma, Cost. sul giusto processo regolato dalla legge — in ordine alle ragioni per le quali si reputi far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, si ritenga, invece, di non farvi ricorso (Cass. SS.UU. nn. 11353 del 2004 e 8202 del 2005; Cass. Cass. n. 19305 del 2016).
In ossequio al principio della domanda, l’allegazione dei fatti è potere che compete esclusivamente alle parti e la garanzia della imparzialità del giudice comporta che i poteri istruttori d’ufficio — pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi — non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale (Cass. 8 febbraio 2002, n. 12002).
Il corretto esercizio del potere officioso conferito al giudice postula l’esistenza, in seno al processo, tanto di taluni elementi positivi, quanto l’assenza di altri, ed opposti, elementi ostativi, onde non travalicare l’ambito della previsione legislativa ed evitare, pertanto, di cadere nell’arbitrio scaturente dalla sovrapposizione della volontà del giudicante a quella delle parti in conflitto di interessi, e non oltrepassare, così, il limite obbligato della terzietà che, comunque, deve sorreggere l’attività del giudicante (e sulla quale gli ampliati poteri, pur applicati in senso lato, non possono prevalere). Elementi positivi devono, pertanto, essere considerati la circostanza che, dall’esposizione dei fatti compiuta dalle parti — o dall’assunzione degli altri mezzi di prova offerti dalle stesse — siano dedotti, pur se implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei a sorreggere (sia pur non compiutamente) le rispettive ragioni con profili di decisività della controversia; gli elementi negativi afferiscono, invece, ai limiti che l’attribuzione al giudice di poteri istruttori d’ufficio incontra, e concernono il rispetto del principio della domanda, l’onere di deduzione in giudizio dei fatti costitutivi, impeditivi od estintivi del diritto controverso, il rispetto del divieto di utilizzazione della conoscenza privata da parte del giudice, l’eventuale inerzia probatoria, ovvero l’eventuale rinuncia, esplicita o per facta concludentia, della parte, cui il giudice non può ovviare con il suo potere officioso (Cass. n. 3228 del 2001).
Insomma, il miglior approccio di un giudice, ad ogni caso singolo, è quello che rifiuta ogni arroganza cognitiva, che sia consapevole del carattere relativo dell’accertamento giudiziale e che non abbia la presunzione di essere nel possesso monopolistico della verità: il giudice, con umiltà e paziente determinazione deve, dapprima, interpretare la norma di diritto sostanziale e individuare gli elementi della fattispecie ascrivendoli all’area dei fatti costitutivi oppure a quella dei fatti ripetitivi, modificativi ed estintivi e, successivamente, acquisire le prove con riferimento ai fatti tempestivamente allegati dalle parti, eventualmente ricorrendo anche ai suoi poteri d’ufficio, al fine di agevolare la ricerca della verità materiale, in tal modo ribadendo e accentuando il carattere di extrema ratio della regola di giudizio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.

 

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