TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il tema del processo del lavoro è tra quelli su cui più si è caratterizzata, nel corso del tempo, l’identità della Cisl che, a proposito degli strumenti di risoluzione delle controversie di lavoro, ha sin dalle origini manifestato una propria impostazione culturale. Da qui le differenze più o meno marcate con le altre confederazioni sindacali che, in occasione del cinquantesimo anniversario del processo del lavoro, può essere utile ricordare.

La riforma del 1973, com’è noto, ha completato un percorso avviato con la legge sui licenziamenti (legge 15 luglio 1966, n. 604) e culminato con lo Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), che ha avuto per obiettivo quello di accrescere i diritti dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali sul luogo di lavoro.

La posizione della Cisl è stata da sempre quella di promuovere la via della composizione autonoma delle controversie di lavoro, nella convinzione che la conciliazione della controversia o la sua risoluzione tramite lodo arbitrale sia un’attività strettamente collegata a quella negoziale, per cui le stesse parti che definiscono le regole dei rapporti di lavoro sono poi quelle più idonee a risolvere le questioni che possono derivare in merito alla loro concreta applicazione.

Per la Cisl la contrattazione collettiva rappresenta lo strumento più adeguato per realizzare la tutela del lavoro e la partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese (sia concesso il richiamo alla proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione che la Cisl ha recentemente presentato); ne consegue che alle parti sociali spetti anche la fase di interpretazione e applicazione delle norme contrattuali sul piano concreto.

Tale attività non è infatti prerogativa esclusiva del percorso giudiziale, come aveva invece già imposto il fascismo, con l’emanazione delle leggi organiche sul processo del lavoro, che avevano messo fine all’esperienza delle commissioni arbitrali. Un modello che ha largamente ispirato il codice di procedura civile del 1942 e non del tutto superato dalla riforma del processo del lavoro del 1973. La riforma, pur apprezzabile in quanto volta ad assicurare un processo più rapido rispetto a quello ordinario, con regole “speciali” tese a garantire tempi brevi di risoluzione delle liti, tuttavia non valorizza a pieno gli strumenti di soluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro, quali la conciliazione e l’arbitrato.

Negli anni, si è potuto osservare come tale modello abbia evidenziato i suoi limiti, con un allungamento dei tempi di definizione dei processi del lavoro, che in molti casi sono arrivati a superare anche quelli relativi alle cause civili.

E’ da sottolineare che la Cisl fin dagli anni ‘50 ha presentato proposte volte a promuovere gli strumenti stragiudiziali delle controversie di lavoro.
Tra le altre, nel 1960, la Cisl, per il tramite del suo segretario generale Bruno Storti, allora senatore, formulò una proposta di legge (n. 2681/1960) che aveva per oggetto l’ampliamento dell’utilizzo dell’arbitrato con riguardo alla risoluzione delle controversie in tema di interpretazione e applicazione dei contratti collettivi di lavoro e, soprattutto, la costituzione di un sistema di commissioni paritetiche di conciliazione articolato su base provinciale. Proposta che ebbe, tra i suoi sostenitori, anche un giovane Gino Giugni che, alla luce dell’insegnamento della scuola istituzionalista statunitense, riteneva l’arbitrato uno strumento chiave per lo sviluppo dell’ordinamento intersindacale.
Tutto ciò, come anticipato, nella convinzione che appartenesse alle funzioni e agli scopi del sindacato intervenire nella fase di risoluzione delle controversie di lavoro, in opposizione a chi riteneva, anche all’interno del sindacato, che l’attività giurisdizionale fosse estranea alla natura del sindacato e piuttosto da affidare ad avvocati e consulenti, anche non organici all’associazione sindacale.

Tuttavia, tranne rare eccezioni, le proposte e le posizioni della Cisl in materia sono rimaste tutto sommato isolate, anche nella stessa comunità scientifica dei giuslavoristi.

Nell’ambito del “nuovo” processo del lavoro, del 1973 il rilievo degli strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro rimase alquanto limitato e comunque non inteso come prosecuzione naturale della contrattazione collettiva ma, piuttosto, come mero strumento di deflazione del carico pendente dei tribunali italiani. La riforma, inoltre, operò una scissione tra conciliazione e arbitrato: la prima veniva infatti riconosciuta nella misura in cui consentisse di filtrare le controversie portate in giudizio; il secondo, fu ammesso, ma in parte depotenziato, stante la possibilità di impugnare successivamente il giudizio arbitrale.

Permaneva, in conclusione la preferenza verso gli strumenti giudiziali rispetto a quelli stragiudiziali, da considerare in posizione subalterna, in quanto teoricamente sprovvisti delle garanzie formali e procedurali ritenute necessarie.

Tale impostazione pare sostanzialmente confermata negli anni successivi, nonostante i pur significativi interventi di inizio anni Duemila, dal Libro Bianco del 2001 al Collegato Lavoro del 2010, volti ad ampliare le modalità di intervento dei terzi nella risoluzione delle controversiedi lavoro. In particolare sono da ricordare le ulteriori forme di conciliazione, accanto a quella in sede amministrativa, sindacale e giudiziale, previste dalla disciplina attuativa della cd. “legge Biagi” (legge n. 30/2003), quali la conciliazione presso le sedi di certificazione, tra cui gli enti bilaterali, e la conciliazione monocratica, disposta in sede di intervento ispettivo. Il Collegato lavoro (legge n. 183/2010) rende peraltro, tranne rare eccezioni, non più obbligatorio mafacoltativo il tentativo di conciliazione.

Non sono certo mancati, nello spirito di adattamento che sempre caratterizza le relazioni sindacali, i tentativi di assorbire il momento giudiziario da parte dell’azione sindacale, arrivando anche a ipotizzare la creazione di figure specifiche (quali conciliatori e arbitri) o avvalendosi di propri avvocati “militanti”, in una logica di utilizzo del processo del lavoro «in chiave politico-strategica», soprattutto alla luce dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.

È peraltro recente lo spazio che il sindacato potrebbe ritagliarsi nell’ambito delle c.d. class action, introdotte dalla legge n. 31/2019. Tramite queste, le associazioni di rappresentanza di interessi, tra cui il sindacato, sonolegittimate ad agire in giudizio per tutelare posizioni giuridiche della collettività dei lavoratori rappresentati, anche oltre l’ambito di applicazione del ricorso ai sensi dell’art. 28, dello Statuto dei lavoratori. Anche in questo caso tuttavia si rimane pur sempre nell’alveo dei confini definiti dal legislatore nazionale e di un intervento all’interno dei percorsi di giustizia ordinamentale.

Da ultimo, la disciplina attuativa della cd. “riforma Cartabia” (cfr. in particolare il d.lgs. n. 149/2022, di attuazione della legge n. 206/2021) se da un lato punta ad assicurare un modello rapido ed efficiente della giustizia del lavoro, abrogando tra l’altro il cd. “rito Fornero” in tema di impugnativa dei licenziamenti, dall’altro aprendo alla “negoziazione assistita” delle controversie di lavoro anche da parte di avvocati e consulenti del lavoro, con carattere di inoppugnabilità, opera un indebito intervento sul ruolo delle parti sociali, specie su materie di matrice contrattuale (ad esempio retribuzione, indennità, mansioni, orario….).

In conclusione, è da ritenere ancora in buona parte inespresso il potenziale offerto dalla contrattazione collettiva in materia di risoluzione del contenzioso dilavoro.
Segnali di particolare interesse al riguardo arrivano dalla varietà e dalla ricchezza di molti testi contrattuali vigenti. Se si prendono infatti a riferimento i principali CCNL operanti nel nostro Paese, dal mondo dell’agricoltura, dell’industria alle principali aree del terziario, si può osservare un costante impegno delle parti sociali non solo a prevenire, ma anche a risolvere autonomamente le situazioni di conflitto delle diverse realtà settoriali, attraverso un’ampia serie di strumenti. Questi vanno dalle procedure di conciliazione alle diverse forme di arbitrato e coinvolgono una pluralità di sedi e di organismi bilaterali.

Le disposizioni mediante le quali le parti si vincolano reciprocamente alla risoluzione delle controversie individuali e collettive possono essere lette come una mera “opportunità”, volontariamente individuata dalle stesse, per giungere ad una rapida e più economica soluzione delle controversie. Al contempo esse rappresentano un modo per ribadire con forza l’autonomia e l’autosufficienza dell’ordinamento intersindacale rispetto all’ordinamento statale. Una lezione da riscoprire in occasione dei 50 anni dalla riforma del processo del lavoro.

 

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