TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Premessa
La riforma del processo civile relativa all'appello prevede notevoli modifiche rispetto al passato; in particolare mutano la figura e la funzione del giudice istruttore che, invece, nell'appello con il rito lavoro mantiene poteri e funzioni non diverse dal rito previgente, dove il ruolo era e rimane limitato alla assunzione delle prove, senza poteri decisionali della causa. In altri termini: nell’appello con il rito lavoro la figura del giudice istruttore si ritiene, in generale, incompatibile con la disciplina e le caratteristiche di necessaria collegialità che caratterizzano il rito, oltre che non espressamente prevista dal legislatore della riforma. L’art. 437 c.p.c. non è stato modificato negli stessi termini in cui è stato modificato l’art. 350 c.p.c. che, all’attuale primo comma, nell’ambito del rito ordinario, prevede che “Davanti alla corte d’appello la trattazione dell’appello è affidata all’istruttore, se nominato, e la decisione è collegiale”. Se ne desume che nell’appello con il rito lavoro rimane in vigore il principio di collegialità sia nella fase di trattazione, che nella fase di decisione.
Il processo con il rito lavoro in appello non subisce dunque considerevoli modifiche, salvo l'adattamento al mutato rito ordinario; ad esempio, il contenuto del ricorso in appello rito lavoro viene innovato in modo da renderlo più omogeneo e simile al mutato rito ordinario civile. Altra modifica, sempre finalizzata allo stesso scopo, riguarda la materia della improcedibilità, inammissibilità, manifesta infondatezza, manifesta fondatezza, relativamente alla quale è previsto un procedimento definitorio rapido, sempre fatta salva la peculiarità del rito lavoro rispetto al rito civile in ordine alla formale lettura del dispositivo.
Per esperienza diretta quale Presidente della sezione lavoro della Corte, nella quale non esiste la c.d. udienza filtro, le pronunzie di inammissibilità o di manifesta infondatezza del ricorso sono state molto limitate e l'istituto è risultato poco pratico, per altro richiedendo tale motivazione un tempo di stesura molto simile a quello di una pronunzia nel merito (ed essendo assai facile attaccare in Cassazione una sentenza che non si pronunzia nel merito). La riforma invece spinge nella direzione di incrementare detta tipologia di pronunzie definitorie, evitando lungaggini processuali su di un contenzioso quasi pretestuoso e lo scopo del legislatore è del tutto condivisibile anche dal punto di vista di chi opera nel campo giuslavoristico da lungo tempo. Come ogni riforma significativa, essa comporta un cambio assai netto da parte degli operatori (avvocati e componenti del Collegio giudicante) nella valorizzazione dei principi allo scopo di attuare la riforma, sfrondando il contenzioso da cause fondamentalmente inutili per concentrare l'attenzione sul contenzioso vero e serio che solo giustifica la pronunzia del giudice professionale nella formula collegiale.
Verranno di seguito esaminati i vari temi di riforma, facendo ampi riferimenti alle relazioni illustrative esistenti ed ai contributi dottrinali finora pubblicati.
1. Il contenuto del ricorso in appello e la valorizzazione del requisito della “specificità”
La norma di riferimento, che riguarda sia l’appello principale che l’appello incidentale, è l’art. 434 c.p.c., che, per quanto di interesse, nel testo novellato prevede:
“ Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall'articolo 414. L'appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico:
1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato;
2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado;
3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.
Il testo antevigente era il seguente:
“Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall'articolo 414. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità:
1)l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.
La novella si applica alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023, quindi ai processi d’appello il cui ricorso introduttivo sia stato depositato a decorrere dal 1°.3.2023 (art. 35, comma 4, d.lgs. n. 149/2022 come modificato dalla L. n. 197/2022).
L'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale nella vigenza della vecchia norma aveva chiarito la natura del giudizio di appello, pervenendo alla conclusione che esso non è un c.d. novum iudicium con effetto devolutivo generale e illimitato e cioè non è una riedizione del giudizio svolto in primo grado a fronte di una generica censura di ingiustizia della sentenza impugnata. L’appello ha natura di c.d. revisio prioris instantiae, ovverosia di strumento processuale volto a correggere ben individuati errori in una decisione già resa sul “bene della vita” azionato in primo grado, ancorché nell’ambito di un mezzo di impugnazione a critica libera e non vincolata ad un catalogo di motivi tassativamente individuati dal legislatore (a differenza del giudizio di Cassazione).
In tale prospettiva è stato, innanzitutto, interpretato il richiamo dell’art. 434 c.p.c. alle indicazioni prescritte per il ricorso di primo grado dall'art. 414 c.p.c.. Trattasi di un elemento normativo coerente con il richiamo che, in via generale per i procedimenti d’appello, l’art. 359 c.p.c. opera alle norme dettate per il procedimento di primo grado, in quanto applicabili.
In particolare, il punto qualificante su cui si è incentrato il dibattito è il diverso atteggiarsi, in considerazione della natura del giudizio di appello, dei requisiti indicati ai numeri 3) e 4) dell'art. 414 c.p.c. nell’ambito dell’atto di appello, rispetto al ricorso di primo grado . Ed invero, se l'oggetto “immediato” del giudizio di appello è il provvedimento giudiziale impugnato (che ha statuito in ordine al bene della vita controverso), l’oggetto “immediato” della domanda dell’appellante coinciderà con la riforma totale o parziale della sentenza medesima e gli elementi sui quali tale domanda si fonda coincideranno con i motivi di appello. Se, poi, la parte appellante è anche la parte ricorrente in primo grado, essa indicherà, per effetto del richiamo all'art. 414 c.p.c., anche l’oggetto “mediato” dell’appello: il bene della vita richiesto nell'atto introduttivo del primo grado .
A differenza del richiamo alle indicazioni contenute nell’art. 414 c.p.c., che rappresenta un elemento di continuità nel tempo, la formulazione dell’articolo in esame ha registrato una significativa evoluzione con riferimento al requisito della specificità dei motivi di critica alla sentenza impugnata, che il legislatore ha progressivamente enfatizzato.
Ed invero, il testo dell'art. 434 c.p.c. anteriore alla riforma del 2012 si limitava a richiedere: - l'esposizione sommaria dei fatti (prescrizione che la dottrina aveva interpretato come indicazione degli elementi di fatto indispensabili per la cognizione da parte del giudice di appello dei termini della controversia e dei motivi di impugnazione); - i motivi specifici dell’impugnazione, in funzione selettiva dell’effetto devolutivo (individuazione del c.d. quantum appellatum, ossia del perimetro entro il quale deve svolgersi il riesame della sentenza impugnata).
Ancorché la disposizione non prevedesse alcuna sanzione per la violazione del requisito di specificità dei motivi, già sotto la vigenza di tale formulazione si riteneva nullo l’atto di appello che non contenesse la specificazione dei motivi di impugnazione e, in particolare, che non contenesse il “necessario supporto esplicativo idoneo a confutare le ragioni esposte nella sentenza impugnata a sostegno delle statuizioni finali emesse” (Cass. n. 10596/2004). Un indirizzo minoritario riteneva trattarsi di nullità sanabile ex nunc dalla costituzione del convenuto (Cass., S.U., n. 4991/1987), mentre l’indirizzo maggioritario riteneva trattarsi di nullità insanabile, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata e quindi inammissibilità dell'appello, posto che il giudizio non poteva proseguire verso la sua naturale conclusione. Tale ricostruzione, dunque, escludeva qualsiasi possibilità di sanatoria (Cass. n. 8377/1995; Cass. S.U. n. 16/2000; Cass. n. 10401/2021; Cass. n. 12218/2003).
Il legislatore del 2012 - nell’ambito di una riforma volta alla razionalizzazione del processo civile e al perseguimento dell’obiettivo della sua ragionevole durata, pregiudicata, in appello, in particolare dall’elevato numero dei procedimenti pendenti - oltre ad esplicitare testualmente la sanzione processuale dell’inammissibilità dell’appello, ha reso più stringente, rispetto al passato, il requisito di specificità dei motivi.
In particolare, il requisito della specificità, ancorché in quella versione dell'art. 434 c.p.c. non testualmente indicato (la disposizione richiede che “L’appello deve essere motivato”) emerge implicitamente dall’articolazione del contenuto della motivazione richiesto dalla norma medesima a pena di inammissibilità: “ 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.
Si è trattato, dunque, del primo tentativo di recuperare efficienza (anche) attraverso l’individuazione e la strutturazione del c.d. contenuto minimo e indefettibile dell’atto di appello. Si è, in tal modo, imposto all’appellante il rispetto “di precisi oneri formali che impongano e traducano uno sforzo di razionalizzazione delle ragioni dell'impugnazione” per consentire al giudice di individuare agevolmente l'ambito del giudizio e di pervenire ad una sua celere definizione.
La precisa delimitazione del contenuto minimo dell’atto di appello non ha, tuttavia, trasformato il giudizio in un mezzo di impugnazione a critica vincolata. L'appello è rimasto una revisio prioris instantiae e alcune perplessità determinate dalla novellata formulazione dell’art. 342 c.p.c. per il rito ordinario e dell’art. 434 c.p.c. per il rito lavoro (necessità o meno di redazione di un c.d. progetto alternativo di sentenza; necessità o meno di trascrizione delle parti di sentenza impugnate) sono state fugate dalla giurisprudenza di legittimità che ha escluso che tali articoli impongano l'adozione di determinate formule sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione, bensì richiedono una “chiara” individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata, delle relative doglianze in fatto e/o in diritto e delle argomentazioni a confutazione delle ragioni addotte dal primo giudice. Anzi, si è affermato che il legislatore del 2012 ha recepito e tradotto in legge gli approdi a cui era già pervenuta la giurisprudenza di legittimità, a partire da Cass., S.U., n. 16/2000, in materia di formulazione dei motivi specifici di appello (v. Cass., S.U., n. 27199/2017; Cass., S.U., n. 7700/2016; Cass., S.U., n. 11799/2017).
L’orientamento giurisprudenziale che precede ha, tuttavia, lasciato negli operatori la perdurante incertezza sulla necessità o meno della trascrizione nell’atto di appello delle parti della sentenza impugnate (non essendosi espressamente pronunciato sul punto). Appare preferibile escludere la necessità di formalismi/formule sacramentali e l’assimilabilità dell’appello al giudizio di cassazione (in seno al quale è stato elaborato il c.d. principio di autosufficienza del ricorso, riaffermato dalla sezione lavoro con la sentenza Cass. n. 3194/2019). Alle stesse conclusioni è pervenuta la terza sezione civile della Suprema Corte (n. 13535/2018) che ha escluso la necessità di trascrizione dei brani della sentenza impugnata.
La declinazione della specificità del motivo di appello come strettamente correlata alla “chiarezza” delle argomentazioni che lo sorreggono era, dunque, emersa già nell’elaborazione giurisprudenziale relativa al testo dell’art. 434 c.p.c., come novellato nel 2012.
Anche la riforma di cui al d.lgs. n. 149/2022, emanato sulla base della Legge delega n. 206/2021 prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è finalizzata ad obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (v. art. 1, commi 1 e 8, Legge delega n. 206/2021) al fine di ridurre l’arretrato e perseguire obiettivi di efficienza e ragionevole durata del processo .
Le finalità sono, dunque, almeno in parte, quelle che hanno ispirato anche la riforma del 2012 (razionalizzazione, accelerazione, riduzione dell’arretrato).
Analogamente a tale precedente stagione riformatrice, anche il legislatore del 2021/2022 ha ritenuto che il raggiungimento degli obiettivi di accelerazione del giudizio in appello e di riduzione dell’arretrato possa essere agevolato da una più razionale strutturazione dell’atto di appello (principale o incidentale), sicché è nuovamente intervenuto, e con ancor maggiore incisività, a ridefinire i suoi c.d. requisiti minimi / requisiti di contenuto-forma.
L’art. 434, comma 1, c.p.c. è stato così nuovamente modificato, mantenendo, peraltro, il parallelismo tra contenuto del ricorso in appello nel rito lavoro e contenuto dell’atto d’appello nel rito ordinario ex art. 342 c.p.c., anch’esso novellato nei medesimi termini in coerenza con quanto previsto dalla legge delega: “c) prevedere che, negli atti introduttivi dell'appello disciplinati dagli articoli 342 e 434 del codice di procedura civile, le indicazioni previste a pena di inammissibilita' siano esposte in modo chiaro, sintetico e specifico”.
Tale criterio direttivo è stato attuato attraverso una formulazione dell’art. 434 c.p.c. ancor più stringente rispetto alla novella del 2012 (che riferiva i requisiti di c.d. contenuto-forma all’intero atto di appello), in quanto oggi si impone espressamente il rispetto dei requisiti previsti a pena di inammissibilità con riferimento a “ciascuno” dei motivi di appello , nonché la loro indicazione in modo chiaro, sintetico e specifico .
In particolare, rispetto alla previgente formulazione, nella attuale i predetti requisiti passano da 2 a 3: - il requisito sub 1) sostituisce il lemma “capo” al previgente lemma “parti” della sentenza che si intende impugnare ; - il requisito sub 2) deriva dalla scissione del previgente requisito sub 1) in due distinti requisiti, il capo della sentenza impugnata e la doglianza relativa alla ricostruzione dei fatti compiuta dal primo giudice; - il requisito sub 3) elimina il lemma “circostanze” dall’indicazione relativa alla violazione di legge.
A fronte della riformulazione del requisito sub 1), da un lato si sono sollevate alcune critiche in dottrina in quanto, sul piano sistematico, si è sottolineato come l’indicazione dei capi della sentenza impugnata attiene alla individuazione del perimetro della devoluzione e non ai motivi, in fatto o in diritto, di impugnazione, di talché tale requisito avrebbe dovuto avere, anche sul piano testuale, collocazione distinta rispetto a questi ultimi. Dall’altro lato, si è sottolineato, in positivo, il superamento della confusione concettuale ingenerata dalla precedente formulazione che, nell’ambito del medesimo requisito contenutistico sub 1), collocava sia “l’indicazione delle parti del provvedimento” impugnate sia l’indicazione delle modifiche “alla ricostruzione del fatto”.
Secondo i primi commentatori, la nuova formulazione, attraverso la sostituzione di “parte” con “capo” e la previsione di indicazioni chiare, sintetiche e specifiche, consente in via interpretativa di superare definitivamente l’orientamento, sviluppatosi nella vigenza del precedente testo, che richiedeva, ai fini dell’ammissibilità dell’appello, la trascrizione delle parti della sentenza impugnate; orientamento, inoltre, incompatibile con il neo positivizzato requisito della sinteticità degli atti .
La riformulazione del requisito sub 2), sostituendo il requisito della indicazione “delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto” con l’indicazione delle “censure proposte alla ricostruzione dei fatti”, risulta coerente, anche sul piano letterale, con la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata che, già nella vigenza del precedente testo, ha escluso la necessità di procedere, nell’atto di appello, alla redazione di un c.d. progetto alternativo di sentenza, essendo sufficiente l’enucleazione chiara, sintetica e specifica delle doglianze mosse alla ricostruzione operata dal primo giudice. La norma non prevede, come per il requisito sub 3) relativo alla violazione di norme di legge, anche l’indicazione della rilevanza della censura ai fini della riforma della sentenza, ma la sussistenza di tale ulteriore elemento discende implicitamente dai generali principi sull’interesse ad agire (rectius, ad appellare). Ed invero, non sussiste alcun interesse in capo all’appellante a formulare un motivo relativo ad un errore nella ricostruzione del fatto di per sé solo non idoneo, sul piano dell’efficienza causale, a determinare la riforma, in tutto o in parte, della sentenza impugnata.
La riformulazione dell’attuale requisito sub 3), con la sostituzione all’indicazione “delle circostanze da cui deriva la violazione di legge” dell’indicazione delle “violazioni di legge denunciate”, elimina una – sistematicamente incoerente – commistione tra il lemma “circostanze”, generalmente riferito alle circostanze di fatto (di cui si occupa il precedente requisito sub 2), e la violazione di legge, oggetto del requisito in esame.
Le indicazioni in esame, formulate in maniera più chiara, non modificano tuttavia sul piano sostanziale i requisiti dell'appello che si pone nel solco della ormai consolidata acquisizione della natura dell’appello quale mezzo di impugnazione a critica libera, diretto non già ad introdurre un nuovo giudizio sul rapporto giuridico controverso esaminato dal primo giudice (c.d. novum judicium), bensì ad introdurre una impugnazione avverso la sentenza già resa, volta a correggere specifici errori e vizi della sentenza impugnata (secondo il modello della c.d. revisio prioris instantiae) , in continuità con la riforma del 2012, ma correggendone le criticità di formulazione del testo normativo in coerenza con gli approdi raggiunti, in via interpretativa, dalla giurisprudenza della Suprema Corte.
1.2 I principi di chiarezza e sinteticità.
La novella dell’art. 434 c.p.c., nel porsi sostanzialmente nel solco della continuità, compie, tuttavia, un ulteriore passo in avanti sul piano della tecnica di redazione dell’atto di appello in funzione della celerità e dell’efficienza del processo.
La significativa novità dell’art. 434 c.p.c. è rappresentata dalla codificazione dei principi di chiarezza e sinteticità, che vanno ad aggiungersi al principio di specificità , nella redazione dei motivi di appello .
Si tratta di una novità che va inquadrata sistematicamente alla luce dell’introduzione, per la prima volta, quali principi generali nell’ordinamento processuale civile, per tutti gli atti del processo, dei principi di chiarezza e sinteticità nell’art. 121 c.p.c., a mente del quale “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” .
Chiarezza evoca il concetto di univoca intelleggibilità: ovverosia di possibilità di comprensione, senza ambiguità, del significato delle argomentazioni contenute nell’atto.
Sinteticità evoca i concetti di concentrazione e concisione, imponendo che l’atto, nel rispetto della necessaria completezza dell’esposizione degli elementi rilevanti, non contenga inutili ripetizioni, prolissità e ridondanze .
Si tratta di concetti autonomi, ma collegati, in quanto generalmente l’eccessiva lunghezza dell’atto, imputabile all’inserimento di parti non strettamente necessarie allo sviluppo di argomentazioni difensive con riferimento al caso concreto, pregiudica innanzitutto la chiarezza dell’atto stesso. Il pregiudizio si riverbera poi sulla funzionalità del processo, in quanto la controparte e il giudice sono costretti ad un inutile dispendio di tempo per la lettura e comprensione dell’atto medesimo. Ne deriva la possibile lesione del diritto di difesa della controparte (che si trova a contraddire rispetto ad un atto oscuro), del principio di ragionevole durata del processo e del principio di leale collaborazione tra le parti e il giudice .
Tale “novità” normativa non è una novità assoluta nell’ordinamento giuridico processuale, ma rappresenta il recepimento di una ampia elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.
In particolare, la giurisprudenza di legittimità - prendendo le mosse dal principio di sinteticità già codificato nel processo amministrativo - ha da tempo individuato, quali principi generali dell’ordinamento processuale civile, con particolare riferimento al ricorso per cassazione, il dovere di chiarezza e sinteticità (tra le più recenti, v. Cass., S.U., n. 37552/21; Cass. n. 8425/20), considerati quali “valori”, più che meri requisiti formali dell’atto processuale, in quanto collegati ai principi costituzionali del diritto di difesa, del rispetto del contraddittorio, della ragionevole durata del processo, in un contesto in cui l’esercizio della giurisdizione ha risorse limitate.
La Corte di Cassazione, nel formulare tale orientamento, pur dando atto che la violazione dei principi di chiarezza e sinteticità non era, all’epoca (sull’attuale assetto, v. testè infra) assistito da specifica sanzione, ha ritenuto che, nondimeno, la violazione del dovere di sinteticità è suscettibile di risolversi in un difetto di chiarezza dell’atto e, laddove il deficit di chiarezza e sinteticità determini la violazione dei requisiti di contenuto-forma normativamente previsti per l’atto processuale, si ha inammissibilità dell’atto medesimo .
Il legislatore del 2021/2022, come si legge nella relazione al d.lgs. n. 149/2022, alla luce di tale consolidata giurisprudenza, ha ritenuto “ormai immanenti” anche nel processo civile i requisiti di chiarezza e sinteticità, valorizzati non solo alla luce delle esigenze di accelerazione ed efficienza del processo, ma altresì alla luce delle nuove modalità di esercizio della giurisdizione attraverso atti digitali nell’ambito del processo civile telematico che richiede - al fine di non essere, esso stesso, fonte di rallentamenti dei tempi processuali riconducibili alla lettura tramite computer -, agili modalità di consultazione degli atti processuali, non compatibili con la loro eccessiva lunghezza .
In tale prospettiva, dev’essere per completezza quantomeno accennato in questa sede che, in adempimento del criterio della legge delega in materia di chiarezza e sinteticità degli atti – in cui si richiede anche “la strutturazione di campi necessari all'inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense” – è stato riformulato anche l’art. 46 disp. att. c.p.c., rubricato “Forma e criteri di redazione degli atti giudiziari”. Tale articolo, oltre a prevedere (già prima della riforma), in via generale (quindi anche per l’atto in formato c.d. analogico), la scritturazione con “carattere chiaro e facilmente leggibile”, è stato novellato con riferimento all’atto digitale prevedendo, e questa è senz’altro una novità assoluta, che con decreto del Ministro della Giustizia, sentiti il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense, vengano definiti gli “schemi informatici” degli atti giudiziari con la “strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo” nonché “i limiti degli atti processuali” in base a tipologia, valore, complessità, numero di parti, natura degli interessi coinvolti.
Pur non potendo approfondire in questa sede tutte le questioni che si pongono sul piano generale con riferimento al rapporto tra l’art. 121 c.p.c. e l’art. 46 disp. att., si osserva che appare cogliere nel segno l’osservazione di chi ha evidenziato che il concetto di “chiarezza” non è utilizzato nella medesima accezione nell’art. 121 c.p.c. e nell’art. 46 disp. att. c.p.c., in quanto è possibile ritenere che tale concetto nell’art. 121 c.p.c. si riferisca alla complessiva “redazione” dell’atto, e quindi, in particolare, al contenuto difensivo dell’atto (le argomentazioni alla base dei motivi), mentre nell’art. 46 disp. att. c.p.c. esso si riferisca alla redazione materiale dell’atto (e dunque ai meri criteri redazionali). In tale prospettiva, l’art. 121 c.p.c. va riguardato come l’articolo che formula i principi generali in materia di redazione degli atti che sono alla base anche dell’art. 46 disp. att. c.p.c., il quale non esprime una deroga rispetto al primo (sul piano del principio di libertà delle forme), né può rivestire la funzione di criterio di interpretazione del primo, ma si occupa di tradurre in concreto - sub specie di criteri redazionali, specifiche tecniche e limiti dimensionali degli atti -, i generali principi di idoneità delle forme allo scopo e di chiarezza e sinteticità.
In questo quadro generale, tracciato in materia di principi di chiarezza e di sinteticità degli atti dai novellati artt. 121 c.p.c. e 46 disp. att. c.p.c., deve, quindi, essere sistematicamente interpretata la declinazione dei medesimi principi nell’ambito del novellato art. 434 c.p.c., secondo il quale il ricorso in appello deve indicare “a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico” i tre “contenuti minimi” sopra esaminati (capo impugnato, censure in fatto e/o violazioni di legge).
Alcuni dei primi commentatori hanno adottato un atteggiamento svalutativo dei principi di chiarezza e sinteticità, ritenendo, in sintesi, che nel caso di loro violazione il legislatore non ha previsto una specifica sanzione, in quanto ciò che è previsto a pena di inammissibilità sarebbe solo il deficit relativo alla “specificità” (i tre requisiti che costituiscono il c.d. contenuto minimo dei motivi di appello). Tale tesi sarebbe confermata dalla circostanza che l’art. 121 c.p.c. non prevede sanzioni e l’art. 46 disp. att. c.p.c., coerentemente alle previsioni della legge delega, esclude espressamente che il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma, sullo schema informatico e sui criteri e limiti di redazione dell’atto comporti invalidità, prevedendo soltanto eventuali conseguenze in ordine alla regolamentazione delle spese di lite.
Tale interpretazione svalutativa non appare, ad avviso di chi scrive, pienamente coerente con il dato normativo dell’art. 434 c.p.c. che prevede sullo stesso piano gli elementi tutti “a pena di inammissibilità”: non solo la mera mancanza dei requisiti contenutistici attinenti alla specificità, ma anche la loro indicazione in modo non chiaro, non sintetico. Né, sul piano assiologico, appare coerente con la riconosciuta correlazione tra i “valori” della chiarezza e della sinteticità degli atti e i principi costituzionali in materia processuale, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità. Trattasi, del resto, di principi positivizzati dopo una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale , sicché è irragionevole ritenere che il legislatore non abbia attribuito loro un concreto contenuto precettivo.
Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità, in via interpretativa, ancor prima della positivizzazione dei principi in esame, ha applicato la sanzione processuale dell’inammissibilità nei casi in cui il deficit di chiarezza e sinteticità si traduceva in carente indicazione dei requisiti contenutistici del ricorso in Cassazione (v. di recente Cass. n. 36481/22).
Sicché, proprio alla luce della positivizzazione dei principi in esame e della formulazione testuale dell’art. 434, è possibile applicare il predetto orientamento giurisprudenziale anche all’atto di appello nel rito lavoro, laddove il difetto di chiarezza e/o sinteticità sia tale da determinare mancanza o assoluta incertezza di individuazione delle indicazioni sul c.d. contenuto minimo dell’appello .
Certamente, tuttavia, in sede di applicazione dei principi in esame al caso concreto, dovrà rifuggirsi da ogni interpretazione formalistica e prediligere una loro interpretazione funzionale alle esigenze, di rango costituzionale, a presidio delle quali sono stati introdotti. Si veda, sul punto, la relazione illustrativa al d.lgs. n. 149/2022 che ha espresso il monito che dall’applicazione della novella in materia di chiarezza e sinteticità degli atti non deve derivare una indebita compressione dell’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale .
In applicazione dell’orientamento di legittimità consolidatosi nella vigenza del testo precedente, infine, laddove il deficit di chiarezza, sinteticità e specificità si risolva in omessa o assoluta incertezza in ordine alla formulazione dei motivi di appello, l’inammissibilità dell’atto d’appello dovrebbe, anche a seguito della novella del 2021/2022, precludere qualsiasi sanatoria, essendosi verificato il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (o dei singoli capi oggetto dei motivi inammissibili).
Né appare ostativo al mantenimento dell’orientamento giurisprudenziale de quo quanto previsto dal criterio della legge delega al comma 17, lett. e), o la traduzione che di tale criterio è stata fatta dall’art. 46 disp. att. c.p.c. (rilevanza ai soli fini delle spese di lite).
Viene sostenuto in dottrina anche che il Collegio prospetti la mera irregolarità (caratterizzata da una minima difformità rispetto al modello legale) ed inviti, ex art. 175 c.p.c., la parte a riformulare l’atto, se prolisso o ridondante, posto che l’atto prolisso, anche se valido, comporta verosimilmente un rallentamento del processo .
Tuttavia, si osserva che questa soluzione in astratto non appare idonea a eliminare un vulnus che si è già prodotto. Infatti, il giudice deve aver comunque studiato l’atto prima di decidere se si versa in ipotesi di inammissibilità o di mera irregolarità, sicché, in quest’ultima ipotesi, l’eventuale deposito di un atto più sintetico avverrebbe quanto il rallentamento dell’attività giurisdizionale si è già verificato. Inoltre, si rileva che, in tal modo, si potrebbero verificare surrettizie sanatorie di atti che avrebbero dovuto, in prima battuta, essere dichiarati inammissibili. Comunque, resta la possibilità di sanzionare il comportamento non corretto del difensore che abbia redatto un atto non inammissibile, ma tuttavia non chiaro e sintetico, in sede di regolamentazione delle spese di lite, per violazione dei doveri di cui all’art. 88 c.p.c. (v. Cass. n. 12165/2019), come del resto oggi prevede espressamente il novellato art. 46 disp. att. c.p.c.
Da ultimo si rileva che, coerentemente con la ratio di accelerazione processuale che sta alla base della riformulazione dell’art. 434 c.p.c., il vizio di inammissibilità per difetto dei requisiti ivi stabiliti sarà accertato e dichiarato secondo il nuovo modulo decisorio accelerato/semplificato di cui al novellato art. 436 bis c.p.c., quindi con sentenza c.d. contestuale motivata in forma sintetica, anche con esclusivo riferimento alla questione risolutiva (l’inammissibilità dell’atto di appello) o rinvio a precedenti conformi.
1.3 Verso un nuovo “atteggiamento culturale” in materia di redazione degli atti del processo
L’esame delle ultime tre versioni dell’art. 434 evidenzia la crescente consapevolezza acquisita dal legislatore in ordine alla circostanza che un atto di appello rigorosamente strutturato nei suoi contenuti essenziali in modo chiaro, sintetico e specifico non risponde a meri criteri di forma, ma è funzionale ad un processo giusto. Giusto non solo perché tendenzialmente più rapido, ma anche perché maggiormente in grado di individuare, con prevedibilità, la parte che ha ragione, in quanto, certamente, atti non conformi ai canoni in esame aumentano i rischi di errore da parte del giudice, della controparte e, in definitiva, l’alea del giudizio.
Per raggiungere gli obiettivi della riforma sarà dunque importante assumere un’interpretazione non svalutativa di queste modifiche, nel contesto di quello che è stato definito un nuovo approccio, innanzitutto culturale , alle modalità di redazione degli atti processuali, che ha la potenzialità di innescare un circolo virtuoso che dagli atti di parte si trasmette al provvedimento del giudice e così via, dal primo grado a quelli successivi.
Chiarezza e soprattutto sinteticità sono elementi che con la riforma divengono importanti nella redazione dell'atto, letteralmente su di un piano “paritario” con la specificità; tuttavia la sanzione dell'inammissibilità, certamente prefigurabile per la non specificità, diviene realisticamente assai difficile da applicare ad un atto semplicemente poco chiaro o prolisso, se comunque coglie nel segno sotto il profilo della specificità, a meno che il deficit di chiarezza e sinteticità non finisca per convertirsi in un deficit di specificità dell'atto e dunque in tal modo sanzionabile con la inammissibilità. Certamente il nuovo modello dell'atto chiaro e sintetico (oltre che specifico) è una scommessa che gli operatori del processo (avvocati e giudici) dovranno sostenere, in un cambio di atteggiamento anche culturale rispetto al presente, dove sempre più spesso l'esperienza concreta porta a misurarsi con atti tutt'altro che sintetici, spesso dotati di un sommario, molto utile all'organo giudicante ma che dà il senso evidente di un atto non certo sintetico.
2. Inammissibilità, improcedibilità, manifesta fondatezza o infondatezza
dell’appello
La disposizione di riferimento è l’art. 436 bis c.p.c., rubricato “Inammissibilità, improcedibilità, manifesta fondatezza o infondatezza dell’appello”, il quale, nel testo introdotto dal d.lgs. n. 149/2022, prevede: “Nei casi previsti dagli articoli 348, 348 bis e 350 , terzo comma, all'udienza di discussione il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della motivazione redatta in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi”.
In precedenza, l’art. 436 bis c.p.c., rubricato “Inammissibilità dell’appello e pronuncia”, disciplinava il c.d. filtro in appello nel rito lavoro con la tecnica del rinvio alle corrispondenti disposizioni del rito ordinario: “All'udienza di discussione si applicano gli articoli 348 bis e 348 ter”.
Ai sensi dell’art. 35, comma 4, d.lgs. n. 149/2022 (come modificato dalla L. n. 197/2022), la novella si applica alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023, quindi ai processi d’appello il cui ricorso introduttivo sia stato depositato dal 1°.3.2023.
2.1 L’istituto del c.d. filtro ed il passaggio al c.d. regime semplificato di pronuncia della sentenza con l’ampliamento dell’ambito applicativo.
L'istituto del c.d. filtro in appello è stato introdotto dal decreto legge n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, con la finalità di prevedere una sanzione specifica per gli appelli gravemente infondati, in quanto basati su ragioni prima facie pretestuose e perciò sprovvisti, già ad una valutazione sommaria, di una ragionevole probabilità di accoglimento .
Tale istituto, disciplinato nel rito ordinario dagli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., è stato introdotto anche nel rito lavoro dall'art. 436 bis c.p.c., che si limitava a richiamare la disciplina generale dettata per il rito ordinario, senza alcun adattamento in ragione delle peculiarità del rito del lavoro.
La dottrina giuslavoristica aveva sin da subito manifestato dubbi sulla reale funzionalità dell'istituto rispetto alle caratteristiche dell’appello nel rito lavoro, destinato, a differenza dell’appello nel rito ordinario, a svolgersi tendenzialmente in un'unica udienza: sicché si riteneva che il vaglio preliminare di manifesta infondatezza del gravame previsto dall'istituto in commento non avrebbe comportato significativi abbattimenti dei tempi del processo .
Va ricordato che il cd. filtro in appello di cui agli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., che comportava la pronuncia di una ordinanza di inammissibilità nei casi in cui l’impugnazione non aveva “una ragionevole probabilità di accoglimento”, trovava applicazione “fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello” (ovverosia fuori dei casi di inammissibilità dell’appello perché tardivo o perché mancante del requisito di specificità dei motivi ex art. 434 c.p.c. o di improcedibilità dell’appello per mancata comparizione dell’appellante alla prima udienza ed a quella successiva).
Non vi era, dunque, come a seguito della novella del 2021/2022, un regime unitario delle ipotesi di inammissibilità e di improcedibilità.
Il c.d. filtro in appello nella disciplina previgente è stato guardato con sfavore anche dalla dottrina civilista per le sue difficoltà applicative: si trattava, invero, di una decisione assunta con ordinanza di inammissibilità, “succintamente motivata anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi”, che, tuttavia, si riteneva avere natura di rigetto per manifesta infondatezza ed a fronte della quale era prevista l’impugnabilità della sentenza di primo grado attraverso ricorso per Cassazione.
In concreto i dubbi dottrinali sono estesi anche alla giurisprudenza; presso la sezione lavoro della Corte di appello di Venezia non sono state istituite né celebrate udienze filtro (e non consta che vi siano presso altre Corti d'appello), in ragione anche del tempo necessario all'esame e allo studio del fascicolo per la ipotetica udienza filtro o per il provvedimento conclusivo sostanzialmente coincidente con il tempo necessario per emettere la decisone sulla inammissibilità al di fuori della udienza filtro.
La nuova formulazione dell’art. 436 bis c.p.c. recepisce, anche con riferimento al rito lavoro, l’eliminazione dell'inefficiente filtro in appello nel rito ordinario a cui in precedenza si limitava a fare rinvio. A seguito di tale eliminazione, il novellato art. 436 bis c.p.c. allinea il rito lavoro al rito ordinario delle ipotesi in esame .
L’eliminazione del c.d. filtro in appello è stata salutata con favore dalla dottrina che lo ha qualificato “barocco”, per le complicazioni processuali che comportava, al punto da essere sempre meno applicato, e “assurdo”, perché irragionevole laddove accelerava le decisioni che lasciavano ferma la sentenza appellata (inammissibilità, improcedibilità e manifesta infondatezza dell’appello) ma non le decisioni che la riformavano (ipotesi di manifesta fondatezza, contemplata solo dalla riforma del 2022), che in misura maggiore delle prime sono suscettibili di arrecare danni alla parte che ha ragione .
In particolare, l’art. 436 bis c.p.c., attraverso il richiamo:
- all’art. 348 c.p.c. (improcedibilità dell’appello per mancata costituzione dell’appellante nei termini, ipotesi non compatibile con il rito lavoro, in cui l’appellante si costituisce con il deposito del ricorso, o per mancata comparizione dell’appellante sia alla prima udienza sia a quella successivamente fissata dal Collegio),
- all’art. 348 bis c.p.c. (inammissibilità, senza distinzione di ipotesi: quindi, in via esemplificativa, per mancanza di requisiti dell’atto introduttivo ex art. 434 c.p.c. e per tardività; manifesta infondatezza),
- all’art. 350, comma terzo, c.p.c. (manifesta fondatezza “o comunque quando lo ritenga opportuno in ragione della ridotta complessità o dell’urgenza della causa”),
prevede che anche nel rito lavoro, nelle predette ipotesi, all’udienza di discussione il Collegio, sentite le parti, pronuncia sentenza, dando lettura del dispositivo e della motivazione redatta in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante il rinvio a precedenti conformi.
Va precisato che nel rito lavoro vi sono due ulteriori ipotesi di improcedibilità, non contemplate dall’art. 348 bis:
 omessa (radicale mancanza) notifica dell’atto di appello e del decreto di fissazione dell’udienza (ipotesi rispetto alla quale non è consentito assegnare all’appellante un termine per provvedere alla notifica omessa, v. Cass., S.U., n. 20604/2008; Cass. n. 23605/2020; Cass. n. 27079/2020);
 mancata comparizione di entrambe le parti all’udienza di discussione, laddove non vi sia prova di avvenuta notifica del ricorso in appello e del decreto di fissazione dell’udienza (Cass. n. 17368/2018).
Ancorché la disposizione dell’art. 436 bis attenga ai “casi previsti dagli articoli 348, 348 bis e 350 bis, terzo comma” e i casi di improcedibilità in questione non siano contemplati dall’art. 348 c.p.c., si ritiene che essi possano verosimilmente farsi rientrare nei casi di ridotta complessità della causa ex art. 350, comma 3, c.p.c. ed essere assoggettati, al pari delle altre ipotesi di improcedibilità, al modulo decisorio semplificato in esame.
Una prima novità rispetto al passato, dunque, è rappresentata dall’inclusione nel novero delle fattispecie disciplinate dal “regime accelerato” in esame (c.d. nuovo filtro in appello, secondo la relazione al d.lgs. n. 149/2022) anche della fattispecie della manifesta fondatezza dell’appello, che, come evidenziato dai primi commentatori, risponde all’esigenza, in presenza di una sentenza manifestamente errata, di accelerare la tutela del soggetto che ne chiede la riforma, esigenza che merita l’accelerazione dei tempi processuali almeno quanto le ipotesi di infondatezza, manifesta infondatezza e improcedibilità .
Nella medesima prospettiva, del resto, si inscrive anche la riforma della disciplina dell’inibitoria in appello che oggi prevede espressamente l’alternatività del requisito del c.d. fumus integrato da una impugnazione che “appare manifestamente fondata” (art. 283 c.p.c. novellato) rispetto al requisito del c.d. periculum: il c.d. fumus di manifesta fondatezza giustifica, dunque, la concessione dell’inibitoria a prescindere dalla sussistenza del c.d. periculum.
Analoghe considerazioni si prestano ad essere svolte per l’estensione, a discrezione del giudice, del regime di decisione accelerata “quando lo ritenga opportuno in ragione della ridotta complessità o dell’urgenza della causa”.
Si coglie, dunque, una linea di tendenza nel novellato sistema processuale funzionale ad inibire l’esecuzione e a rimuovere velocemente assetti giuridici determinati da sentenze manifestamente errate, e comunque a definire rapidamente cause di ridotta complessità o valutate urgenti.
Rappresenta una novità anche l’unificazione, in un unico regime/modello decisionale semplificato, che si conclude con una sentenza impugnabile nei modi ordinari, di tutte le ipotesi di inammissibilità, improcedibilità, manifesta fondatezza e infondatezza dell’appello (ancorché in alcuni casi – ridotta complessità e urgenza – sulla base di una valutazione discrezionale del giudicante).
Infine, ulteriore e significativa novità è l’introduzione della c.d. sentenza contestuale in appello nel rito lavoro, ovvero di una sentenza completa di dispositivo e sintetica motivazione a seguito della discussione orale della causa.
Il contenuto della motivazione da un lato riecheggia, nel segno della sinteticità, la previgente disciplina, che prevedeva la motivazione con rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e riferimento a precedenti conformi. Si coglie, in tale prospettiva, la valorizzazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c. . Dall’altro lato, risulta più incisiva l’esplicitazione della possibilità di motivare la sentenza con “esclusivo” riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi ed in questo senso si coglie la valorizzazione dell’elaborazione giurisprudenziale del principio della c.d. ragione più liquida .
In definitiva, a seguito della riforma del c.d. filtro in appello, si è creato un doppio binario tra:
-A) le ipotesi in esame, in presenza delle quali il Collegio, sentiti i difensori (che perciò dovranno essere presenti in prima udienza, essendo incompatibile dunque la situazione de quo con le modalità cartolari) al termine della camera di consiglio che segue l’udienza (udienza pubblica), dà lettura della sentenza secondo il modello semplificato (c.d. contestuale completa di dispositivo e motivazione);
-B) tutte le altre ipotesi che restano assoggettate al c.d. rito lavoro ordinario, in cui il Collegio dà lettura del solo dispositivo a cui seguirà, nei termini di legge (60 giorni e non più 15 come in passato) il deposito delle motivazioni (modello ordinario).
In altri termini, dal combinato disposto dell’art. 436 bis c.p.c., dell’art. 437 c.p.c. e dell’art. 438 c.p.c., emerge che anche nell’appello nel rito lavoro vi è una duplice modalità di pronuncia della sentenza: quella c.d. contestuale prevista dall’art. 436 bis c.p.c. e quella “storica” della lettura del dispositivo in udienza con successivo deposito della motivazione nei termini di legge (60 giorni).
2.2 Osservazioni conclusive.
I casi in cui è stata dichiarata la manifesta infondatezza dell’appello nel rito lavoro per assenza di una ragionevole probabilità di accoglimento sono assai rari, per quanto è a conoscenza di chi scrive le presenti note, e non solo a causa delle complicazioni processuali del precedente c.d. filtro, ma per una indiscutibile difficoltà di definire “manifestamente” infondato un appello ad un esame sommario dell’atto.
Il nuovo modulo decisorio che unifica tutte le ipotesi di inammissibilità, improcedibilità manifesta fondatezza e infondatezza ed è obbligatorio (salvi i casi di maggiore semplicità o urgenza lasciati all’individuazione del giudice), presenta, per ciò solo, già in astratto più ampie prospettive di applicazione. Nondimeno, sul piano pratico, esso richiederà uno sforzo organizzativo aggiuntivo, in particolare nelle Corti d’Appello gravate da carichi di lavoro più pesanti, al fine di rendere possibile coniugare la salvaguardia dell’effettiva collegialità della trattazione e della decisione con la necessità di redigere la sentenza contestuale all’esito della camera di consiglio, dandone lettura alle parti.

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