TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il tema che mi è stato affidato mi era sembrato semplice e la sua trattazione avrebbe richiesto poco tempo. Tanti anni (poco meno di 40) trascorsi nella giurisdizione del lavoro mi avrebbero consentito di ripercorrere, quasi a memoria, gli argomenti spesi dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in un confronto a volte aspro, altre volte sereno, sul tema delle preclusioni e sul divieto di ius novorum , che connotano il processo del lavoro.
Giunta a metà dell’opera, ho cominciato ad annoiarmi e ho avuto il dubbio che avrei tediato i lettori di questo articolo. Ho pensato che la consultazione delle numerose banche dati della giurisprudenza e la rilettura di manuali, trattati e riviste di settore, erano in grado di assicurare una soddisfazione più viva e vibrante di quella che il mio scritto avrebbe potuto regalare.
È accaduto così che il tasto cancella e quello delle forbici hanno avuto il sopravvento sulla gran parte delle parole che avevo scritto.
Intanto, riflessioni fuori tema hanno preso a rincorrere disordinatamente il desiderio di celebrare in modo adeguato il cinquantesimo compleanno del processo del lavoro, di rievocarne i principi ispiratori e di svolgere qualche ragionamento sulla loro attuale tenuta.
Poi, la fantasia, più che la paura del nuovo che avanza, mi ha interrogata sul destino prossimo venturo del processo del lavoro.
I confusi ragionamenti che ho sviluppato li propongo ora ai lettori, sulla cui pazienza timidamente confido, sperando di non annoiarli e di non farli arrabbiare troppo.
La legge 11 agosto 1973 n. 533 ha inserito nell’ambito del corpus delle disposizioni del processo civile un procedimento che ha rappresentato un vero e proprio salto di qualità della giustizia del lavoro e della previdenza ed assistenza obbligatorie.
Essa aspirava ad assicurare la tutela effettiva dei diritti nel contesto sociale e politico in cui erano forti le istanze di tutela delle disposizioni della Costituzione sulla tutela del lavoro (artt. 1, 3, 4, 35, 36, 37), sulla tutela dei cittadini inabili al lavoro e sulle esigenze di vita dei lavoratori in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e disoccupazione involontaria (art. 38), sulla libertà sindacale (art. 39) e sul diritto di sciopero (art. 40). In verità, già qualche anno prima, la legge 20 maggio 1970 aveva rappresentato un importante risultato nella tutela dei diritti dei lavoratori (art. 18) e delle loro organizzazioni sindacali (art. 28) .
Il modello processuale fa propri i principi chiovendiani della oralità, della concentrazione e della immediatezza .
Il principio di immediatezza vuole che il giudice sia in rapporto immediato e diretto (non mediato da altro strumento) con le parti, rapporto che, di conseguenza, non può che svolgersi nelle forme della oralità.
Questa, infatti, è presupposta nella definizione e nella disciplina della udienza, rubricata, non a caso, di discussione dall’art. 420 cod.proc. civ. (il processo del lavoro non conosce le udienze di trattazione, proprie del rito ordinario di cognizione), nel corso della quale, all’esito del libero interrogatorio, del tentativo di conciliazione, della formulazione della proposta transattiva o conciliativa, della pronunzia dei provvedimenti di ammissione delle prove, della escussione dei testi ammessi, dell’esercizio dei poteri officiosi, della eventuale autorizzazione alla modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate, della discussione orale, può essere letto il dispositivo e la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ai sensi dell’art. 429 cod.proc. civ.
A sua volta, il principio di concentrazione richiede che sia il più breve possibile l’arco temporale entro cui vengono svolte, in reciproca leale collaborazione, le diverse attività processuali del giudice e delle parti necessarie per la pronuncia della sentenza.
Il trascorrere del tempo, lo sappiamo, pur nella presenza del verbale di udienza (mediatore di conoscenza delle attività svolte), affievolisce i ricordi del giudice e delle parti, che possono essere indotte a concentrare la loro attenzione sulla redazione (e sulla lettura) degli scritti difensivi, piuttosto che sul divenire dello sviluppo del processo. Insomma, a scrivere e a leggere più che a fare e a dire.
La parte della scrittura è stata riservata agli atti introduttivi del giudizio, disciplinati dagli artt. 414 e 416 cod.proc.civ., quanto al giudizio di primo grado , e dagli artt. 434 e 436 per il grado di appello. Atti di parte, che costituiscono la fase preparatoria , nel senso di introduttiva, del processo, la quale precede l'udienza di discussione.
Resta, però, il fatto che, pur nella compresenza di atti scritti e momenti di oralità, quest’ultima rimane il principio ispiratore del processo del lavoro, tant’è che il deposito di note difensive deve essere autorizzato dal giudice, sulla scorta della valutazione della loro necessità (se lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, art. 429, comma II; ove ricorrano giusti motivi, art. 429 comma VI).
Le disposizioni relative agli atti introduttivi obbligano entrambe le parti a fissare compiutamente, ed in modo pressoché non modificabile, le rispettive allegazioni, eccezioni, difese e richieste di mezzi di prova .
Vige, infatti, il divieto di proporre domande nuove, che introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio, oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e, particolarmente, su un fatto costitutivo radicalmente differente, pongono al giudice un nuovo tema d'indagine e disorientano la difesa della controparte con conseguente alterazione del regolare svolgimento del processo . L’ampliamento del thema decidendum è, però, possibile nel giudizio di primo grado, se ricorrono gravi motivi, previa autorizzazione del giudice (art. 420, comma 1, cod. proc. civ.) .
Ad un tempo, il sistema delle preclusioni , intese come perdita o consumazione di una facoltà processuale, che deriva dalla inosservanza delle norme che regolano l’ordine e il tempo dell’attività delle parti, costituisce uno strumento indispensabile alla semplificazione della procedura e, di conseguenza, alla accelerazione dei tempi di definizione del processo.
Sono stati, pertanto, cadenzati i tempi entro i quali devono essere compiute le attività delle parti e sono state delineate le modalità della loro esplicazione (artt. da 414 a 429 cod.proc.civ., quanto al giudizio di primo grado; artt. da 434 a 437 cod.proc.civ., quanto al giudizio di appello).
Il rigore del sistema delle preclusioni è stato mitigato dalla attribuzione al giudice di poteri officiosi, istruttori e propulsivi, che gli consentono, come innanzi ricordato, non solo di autorizzare le parti, nella ricorrenza di gravi motivi, a modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, ma anche di ammettere le prove che le parti non abbiano potuto proporre prima (art. 420,comma V) e di disporre, in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova , anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti (art. 421, c. 2 cod.proc. civ.). Se tanto accade, alla controparte è consentito di dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi (art. 420 comma 6, richiamato dall’art. 421, comma 2).
Restano fermi, in ogni caso, il divieto per il giudice di utilizzare il proprio sapere privato, di ricorrere alla prova atipica o alla prova illecita, e, quanto al giudizio di secondo grado il dovere di valutare, l’indispensabilità del mezzo di prova, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado.
La mitigazione del sistema delle preclusioni trova ragione nella necessità di attuare il principio del diritto di difesa delle parti e quello di ricerca della cd. verità materiale. Principio esplicitato nella nozione di giusto processo, riconosciuto come diritto dall'art. 6 della Convenzione europea e oggi espressamente sancito, unitamente a quello di durata ragionevole, dall'art.111 Cost., che funge da parametro di costituzionalità delle norme processuali componendo l'interesse a garantire l'imparzialità del giudizio con i concorrenti interessi ad assicurare la speditezza dei processi (la cui "ragionevole durata" è oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo e imparziale, come oggi espressamente risulta dal dettato dell'art. 111, secondo comma, della Costituzione) e la salvaguardia delle esigenze organizzative dell'apparato giudiziario .
Con la precisazione che il giusto processo esige che la disciplina delle prove sia indirizzata non tanto ad assicurare la certezza di un'esatta ricostruzione del fatto, che non è di questo mondo; quanto ad eliminare le fonti di incertezza relative a quella ricostruzione, che sono eliminabili senza mettere a rischio le garanzie costituzionali "interne": contraddittorio, parità delle armi, imparzialità del giudice .
Sicché, quando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti .
Fedele al voto di non essere fastidiosa, non mi soffermo ulteriormente sulle nozioni e sui confini delle preclusioni, cui è intimamente correlato il tema dei poteri officiosi del giudice del lavoro (oggetto di specifico saggio in questo numero della rivista).
Si tratta, d’altra parte, di nozioni e confini ormai chiariti dalla elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale , le quali hanno anche specificato le nozioni di mere difese, di eccezioni in senso improprio, di eccezioni in senso stretto e del divieto di domande nuove e hanno posto la differenza tra il sistema della rivelabilità di ufficio delle eccezioni in senso lato e il sistema dele preclusioni .
Propongo, ora, ai lettori qualche riflessione sullo stato attuale e sul destino del processo del lavoro e dei suoi principi ispiratori.
La riforma del 1973 non si mosse solo sulla linea di apportare modificazioni alle preesistenti norme processuali, ma si preoccupò anche di intervenire sull’organizzazione degli uffici giudiziari, quali l’aumento del numero dei magistrati, l’introduzione di sezioni specializzate in materia di lavoro, l’aumento dell’organico di cancellieri e segretari .
Sino a quando queste misure sono state applicate e hanno resistito, il processo del lavoro ha retto e per molto più di un decennio il principio dell’oralità ha trovato attuazione in quasi tutti gli Uffici Giudiziari .
A partire dalla prima metà degli anni 90 del secolo scorso la sproporzione tra risorse umane e materiali degli uffici giudiziari e domanda di giustizia, ha spinto molti giudici del lavoro a privilegiare la trattazione scritta e la prova documentale, a sminuire l’importanza della regola dell’ immediatezza e dell’oralità, a trascurare l’importanza dell’interrogatorio libero delle parti, a riservare l’oralità all’escussione dei testimoni che, in assenza di un vero interrogatorio libero, ha finito spesso per allungare i tempi di durata del processo .
E’ stato osservato che i giudici del lavoro, talvolta, o sovente (non so), si comportano come meri preposti alla direzione del traffico delle deduzioni attoree e delle eccezioni del convenuto, senza l’impegno della ricerca, logico-giuridica e probatoria, indispensabile alla piena chiarificazione dei fatti e, di riflesso, all’emersione dei diritti nel processo – beninteso – ove esistenti e meritevoli… .
Si tratta di una scelta di campo, che, seppur imposta dalla cultura dell’efficientismo e della produttività, figlia della visione della giurisdizione come servizio e non come funzione, è chiaramente di tipo valoriale.
Valoriale, perché ha a che fare anche con il principio della indipendenza del giudice, che deve affermarsi anche all’interno degli Uffici giudiziari, come ci ricorda la Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 adottata dal Comitato dei Ministri il 17 dicembre 2010 .
Valoriale, perché l’ossequio della regola della rapidità, purchessia, imposta dalla prospettiva manageriale, rischia seriamente di negare alla giurisdizione la funzione sua propria di assicurare la tutela dei diritti in modo efficace ed effettivo.
È innegabile che una sentenza pronunziata a distanza di molti anni dall’insorgere della controversia è di per sé ingiusta , sicché il principio della ragionevole durata del processo non può essere trascurato del tutto; tuttavia, esso deve, essere coordinato con quello del processo giusto, quello che richiede il tempo necessario per una decisione che assicuri tutela effettiva ai diritti azionati nel processo del lavoro.
Il fenomeno di lento e continuo affermarsi della scrittura nel processo del lavoro non è, però, dovuta soltanto dell’abbandono della prassi che ha ritenuto, come il legislatore del 1973, che l’oralità era capace di garantire la irrinunciabile effettiva relazione processuale tra tutte le parti e tra queste e il giudice e, quindi, la effettività della tutela.
C’è dell’altro.
Ci sono la tecnologia e l’informatica, che, nel corso degli ultimi venti anni, hanno rappresentato un fatto non trascurabile per il diritto, e, ovviamente, per il diritto processuale.
Esse hanno condizionato profondamente il contesto nel quale operavano i diversi attori del processo del lavoro , hanno imposto la rivisitazione degli antichi modelli organizzativi a scarsa intensità relazionale, fondati sulla carta e sulla sua movimentazione e, per tal via, hanno contribuito all’acquisizione di un maggiore grado di efficienza dell’Ufficio giudiziario nel suo complesso.
Purtroppo, le mutazioni di contesto, finanziarie, di gestione e di utilizzo degli applicativi informatici e del complesso sistema che si chiama PCT, hanno finito con l’offuscare, lentamente ma inesorabilmente, l’idea progettuale primigenia del Ministero della Giustizia - DGSIA.
La visione originaria, un po’ utopica a ripensarci , voleva che il processo civile telematico, lungi dal limitarsi alla mera sostituzione della scrittura elettronica con il documento cartaceo e al semplice utilizzo delle modalità di trasmissione proprie del documento informatico, dovesse essere capace di avviare un nuovo e costante legame tra gli attori del processo e, al tempo stesso, di promuovere una nuova consapevolezza del carattere intimamente benefico del dialogo e del confronto processuale, che si afferma, appunto, nel carattere dell’oralità.
Dialogo e confronto che sarebbero stati favoriti dal fatto che tutti gli attori del processo, liberati da una serie di incombenze prive di ogni valore relazionale e giovandosi del valore aggiunto delle rispettive molteplici attività, che solo l’informatica era (ed è) in grado di assicurare, si sarebbero concentrati sulle attività da svolgere in udienza.
Così non è stato. La nevrosi del click che invia e libera ha coinvolto tutti gli attori del processo e ha fatto dimenticare ai tecnici che nel PCT la trasmissione degli atti non era che una parte della sua funzione.
C’è stato, poi, l’imponderabile. L’emergenza pandemica da COVID19.
Passata la fase dello sbigottimento in cui la Giustizia si è fermata, quasi non fosse una funzione essenziale dello Stato , sono state introdotte nel processo civile, al fine di sbloccare la paralisi del servizio giustizia, forme di trattazione del processo c.d. alternative: la trattazione mediante collegamenti audiovisivi, detta anche da remoto e quella a trattazione scritta, definita cartolare.
Negli Uffici di merito la legislazione emergenziale processuale ha potuto contare sullo sperimentato utilizzo degli applicativi del complesso sistema PCT e su più moderne ed efficienti forme organizzative.
Nella Corte di Cassazione, invece, essa ha dovuto fare i conti con una situazione di arretratezza tecnologica e organizzativa, che l’ha confinata in una sorta di quasi chiusura dell’attività giudiziaria per un tempo non lunghissimo, ma, comunque, inaccettabile. Ciò ha aggravato la situazione dell’arretrato, ora in fase di recupero grazie alla generosità e al sacrificio dei magistrati e del personale di cancelleria e anche al PCT, finalmente entrato nella Corte.
Forte del successo ottenuto dalla udienza da remoto e di quella cartolare durante la fase pandemica, in attuazione della legge n. 206 del 26 novembre 2021 è intervenuto il decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149, che ha previsto l’introduzione nel codice di rito, dopo l’art. 127 cod.proc.civ., di due articoli: articolo 127 bis cod.proc.civ. (udienza mediante collegamenti audiovisivi) e articolo 127 ter cod.proc.civ. (deposito di note di trattazione scritta in sostituzione dell’udienza).
La circostanza non è irrilevante, perché la tecnica della novellazione, scelta dal legislatore del 1973, comporta che al processo del lavoro si applichino gli istituti e le norme di carattere generale, ove manchi la specifica regolamentazione di singoli istituti e la disciplina generale non risulti incompatibile con la natura e le finalità del rito .
L’udienza di discussione ex art. 420 cod.proc. civ., come ho accennato, è la sola conosciuta e disciplinata dal processo del lavoro, e, salvo che non si proceda all’assunzione dei mezzi istruttori, deve svolgersi pubblicamente (art. 128 cod.proc.civ).
Nulla impedisce che, eccezion fatta per l’escussione dei testimoni e per la raccolta delle informazioni orali dei rappresentanti delle associazioni sindacali, le attività descritte negli artt. 420 e 429 cod.proc.civ., siano svolte nella forma dell’ udienza mediante collegamenti audiovisivi (art. 127 bis cod.proc.civ)., a condizione che il Ministero della Giustizia (art. 110 Cost.) assicuri che gli strumenti tecnologici consentano a tutti i partecipanti di percepire con continuità (senza squadrettamento o effetto anche detto effetto mosaico) ciò che accade e viene detto durante l’udienza.
Non c’è dubbio che l’udienza da remoto mortifichi il principio della pubblicità, espressione di civiltà giuridica, sottinteso dall’art. 101 della Costituzione , affermato dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’ art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Si tratta, tuttavia, di un principio derogabile ove sussistano particolari ragioni giustificative, se obiettive e razionali, come affermano la Corte costituzionale e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo .
Di contro, sono fermamente convinta che la forma dell’ udienza cartolare sia del tutto incompatibile con il rito del lavoro, come molto approfonditamente e condivisibilmente è già stato osservato .
Essa, infatti, non ha alcun senso in un processo, quale quello del lavoro, in cui gli scritti costituiscono la fase preparatoria o introduttiva del processo, che cristallizza le posizioni delle parti, definisce il thema decidendum e consente al giudice, nell’udienza ex art. 420 cpd.proc.civ., di espletare il tentativo di conciliazione e, in immediato confronto con le parti, di rilevare sollecitamente le questioni rilevabili di ufficio e di verificare, all’esito dell’ espletamento dei mezzi istruttori ammessi, la necessità di esercitare i poteri officiosi, di valutare l’opportunità di concedere alle parti il termine per il deposito di note difensive (art. 429 comma 2 cod.proc.civ.) e di emettere la decisione nelle forme previste dall’art.429 comma 1 cod.proc.civ.
L’assenza dell’oralità, propria dell’udienza cartolare, mette, dunque, in discussione l’intero impianto del processo del lavoro, perché in questo assume un ruolo centrale l’udienza disciplinata dall’ art. 420 cod.proc.civ., luogo comune in cui si possa consentire in contestualità una pluralità di sguardi , espressione dei principi di immediatezza e di concentrazione.
L’eliminazione della dialettica processuale condiziona, poi, indirettamente l’esplicarsi corretto del sistema delle preclusioni, perché induce le parti ed il giudice a concentrarsi, rispettivamente, sulla redazione e sulla lettura di scritti difensivi, destinati inevitabilmente a moltiplicarsi, secondo ragionamenti, petizioni ed eccezioni circolari, che ripetendosi e sovrapponendosi, complicano il processo e ne allontanano nel tempo la definizione, piuttosto che sullo sviluppo del processo al quale sono chiamati a partecipare secondo il principio di leale collaborazione.
Cosa ancor più grave, il processo cartolare confina la giustizia del lavoro in luoghi di produzione del diritto (lo studio degli Avvocati e l’ufficio del giudice), lontani da quello in cui, secondo la percezione sociale, si amministra la giustizia.
Temo che confinare tutti gli attori del processo in un luogo remoto e fatto di scritture privi il giudice della possibilità di ascoltare e di comprendere la realtà della vita di coloro per i quali è chiamato a ius dicere e lo allontani dall’idea, non romantica ma desueta forse sì, che la giustizia deve mettere al centro l’uomo e la sua comunicazione con gli altri uomini, una giustizia che faccia dell’incontro il fulcro della sua funzione, che abbia bisogno dei suoi tempi e dei suoi dubbi, e abbia anche, e le sopporteremo, quelle imperfezioni che sono i tratti inevitabili dell’essere umano .
All’idea che si va affermando della giustizia del lavoro come isolata e confinata in tempi e in luoghi non reali, penso che occorra contrapporre quella della giustizia come un’istanza terza che apre uno spazio, che sospende il tempo, che rende possibile il linguaggio, che si prende il tempo di ascoltare le argomentazioni di ciascuno, (che) ha rilievo sia sulla base del dato antropologico, sia sulla base della legge. La giustizia deve allora ritrovare da sola lo spirito della sua istituzione, e attenersi a esso, costi quel che costi; e ciò anche di fronte al potere politico, opponendovi una finalità più lunga e più antica, sulla quale quest’ultimo non ha presa .

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