TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il c.d. obbligo di repêchage è figura di matrice giurisprudenziale che si ricollega al concetto di licenziamento come extrema ratio, nelle sue diverse accezioni più o meno forti, ossia come il male da evitare anche a costo di un demansionamento del lavoratore. Consiste nella ricerca di una collocazione alternativa, anche in mansioni inferiori, del dipendente licenziato per soppressione del posto di lavoro a fronte di una ragione organizzativo-produttiva. 
La riconduzione del mancato rispetto dell’obbligo di repêchage alla “manifesta” (poi divenuta mera) insussistenza del fatto nel licenziamento per ragioni aziendali che, a norma dell’art.18, co. 7, l. 300/1970, dà luogo alla reintegrazione attenuata, costituisce diritto vivente sancito dalla Corte di Cassazione . Inoltre, a partire dal 2016, la Cassazione ha ridefinito i contorni di questo obbligo, elemento costitutivo del fatto, anche da un punto di vista processuale, affermando che la prova dell’impossibilità di adempiervi si riversa sul datore di lavoro, escluso ogni onere di tipo allegatorio in capo al lavoratore e ne ha tracciato i contenuti alla luce dell’art. 2103 c.c., ampliandoli fino a ricomprendervi anche, oltre alle mansioni inferiori, i contratti a termine .
In contrasto con il dominante orientamento giurisprudenziale sulla collocazione del repêchage entro il fatto rilevante, deve considerarsi l’intervento della Corte costituzionale sull’art. 18, co 7, l. 300/1970 (sentenze n. 59/2021 e 125/2022).
La Consulta chiamata a pronunciarsi ben due volte sulla legittimità costituzionale dell’art. 18, co. 7, è intervenuta con due sentenze che hanno ripristinato la coerenza del sistema relativamente alle asimmetrie di tutela riscontrabili tra licenziamento disciplinare e licenziamento economico, e lo ha fatto rimuovendo i limiti alla piena e immediata valenza dell’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o., ma senza decidere sulla natura e composizione del fatto stesso e, quindi, neanche sulla riconducibilità a esso dell’inosservanza dell’obbligo di repêchage.
Le sentenze nn. 59 del 2021 e 125 del 2022, che hanno rimosso la discrezionalità del giudice e la necessità che l’insussistenza sia manifesta, dopo aver spiegato le ragioni dell’assimilazione, dal punto di vista concettuale e sanzionatorio, del vizio di insussistenza del fatto, nel licenziamento disciplinare e in quello per ragioni attinenti all’impresa , (attingendo ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e armonia interna al sistema delineato dalla riforma dell’art.18, l. 30071970), non si pronunciano sull’inclusione del repêchage nella nozione di fatto (nè erano state chiamate a pronunciarsi sul punto). 
In particolare, la sentenza n. 59/2021, seppur in motivazione fornisce una ricostruzione della fattispecie che dà luogo alla reintegrazione, si limita a registrare la posizione assunta dalla Corte di Cassazione richiamandone alcune sentenze e il loro contenuto: “i presupposti di legittimità del licenziamento per g.m.o. ...sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11novembre 2019, n. 20102). Perchè possa operare il rimedio della reintegrazione, è sufficiente che la manifesta insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2018, n. 32159)”. Nel ritenere irragionevole e incostituzionale la discrezionalità del giudice in ordine al rimedio della reintegrazione, la Consulta dunque non affronta il tema della natura del fatto da un punto di vista qualificatorio ma si limita a statuire che ove il fatto sia insussistente la reintegrazione è dovuta, e non rimessa alla discrezionalità del giudice, nel licenziamento economico come in quello disciplinare. 
Analogamente, e forse in maniera ancor più evidente, la sentenza n. 125 del 2022, eliminando l’aggettivo “manifesta”, non ha, in alcun punto, sancito che l’insussistenza del fatto nel g.m.o. include la violazione dell’obbligo di repêchage. Al contrario, affermando che “nell’ambito del licenziamento economico, il richiamo all’insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale..” e che “rientrano nell’ambito della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto...” ha chiaramente fatto intendere che il fatto giuridicamente rilevante è costituito dal nucleo della scelta imprenditoriale, e ha dato rilievo, ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria, soltanto alle ipotesi di vizi “più gravi” , lasciando intuire che l’opzione per la rilevanza del solo fatto organizzativo-produttivo abbia una sua giustificatezza alla luce della particolare gravità dell’eventuale mancanza di esso.
2. Per quella che si ritiene debba essere la portata applicativa delle sentenze nn. 59 e 125 non si condividono le critiche relative a una presunta intenzionale interferenza della Corte costituzionale sul potere legislativo , in un’ottica ampliativa della tutela reintegratoria nel licenziamento per g.m.o,, che era stata, invece, limitata nel 2012. Invero, si ravvisa nei due interventi relativi all’art. 18, co. 7, l. 300/1070 prevalentemente, se non esclusivamente, un intento razionalizzatore intra legem, soprattutto nel caso della sentenza n. 125/2022 sulla manifesta insussistenza, e pertanto non sembra che si possa parlare di una volontà controriformatrice della disciplina rimediale per il licenziamento, attuata attraverso una rinverdita supremazia della reintegrazione . Gli interventi della Corte su citati sono stati improntati, più che al bilanciamento degli interessi (che secondo alcuni avrebbe portato alla prevalenza dell’interesse del lavoratore rispetto a quello dell’impresa), ai principi di eguaglianza, ragionevolezza e razionalità, intese come coerenza interna alla singola legge e/o istituto . 
La Corte costituzionale sollecitata a intervenire, dapprima sulla parte del co. 7, dell’art. 18 l. 300/1970 che disponeva la facoltatività della reintegrazione, poi sull’aggettivo “manifesta”, che accompagnava il sostantivo infondatezza, ha ragionevolmente deciso che l’insussistenza del fatto costituisce il vizio più grave del provvedimento espulsivo, sia per g.m.o. sia per ragioni disciplinari, con ciò rispettando proprio la logica che informa il nuovo art. 18, e che è ispirata alla gradualità delle sanzioni in ragione della gravità del vizio e alla compresenza di due rimedi sanzionatori (graduati anch’essi al loro interno): indennitario e reintegratorio. In un sistema basato sulla presenza della sanzione ripristinatoria sia nel licenziamento disciplinare sia in quello economico, l’aver riportato sugli stessi binari giudiziari (mera prova dell’insussistenza e conseguente obbligatorietà della reintegrazione), entrambe le tipologie di licenziamento appare un’operazione improntata a ragionevolezza e rispettosa della discrezionalità, costituzionalmente legittima, del legislatore.
Se i due interventi della Corte costituzionale sul co. 7 dell’art. 18 l.300/1970 si collocano sul giusto piano della razionalizzazione interna dei rimedi, come si crede debba farsi, non ne risulta intaccata la concezione del fatto (la cui insussistenza determina la più grave delle sanzioni) che comprenda unicamente le ragioni organizzative addotte e il nesso causale che le collegano al licenziamento: la mancanza di uno di questi due elementi genera l’illegittimità del recesso con applicabilità della sanzione reintegratoria, senza i limiti che derivavano dalla discrezionalità del giudicante e dalla necessaria manifesta evidenza dell’insussistenza del fatto.
Diversamente deve dirsi per il mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage o per la mancata prova dell’impossibilità di adempiervi, che non attengono al nucleo fattuale del licenziamento ma comunque alla causa e/o giustificatezza dello stesso.
Ma al di là della motivazione espressa, e della non rilevanza decisoria dell’inclusione del repêchage nel fatto posto a base del licenziamento per ragioni d’impresa, è proprio la reintegrazione obbligata per insussistenza semplice, conseguente al duplice intervento ablativo della Corte costituzionale, a portare a una revisione della nozione di fatto al fine di escluderne il repêchage e di consentire che il comma 7 dell’art. 18, nella parte in cui prevede la tutela indennitaria nelle altre ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del g.m.o., non diventi una norma apparente . 
Eliminati i filtri della manifesta insussistenza e della discrezionalità del giudice, che consentivano di applicare la sanzione indennitaria anche a ipotesi di insussistenza del fatto, non si saprebbe davvero individuare le altre ipotesi di mancanza di g.m.o. meno gravi, al di là della violazione dei criteri di buona fede e correttezza nella scelta del lavoratore.
Dovendosi trarre da tutto ciò una conclusione in ordine alla rilevanza del repêchage, questa è nel senso che lo stesso attiene certamente alla giustificatezza del recesso, che è da considerarsi illegittimo ove il datore di lavoro non dimostri, insieme alla ragione tecnico-organizzativa addotta e al nesso causale che la collega al licenziamento irrogato, la non ricollocabilità del lavoratore in altra posizione aziendale, negli ambiti e con i limiti che la giurisprudenza della Cassazione ha ormai dilatato enormemente ma sui quali non ci si soffermerà in questa sede . 
La non osservanza dell’obbligo di dimostrare la non utilizzabilità “altrove” in azienda del lavoratore, integrerà, però, una di quelle altre ipotesi di mancanza degli estremi del g.m.o,, meno gravi, che per l’art. 18, co. 7, danno luogo alla tutela indennitaria, simmetricamente a quanto previsto per il licenziamento disciplinare. 
All’indomani di queste due sentenze, la giurisprudenza della Cassazione continua a considerare la violazione del repêchage come vizio di insussistenza del fatto e a ordinare la reintegrazione, confermando il proprio precedente orientamento, probabilmente sentendosi avallata, anziché scoraggiata, dagli interventi della Consulta .
3. Se le sentenze della Corte costituzionale 59/21 e 125/22 possono configurarsi come un intervento di razionalizzazione e recupero di simmetria tra le sanzioni relative ai licenziamenti per motivi soggettivi e oggettivi, tutto interno all’art. 18 l. 300/1970, la sentenza n. 128 del 2024, che interviene sull’art. 3 del d.lgs. 23 /2015, presenta ben altra portata, ponendosi l’obiettivo di portare coerenza sistematica nell’ambito della normativa sanzionatoria del licenziamento per g.m.o., non soltanto nell’ambito della legge sottoposta al suo esame, ma anche nella complessiva disciplina dell’istituto . 
La Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 3, co. 2, d.lgs. 23/2015 nella parte in cui non prevede, così come invece nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, che la reintegrazione si applichi “...anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore”.
La diversa dimensione qualitativa della sentenza del 2024 rispetto alle precedenti 59/21 e 125/2022 emerge dal fatto che, mentre queste ultime hanno rimosso limiti alla tutela reintegratoria (per insussistenza del fatto) nel licenziamento per g.m.o. comunque già prevista dal legislatore, la prima, con un approccio decisamente più creativo e manipolativo, introduce la tutela reale per il motivo oggettivo, alterando la logica rimediale prevista dal legislatore che aveva scelto di escludere la reintegrazione per tutti i licenziamenti economici .
La sentenza in tutto il suo impianto motivazionale raffronta la disciplina del d. lgs, 23/20215 con quella dell’art. 18 l. 300/1970, tertium comparationis, esplicitando in tal modo la volontà di apportare coerenza alla materia complessiva, e, pur ricordando, come negli altri precedenti, che la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, pur tuttavia, nell’ottica di una gradualità di rimedi rapportato alla gravità del comportamento datoriale, ribadisce i due seguenti principi, già affermati nella sentenza 59/2021, cui connette l’ineluttabile conseguenza della reintegrazione: 1) l’insussistenza del fatto non può rilevare diversamente nel licenziamento disciplinare e in quello per g.m.o.; 2) l’insussistenza del fatto denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro.
Quindi, da un lato, la Corte ritorna ad appoggiare il suo decisum al dovuto rispetto delle simmetrie interne (e anche esterne in questo caso) tra sanzione per licenziamento disciplinare e licenziamento per ragioni aziendali; dall’altro, aggiunge, ad adiuvandum decisionis, al già dichiarato carattere traumatico per il lavoratore di un licenziamento basato su un fatto insussistente, la lesione alla sua dignità ; inoltre, fa leva sull’aggirabilità della tutela reintegratoria derivante dalla possibilità per il datore di qualificare qualunque licenziamento come economico. 
Ma, quel che conta rilevare è la puntuale differenza che la Corte costituzionale stabilisce tra causa del recesso e giustificatezza dello stesso: mentre la causa è da intendersi in senso fenomenico, quale “ragione” fattuale cui si riconnette il licenziamento, la “giustificatezza” è concetto più ampio, che attiene alla fattispecie complessivamente individuata dal legislatore. Riferendosi al licenziamento individuale in generale, infatti, la Corte, al punto 8, afferma che il licenziamento non può essere senza causa, quest’ultima identificantesi in una inadempienza del lavoratore o in ragioni attinenti all’attività e organizzazione dell’azienda: se mancano l’inadempimento, o altro comportamento costituente giusta causa, o la ragione attinente all’organizzazione aziendale, il licenziamento viola innanzitutto la regola della necessaria causalità del recesso prima ancora di quella della sua necessaria giustificatezza. E, ulteriormente specificando il concetto, al punto 10, la Corte precisa che il recesso datoriale, sia per giusta causa sia per giustificato motivo, fondato su un fatto insussistente è senza causa prima che senza giusta causa. 
In relazione, poi, al licenziamento per g.m.o., nei due ultimi passaggi motivazionali si esprime chiaramente nel senso che se il posto di lavoro è stato soppresso, ma il lavoratore avrebbe potuto essere ricollocato in azienda, il licenziamento è illegittimo perchè la giustificatezza del licenziamento richiede - secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità - che il lavoratore non sia utilmente ricollocabile in azienda: in tale evenienza il fatto materiale (causa in senso fenomenico), sussiste ma non giustifica il licenziamento (mancanza di causa giusta) cui si riconnetterà, quindi, per scelta del legislatore, la sola tutela indennitaria. Inoltre aggiunge che la reductio ad legitimitatem della disposizione censurata “...deve tener fuori, dalla sua portata applicativa, la possibilità del ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente dal licenziamento fondato su un fatto insussistente, che esclude il rilievo, a tal fine, della valutazione di proporzionalità del licenziamento...”. Segue il decisum che dichiara l’incostituzionalità dell’art. 3, co.2, d. lgs. 23/2015 “...nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore” .
4. Sul piano che qui rileva e che è quello dell’attuale collocazione dell’obbligo di repêchage nell’ambito della giustificatezza del licenziamento e dei rimedi contro la sua violazione, la sentenza 128/2024 chiude un percorso iniziato dalla Corte costituzionale nel 2021 e che, a discapito dell’attuale orientamento della Corte di cassazione in tema di insussistenza del fatto, espunge dal rimedio reintegratorio la non ricollocazione in azienda del lavoratore licenziato per g.m.o. o la mancata prova della sua ricollocabilità.
Questa conclusione appare coerente, innanzitutto, rispetto al rapporto sussistente tra fattispecie licenziamento per g,m.o. configurata dal legislatore nell’art. 3, l. 604/1066 e concetto di fatto, utilizzato dal legislatore del 2012 e 2015 allo scopo di graduare le sanzioni sia nel licenziamento disciplinare sia in quello per ragioni inerenti all’impresa. Se infatti non vi è dubbio che il licenziamento per g.m.o. è fattispecie giuridica cui si riconnettono: a) le ragioni organizzative e/o produttive che determinano la soppressione del posto di lavoro; b) il nesso causale tra queste ultime e licenziamento (art. 3, l. 604/1966), ai quali si aggiunge, per consolidata giurisprudenza divenuta diritto vivente, c) la non ricollocabilità del lavoratore licenziato, il fatto, cui fa riferimento il legislatore del 2012 riformulando l’art. 18, l. 300/1970, consiste nell’elemento fenomenologicamente determinante la ragione del recesso , ed è sicuramente un concetto più ristretto, e finalisticamente necessario per ottenere il risultato della graduazione di tutele in ragione della differente gravità del comportamento datoriale. E’ questa una scelta confermata dalla Corte costituzionale che, anzi, proprio in relazione all’art. 18., co. 7, ha purificato la nozione di fatto espungendone qualificazioni limitanti e sottomissione alla discrezionalità del giudice onde farlo assurgere a elemento la cui semplice insussistenza determina la sanzione più grave della reintegrazione. 
Ne è seguita l’operazione manipolativo-additiva della sentenza 128/2024 che ha omologato la disciplina del Jobs Act a quella prodotta dalla legge Fornero, introducendo, nel d. lgs. 23/2015, l’alternativa indennità/reintegrazione anche nel licenziamento economico illegittimo e sottoponendola alla regola della graduazione in relazione al disvalore del licenziamento, all’interno della quale l’insussistenza del fatto genera la sanzione più grave. 
Pertanto, soltanto chi rinneghi la modulazione di tutele afferente al complesso normativo in tema di licenziamento illegittimo, e affermi che ogni illegittimità del licenziamento dovrebbe essere sanzionata con la tutela reale, può continuare a discettare sul valore assiologico e determinante dell’unitarietà della nozione di giustificato motivo oggettivo, pur nella sua triplice composizione, ai fini dell’inclusione in esso del repêchage. All’interno di questa composita nozione il “fatto”, costituisce la ragione fenomenologica determinante che in un rapporto di causa/effetto produce come conseguenza il licenziamento. Nel che è insita la necessaria presenza del nesso che unisce la ragione produttiva-organizzativa al licenziamento. La ricollocabilità in azienda del lavoratore come extrema ratio è un obbligo accessorio che connota la legittimità dell’agire datoriale in un sistema ordinamentale orientato alla tutela del lavoro e dei lavoratori (artt. 4 e 35 Cost.) ma consiste in un posterius rispetto alla scelta organizzativa e alle sue conseguenze immediate sulla forza lavoro, scelta tutelata anch’essa dalla Costituzione (art. 41).
Essendo evidente che l’obbligo di repêchage si configura a valle della ragione tecnico - organizzativa che produce la soppressione del posto di lavoro e il conseguente licenziamento, alcuni autori ricorrono al concetto di “effettività” delle ragioni economiche, affermando che il repêchage altro non rappresenta se non la cartina di tornasole della sussistenza della ragione per cui le mansioni non possono più essere utilizzate . Il ragionamento è tautologico e anche deviante laddove, proprio evidenziando la caratteristica del repêchage, che è quella di ricercare un reimpiego in mansioni diverse, lo si utilizza per valutare la sussistenza/insussistenza del fatto della soppressione di mansioni diverse. Al di là della costruzione logica, non sembra corretto elevare la mancata riallocazione del lavoratore a elemento di validazione della ragione tecnico-organizzativa addotta dal datore di lavoro, da un punto di vista sia fattuale sia giuridico, e quanto meno forzata appare l’affermazione che diversamente opinando la Corte costituzionale non ha esitato a “... mutilare la nozione di causa/fatto con eliminazione da essa del repêchage ...” .
In realtà sembrerebbe più corretto, in alcuni casi, porre l’accento sulla insussistenza del nesso causale anziché insistere sull’ancoraggio del repêchage al fatto. Sovente, infatti, ciò che viene fatto valere come violazione del repêchage in realtà è mancato rispetto del nesso causale che si può ravvisare, ad esempio, allorchè il datore di lavoro elimini realmente una postazione di lavoro e accorpi le mansioni ad essa afferenti in capo a un lavoratore che è sfornito delle competenze necessarie per svolgerle insieme a quelle già attribuitegli, a differenza del licenziato che insisteva soltanto su quelle soppresse ma era in grado di svolgere anche le altre. In questa ipotesi il licenziamento è illegittimo e merita la tutela reale, perchè l’operazione organizzativa compiuta, che ha portato alla reale soppressione di alcune mansioni, avrebbe implicato come conseguenza la cessazione del rapporto di lavoro del dipendente non più utilizzabile . In ipotesi come questa è l’operazione aziendale che viene in rilievo e se ne valuta il collegamento rispetto all’effettuato licenziamento. 
Sul piano, poi, della rilevanza del vizio del licenziamento, e della gradualità delle sanzioni, appare altresì ragionevole, pur nella conferma dell’omnicomprensività della fattispecie giustificato motivo oggettivo che abbraccia anche il repêchage, porre su piani differenti un licenziamento privo della ragione giustificatrice e uno in cui la ragione sussiste ma il datore di lavoro non si fa carico di trovare una diversa sistemazione al lavoratore eccedente . Altro, infatti, è addurre un’inesistente modifica organizzativa, altro è non ricollocare o non riuscire a provare l’incollocabilità del licenziando in mansioni a volte altamente disomogenee e in aziende molto grandi o e diversamente dislocate sul territorio: in questi casi la prova non è semplice e la sanzione della reintegrazione non appare sinceramente congrua . Senza contare che appare quanto meno poco consono all’interpretazione del g.m.o. fornita dalla Cassazione a partire dalla sentenza n. 25201 del 2016, come qualsiasi ragione organizzativa, purchè sussistente, quand’anche improntata al maggiore profitto, ritenere che, a fronte dell’accertata riorganizzazione per ragioni di riduzione dei costi, implicante la soppressione del posto, il datore di lavoro che abbia violato il repêchage debba comunque mantenere, seppure in altre mansioni, il costo del lavoratore addetto alla mansione soppressa e non, invece, assoggettarsi alla sanzione indennitaria.
L’esclusione del repêchage dal fatto e la sanzione della violazione del correlato obbligo con la mera indennità sembrano potersi evincere già dalle sentenze della Consulta relative all’art. 18 l. 300/1970, ma alcuni interpreti ritengono, invece, che dalla sentenza n. 128/2024 si debba ricavare una diversità di trattamento tra le due discipline (art. 18 e art. 3 d. lgs. 23/2015). Quest’ultima avrebbe, infatti, ritenuto non irragionevole l’espunzione del repêchage dal “fatto materiale allegato dal datore di lavoro”, nozione diversa e più ristretta rispetto al “fatto” tout court di cui parla l’art. 18, co. 7 l. 300/1970 . Ne deriverebbe l’impossibilità di estendere, in via interpretativa, quanto predicato dalla sentenza 128/2024 in tema di repêchage, alla norma statutaria . Sembra invece auspicabile, nonché plausibile, considerate le ragioni che portano ad assimilare le sentenze della Consulta sull’art. 18, co. 7, l. 300/1970 alla 128/2024, un’omologazione delle sanzioni collegate all’inosservanza del repêchage, accomunandole sotto l’ombrello della sanzione indennitaria. 
In questo senso milita oltre la, non da tutti condivisa, analogia tra le sentenze relative all’art. 18 e quella sul Jobs Act, la quasi totale assimilazione dei rimedi nei due sistemi normativi e la scarsa attitudine definitoria dell’aggettivo “materiale”, tra l’altro utilizzato dal legislatore del Jobs Act originariamente solo per il licenziamento disciplinare, nonché una non trascurabile necessità di armonizzazione del sistema di tutela contri i licenziamenti illegittimi .

