testo integrale con note e bibliografia

1. Nel mondo dell’editoria la parola “ripescaggio” è utilizzata quando si pubblica un libro di uno scrittore le cui opere non sono più disponibili da molto tempo, con la speranza che possa essere apprezzato o tornare a esserlo dopo anni di oblio. “Ripescaggio” deriva dal francese repêchage e per le case editrici, che pubblicano principalmente opere di scrittori del passato, questo termine, in apparenza fuorviante e negativo, può contribuire a “riscoprire” un talento.
Anche nel diritto del lavoro, l’espressione non sembra particolarmente felice ma evoca l’immagine del “recupero” o, più correttamente, del reclassement ovvero del “ricollocamento” di una persona che è sottoposta alla perdita traumatica del posto di lavoro. In particolare, nel sistema italiano, il c.d. repêchage è collegato al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ovvero a quella tipologia di cessazione del rapporto di lavoro che si identifica in “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso” .
Il repêchage, ad onor del vero, si presenta prima dell’emanazione della l. n. 604/1966, che introduce il principio di giustificazione del licenziamento. Il riferimento va all’elaborazione della giurisprudenza arbitrale sugli accordi interconfederali del 18 ottobre 1950 e del 19 aprile 1965 relativi ai licenziamenti individuali nel settore industriale . Tuttavia, è bene chiarire che esso non è mai stato inserito espressamente nel testo della legge del 1966 tra i requisiti del licenziamento . Infatti, una parte della dottrina ha sostenuto che il repêchage si debba collocare in un momento successivo alla sussistenza delle ragioni di licenziamento e ne costituisca una sorta di completamento : la prova cioè che non esistono in quella determinata organizzazione produttiva delle possibilità di utile reimpiego del prestatore di lavoro (art. 5, l. n. 604/1966) .
La giurisprudenza prevalente e anche un’importante pronuncia della Corte Costituzionale , d’altro canto, hanno sostenuto che l’impossibilità del repêchage costituisca un elemento strutturale dell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e si inserisca a pieno titolo nella valutazione dei presupposti di legittimità dello stesso.

2. A fronte di questo consolidato orientamento, un’importante pronuncia della Corte di Cassazione nel 2016 ha rivisitato la nozione di «ragioni inerenti all’attività produttiva» ex art. 3, l. n. 604/1966, considerando valido motivo di licenziamento un effettivo ridimensionamento delle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali . Questa linea interpretativa si fonda sulla lettura della formulazione di cui all’art. 3 della l. n. 604/1966 in base alla quale – in mancanza di specificazioni che valgano a delimitare, in funzione di giustificazioni economiche a monte, le ragioni attinenti all’attività produttiva e all’organizzazione dell’azienda – non è possibile circoscrivere il giustificato motivo oggettivo soltanto a “sfavorevoli e stabili situazioni influenti sulla normale attività produttiva escludendone la ricorrenza allorquando la soppressione del posto miri, viceversa, ad incrementare efficienza, produttività, profitto o a rimediare a un calo di fatturato o ad una crisi meramente contingente” .
La limitazione del controllo giudiziale – ex art. 30, c. 1, l.. n. 183/2010, come modificato da art. 1, comma 43, l. n. 92/2012 – alla sola effettività della riorganizzazione aziendale e il conseguente ampliamento dello jus variandi – art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 3, d.lgs. n. 81/20215 – hanno innescato una rivalutazione giurisprudenziale del ripescaggio e del ricollocamento in mansioni diverse , alla stregua di un concreto bilanciamento tra i contrapposti interessi della produzione e della stabilità del lavoro .
Il repêchage è stato definito dalla giurisprudenza come un onere in capo al datore di lavoro – che intenda procedere con un licenziamento per giustificato motivo – di verificare la possibilità di adibire il prestatore a mansioni diverse, senza che ciò determini alterazioni della struttura organizzativa .
La Corte di Cassazione, a partire dal 2016 , ha affermato che spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari princìpi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente.
Il datore di lavoro, quindi, non solo ha l’obbligo di dimostrare il nesso causale tra il licenziamento individuale e le effettive esigenze di carattere produttivo e organizzativo , ma deve provare anche l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre posizioni lavorative presenti nell’organizzazione aziendale . Nonostante il repêchage risulti essere un principio giurisprudenziale costante nella fase di valutazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il suo presupposto giuridico, invece, è stato oggetto di acceso dibattito , specie dopo la c.d. riforma Fornero dell’art. 18, l. n. 300/1970 (art. 1, comma 42, l. n. 92/2012), l’introduzione del contratto a tutele crescenti nel 2015 (d.lgs. n. 23/2015) , la modifica dello jus variandi (art. 3, d.lgs. n. 81/2015) e le pronunce della Corte Costituzionale (spec. nn. 194/2018; 59/2021; 125/2022; 128/2024) .

3. Nel definire il repêchage, infatti, la giurisprudenza è stata ripetutamente chiamata a ridelinearne i limiti sostanziali e i profili probatori .
Con riferimento ai primi, si possono registrare orientamenti contrastanti. Il primo di essi ha allargato lo spazio operativo del ripescaggio , stabilendo che l’assolvimento del repêchage debba consistere nella prova dell’inesistenza di qualsiasi altra posizione lavorativa, anche inferiore, a termine e appartenente a diversa categoria legale in cui possa essere utilmente ricollocato il prestatore . Secondo tale impostazione, in presenza di mansioni simili, il datore può legittimamente recedere solo a fronte del rifiuto del prestatore di vedersele assegnate, oppure se, avuto riguardo alla specifica condizione e alla intera storia professionale del prestatore, quest’ultimo non abbia le competenze professionali richieste per l’espletamento delle mansioni.
In un caso più recente , invece, la Corte di Cassazione ha adottato una posizione ermeneutica più restrittiva e, di fronte ad un licenziamento per soppressione del posto, l’onere del datore di lavoro si deve limitare alla dimostrazione dell’inesistenza di posizioni vacanti compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate, né si debbono creare posizioni nuove o ad adibire il lavoratore a mansioni diverse dalla professionalità di riferimento. Inoltre, qualora si sia in presenza di personale omogeneo e fungibile, non necessariamente devono trovare applicazioni tutti i criteri previsti dall’art. 5, l. n. 223/1991, ma deve tenersi conto delle modalità esecutive delle mansioni assegnate ai lavoratori coinvolti, con particolare attenzione a quelle concretamente svolte da questi ultimi ai fini della scelta del dipendente da sacrificare all’esito di detta comparazione.
In realtà, l’onere della prova del repêchage può condurre, se inteso in senso rigoroso , a configurare come giustificato oggettivamente solo il licenziamento ultima ratio: infatti, il licenziamento si giustificherebbe solo se sia comprovata l’impossibilità (assoluta e oggettiva) di una diversa utilizzazione del lavoratore . Questa lettura ha dato luogo ad alcune critiche , che hanno ritenuto il principio dell’extrema ratio – fortemente ribadito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 59 del 2021 – in contrasto con l’insindacabilità delle scelte organizzative e produttive dell’imprenditore .
Come ricordato, è opportuno considerare che l’impossibilità di utilizzare altrimenti il lavoratore, adibendolo a mansioni diverse, è stata intesa dalla giurisprudenza più recente in senso tutt’altro che rigido, dovendosi ritenere legittimo anche il solo obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nell’ambito produttivo, non essendo tali scelte imprenditoriali sindacabili nei loro profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. Ciononostante, la necessità di sopprimere un determinato posto di lavoro, in conseguenza di una scelta organizzativa del datore di lavoro correlata all’attività produttiva, significa che la ragione produttiva e organizzativa non si può meramente sovrapporre all’eliminazione della posizione lavorativa ma richiede che esista a monte una giustificazione “economica”, oggettivamente verificabile , che possa orientare anche l’indagine sul nesso causale. Diversamente ragionando, si lascerebbe l’adempimento dell’onere di repêchage alla volontà meramente potestativa del datore, che potrebbe riservare la scelta a valutazioni che, in quanto interne, non potrebbero essere sindacabili neanche nella loro effettività e veridicità .

4. Il tema del repêchage ha assunto contorni critici che si sono resi ancora più problematici, specie nel contratto a tutele crescenti, in relazione alla ricostruzione delle conseguenze sanzionatorie del licenziamento ingiustificato e alla nozione di quel fatto materiale rispetto alla quale il giudice deve verificare la sussistenza ai fini della possibilità di applicare la tutela ripristinatoria del lavoratore illegittimamente estromesso. In altre parole, l’intero dibattito sul repêchage è stato fortemente condizionato dall’area di operatività della reintegrazione.
La Corte Costituzionale, con le sentenze nn. 128/2024 e 129/2024 , ha riaffermato la centralità della tutela ripristinatoria, sia in relazione all’art. 18 dello Statuto, sia in relazione al contratto a tutele crescenti . In particolare, la Corte, con la sentenza n. 128/2024, ha apportato una modifica normativa rilevante, imponendo la reintegrazione per una disposizione che la escludeva (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015). La tutela reale è stata sancita per il solo licenziamento disciplinare ma l’insussistenza del fatto materiale alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – secondo i giudici della Consulta – non può dare luogo ad una differenziazione di tutele rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo . Se il “fatto materiale”, che deve essere allegato dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento, non sussiste ciò integra l’illegittimità del recesso datoriale .
Tuttavia, proprio la sentenza n. 128/2024 è suscettibile di qualche annotazione critica laddove esclude dal fatto materiale insussistente nel licenziamento per ragioni oggettive (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015) la mancata prova dell’impossibilità del repêchage : tale configurazione conduce direttamente verso la tutela indennitaria (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015) e determina un significativo restringimento del rimedio ripristinatorio .
Tale soluzione non appare coerente, sul piano sistematico, con quanto stabilito dalla medesima Corte nella pronuncia n. 59/2021, sia pure con riferimento al «fatto insussistente» ex art. 18 St. lav. come riformato nel 2012, la cui ratio è apparsa perfettamente e coerentemente trasponibile all’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 . È noto che in tale sentenza il ripescaggio sia stato considerato parte integrante delle condizioni di legittimità del giustificato motivo oggettivo . Pertanto, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore dovrebbe determinare l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per ragioni oggettive e rendere operativo il rimedio della reintegrazione .
È corretto ricordare che la medesima violazione del repêchage da parte del datore di lavoro con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo determina una diversità di trattamento tra art. 18 St. lav. e d.lgs. n. 23/2015. Il rimedio applicabile nel caso di violazione dell’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970, secondo la giurisprudenza prevalente, si traduce nella tutela reintegratoria c.d. attenuata in favore dei lavoratori (art. 18, comma 4, l. n. 300/1970), mentre, dopo la sentenza n. 128/2024 della Corte costituzionale, per i lavoratori con contratto a tutele crescenti si esclude l’applicabilità dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 (cioè la reintegrazione attenuata) e si prevede solo l’indennità stabilita dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015.
Al di là di questo, la soppressione del posto, insieme al nesso causale, è elemento costitutivo della insussistenza del fatto (e anche del fatto materiale ) e, per tale ragione, dovrebbe generalmente condurre al rimedio della reintegrazione. Sul punto si concorda con chi ha sostenuto che il mancato assolvimento dell’onere di ripescaggio è funzionale a tale soppressione. Se, infatti, nonostante la modifica organizzativa, rimane possibile riutilizzare il dipendente in azienda, vuol dire che essa non ha eliminato il posto di lavoro . Tanto è vero che la sentenza n. 128/2024 ricorre alla “ragione di una scelta di politica del lavoro fatta dal legislatore con il cosiddetto Jobs Act”, per giustificare l’esclusione della tutela reale . Ma allora è bene ribadire che il mancato assolvimento dell’onere di ricollocamento del lavoratore non è semplicemente una violazione di tipo procedurale bensì è collegato alla soppressione del posto di lavoro .
È così vero tale passaggio logico che nella motivazione della pronuncia citata si afferma addirittura la potenziale sovrapposizione tra il licenziamento fondato su fatto insussistente e quello pretestuoso - nullo per violazione dell’art. 1343 c.c. o per frode alla legge ex artt. 1324 e 1344 c.c. o perché discriminatorio – sul rilievo che la causa concreta dell’atto di recesso – cioè la funzione giuridica del medesimo – risulti contraria alla norma imperativa di cui all’art. 3, l. n. 604/1966 . Tuttavia, anche se all’interno dell’operazione di repêchage si può ipotizzare un controllo di non pretestuosità , il profilo di illegittimità del recesso rileva perché quella prospettiva di “ricollocamento” non sussiste ovvero non corrispondente alla realtà (“fatti pseudo-organizzativi”). Inoltre, come è stato opportunamente osservato, il rischio è l’inversione dell’onere della prova e un aggravio per il prestatore di lavoro licenziato, chiamato a dimostrare che il giustificato motivo oggettivo è un pretesto per nascondere altre ragioni .

5. La recente giurisprudenza di legittimità, a fronte delle note incertezze sul fondamento del repêchage, ha provveduto a recuperare i principi di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.) – ribaditi in una famosa pronuncia delle Sezioni Unite – nell’ambito di licenziamenti economico-organizzativi , specie dopo l’ampliamento dei confini per le alternative di impiego nell’ambito della dimostrazione della soppressione del posto.
È singolare in tale direzione una recente ordinanza della Cassazione , la quale ha stabilito che il repêchage possa essere adempiuto per il tramite di una proposta di adibizione a mansioni inferiori “ripescando” il principio all’interno della citata sentenza delle Sezioni Unite del 1998 e non necessariamente nell’alveo dell’art. 2103 c.c. come modificato nel 2015. La base logico-giuridica di questa posizione è costituita dall’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto. Il principio è stato affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente ma poi è stato esteso, proprio dalla Cassazione, anche ad ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesse a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale. Si ravvisano le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore .
I passaggi successivi mirano a rafforzare la linea del “male minore” e a configurare il ripescaggio come ogni tentativo del datore, prima di intimare il licenziamento, a ricercare possibili situazioni alternative e, dove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore .
In conclusione, si può osservare che l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 128 del 2024 ha contribuito, sicuramente, a “ripescare” la tutela reintegratoria nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, ricreando una certa simmetria con la previsione dello Statuto dei lavoratori (art. 18, comma 7), riletta dalla Corte Costituzionale.
Ciononostante l’esclusione del repêchage dal “fatto materiale”, con la conseguente applicazione della tutela indennitaria , desta qualche perplessità proprio perché la prova del “ricollocamento” è un fatto negativo da intendersi come presupposto di legittimità del licenziamento: la violazione di questo onere è la più frequente e i giudici, nel caso dell’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970, hanno applicato il rimedio della reintegrazione. Su questo fronte permane un’asimmetria in chiave rimediale foriera di ulteriori dialettiche argomentative e problemi applicativi.
Tuttavia, il vero “ripescaggio”, l’audace “riscoperta”, degna di essere segnalata alle stampe, è quella della pronuncia delle Sezioni Unite del 1998 (relatore Roselli), la quale, sia pure nata in un caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, per la giurisprudenza della Cassazione può costituire il valido fondamento del repêchage nell’ordinamento.

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