TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Sul repêchage, è stato detto a mo’ di denuncia con una certa ruvidezza, sarebbe oggi in atto, fomentato da una partigiana giurisprudenza di legittimità , «uno scontro di politica del diritto con conseguenti disallineamenti, se non veri e propri scontri, tra potere giurisdizionale, legislativo e di controllo costituzionale» . In realtà, come cercheremo di argomentare, i termini del confronto dialettico tra le diverse opzioni ricostruttive – e di politica del diritto – in campo non sembrano esibire particolari aspetti di novità, e la stessa giurisprudenza costituzionale (la sentenza n. 128 del 2024, segnatamente), sulla quale parte della dottrina rilancia la polemica nei confronti di alcune recenti pronunce della Cassazione, è – a nostro sommesso avviso – ben calata in un quadro fondamentalmente assestato, quantomeno sotto il profilo nomofilattico, e le cui persistenti disarmonie (derivanti dalla diversità di regimi che tuttora separa l’art. 18 St. lav. “riformato” e il d.lgs. 23 del 2015) non sono imputabili all’opera dei giudici, ma semmai alle scelte del legislatore. Scelte che, come è naturale che sia, possono prestarsi – ed effettivamente si prestano – a critiche di segno politico diverso, e perfino opposto, ma di cui occorre, allo stato (e fintanto che il legislatore non interverrà di nuovo, come è stato sollecitato a fare dalla stessa Consulta), prendere atto.
Come si deve anche prendere atto che, nonostante da decenni la giurisprudenza configuri l’onere di repêchage a carico del datore di lavoro come uno degli elementi che condizionano la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, questo limite – «davvero minimale del potere di recesso datoriale», come è stato ben ricordato – continui a turbare la dottrina pro-business, che non ne ha mai veramente accettato il fondamento positivo, considerandolo il frutto, in definitiva abusivo, d’una pura creazione pretoria, probabilmente ben oltre i confini di quella che Paolo Grossi ha chiamato – con felice espressione – l’«invenzione del diritto» , ammessa ad opera del giudice nella temperie accentuatamente pluralistica dello Stato costituzionale «pos-moderno» .
2. Sarà allora sufficiente ricordare che, alla stregua del “diritto vivente”, il licenziamento è legittimo a condizione non soltanto che sussistano ragioni economiche, organizzative e produttive che lo giustifichino, ma anche che non vi sia stata la possibilità per il datore di lavoro di ricollocare il lavoratore in esubero all’interno dell’organizzazione aziendale esistente . Infatti, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, i tre elementi essenziali di un legittimo licenziamento per g.m.o. sono: una effettiva riorganizzazione della struttura aziendale, nella sua duplice componente personale e materiale; la sussistenza di un nesso causale tra questa riorganizzazione e la soppressione della posizione del singolo lavoratore; l’impossibilità, appunto, di procedere al repêchage di tale lavoratore, adibendolo ad altre posizioni esistenti nell’organizzazione aziendale e vacanti .
Una tale ricostruzione è tradizionalmente giustificata dalla necessità di contemperare i contrapposti interessi dell’impresa con quello del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Invero, secondo la Suprema Corte, il requisito dell’impossibilità di reimpiego in altre posizioni di lavoro o con diverse mansioni «se pure normativamente inespresso nella formulazione testuale della l. n. 604 del 1966, art. 3, trova la sua giustificazione sia sul piano dei valori, nella prospettiva del licenziamento come extrema ratio all’interno di un ordinamento che tutela il lavoro già a livello costituzionale, limitando, per converso, l’iniziativa economica privata, ove il suo esercizio risulti in contrasto con la dignità umana (art. 41 Cost., comma 2); sia come riflesso logico del carattere effettivo e non pretestuoso che deve accompagnare la scelta tecnico-organizzativa del datore di lavoro, la quale, siccome univocamente diretta al conseguimento delle ragioni proprie dell’impresa, non può riconoscere il condizionamento di finalità espulsive diversamente legate alla persona del lavoratore» .
3. Nel tempo, l’elaborazione giurisprudenziale si è incaricata di definire in maniera sufficientemente chiara il perimetro dell’onere di repêchage gravante sul datore di lavoro. Vale la pena di ricordare, ad esempio, come sia ormai pacifico che occorra fare riferimento non soltanto a momento del recesso, ma anche a un congruo arco temporale successivo, nel corso del quale il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro, dovrà dimostrare di non aver effettuato alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato .
La Suprema Corte – suscitando uno sconcerto che ci pare francamente ingiustificato , trattandosi di mero sviluppo di orientamenti ben radicati – ha recentemente ribadito che la violazione dell’obbligo di repêchage da parte del datore si verifica anche nel caso in cui la società datrice di lavoro effettui nuove assunzioni a tempo determinato, nonché nel caso in cui risultino esistenti nell’organico aziendale mansioni inferiori e il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né comunque allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni. Con particolare riguardo a tale aspetto, la Core ha evidenziato che nulla osta a che a un impiegato di alto livello possa essere proposta la ricollocazione in mansioni inferiori a quelle sino a quel momento ricoperte, ivi incluse quelle di operaio: «a fronte dell’esistenza di mansioni inferiori il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, deve offrire la mansione alternativa anche inferiore al lavoratore, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore» . Sicché il datore deve allegare e provare – valutando oggettivamente il know-how e l’attitudine del lavoratore – che quest’ultimo non possieda le competenze professionali necessarie per l’esercizio delle mansioni inferiori di operaio.
4. Quest’ultima conclusione risulta invero di indubbio rilievo rispetto alla importante questione postasi in ordine al perimetro del repêchage a seguito della nuova disciplina dello ius variandi introdotta dall’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015. È una questione come noto ampiamente dibattuta in dottrina , sulla quale, peraltro, già all’indomani della riforma in giurisprudenza era stato affermato che la modifica dell’art. 2013 c.c. avesse aggravato il contenuto dell’obbligo di repêchage, che si sarebbe dovuto estendere a tutte le attività disponibili nel complesso aziendale che appartengano al livello di inquadramento del lavoratore in esubero, senza che il lavoratore possa lamentare che esse abbiano contenuto peggiorativo o non rientrino nel suo bagaglio di competenze professionali .
Ma già un robusto orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità, formatosi con riferimento al vecchio testo dell’art. 2013, riteneva che il datore di lavoro avesse l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori, purché rientranti nel suo bagaglio professionale e compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore . E, d’altra parte, quella stessa giurisprudenza aveva da tempo riconosciuto la validità del c.d. “patto di demansionamento”, sempre che vi fosse il consenso del lavoratore (non affetto, come ovvio, da vizi della volontà) e sussistessero le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza di accordo .
Con riguardo all’art. 2103 c.c. nel testo precedente la riformulazione introdotta dall’art. 3 del d. lgs. n. 81 del 2015, applicabile ratione temporis, la Cassazione ha ritenuto che la verifica della possibilità di ricollocare in altra posizione il lavoratore, che durante il rapporto sia stato ordinariamente adibito anche a svolgere mansioni inferiori, debba estendersi anche a queste ultime .
In conclusione, quindi, l’evoluzione interpretativa dei giudici di legittimità ha sostanzialmente confermato, e semmai meglio precisato e articolato, sulla scorta di una consolidata giurisprudenza formatasi sul vecchio testo dell’art. 2103 c.c., riscritto nel 1970, quanto diversi commentatori hanno ipotizzato, per il nuovo, e cioè che la norma venisse ad assumere il valore di implicita codificazione, sotto tale profilo, del diritto vivente, quale risultante dalla giurisprudenza in tema di estensione del repêchage alle mansioni inferiori.
5. Peraltro, va evidenziato come, sempre in un’ottica di bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti, la giurisprudenza si sia, nel frattempo, fatta carico dell’esigenza di evitare che questa estensione dei confini dell’obbligo di repêchage rendesse il suo adempimento eccessivamente gravoso per il datore di lavoro.
In primo luogo, infatti, è stato precisato che non incombe sul datore di lavoro alcun onere di attivarsi per formare e addestrare il dipendente licenziando a svolgere mansioni diverse di cui vi è disponibilità azienda , e che – a monte – il datore non è certamente tenuto a creare nuove posizioni o a modificare l’organizzazione aziendale per conservare il posto al lavoratore . E già in un precedente arresto, la Suprema Corte aveva precisato che l’eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda può far venire meno il fondamento stesso dell’obbligo di repêchage, il quale evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni ad esso assegnabili .
È stato altresì affermato che, in caso di riorganizzazione aziendale, la proposta di trasformazione del rapporto full-time in part-time costituisce prova del tentativo di ripescaggio da parte del datore di lavoro .
E ancora, in tema di operatività dell’obbligo di repêchage con riferimento al fenomeno del gruppo di società, la Suprema Corte ha affermato come non sia sufficiente il collegamento economico-funzionale tra imprese, essendo necessario che ricorra la figura della c.d. codatorialità secondo i canoni identificativi individuati dalla stessa giurisprudenza di legittimità . Ne deriva che, qualora non ricorrano tali estremi, il lavoratore non potrà vantare pretese di ricollocazione rispetto alle imprese del gruppo o con riferimento ai loro assetti produttivi (ma, d’altra parte, non assolverà all’obbligo del repêchage l’offerta del datore di lavoro al licenziando di un trasferimento presso la sede di un’altra società, sia pure facente parte dello stesso gruppo di imprese).
6. Un’ulteriore questione che è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con una spiccata attenzione all’effettività del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco è quella relativa all’onere di allegazione e di prova a carico delle parti.
Numerosi arresti della Suprema Corte, nonostante le persistenti doglianze della dottrina pro-business, hanno infatti ribadito l’orientamento interpretativo, affermatosi negli ultimi anni, secondo il quale, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l’illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza di quel giustificato motivo, che include anche l’impossibilità del repêchage, ossia l’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri .
In effetti, già la giurisprudenza di legittimità più risalente poneva l’onere della prova interamente a carico del datore di lavoro, assumendo che esso non potesse essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili . In tempi meno risalenti, però, la giurisprudenza aveva cominciato a esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile ripescaggio, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli avrebbe in ipotesi potuto essere utilmente ricollocato . Ma l’orientamento giurisprudenziale che condizionava l’onere del datore di lavoro di provare l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte a che lo stesso lavoratore-attore collaborasse con il convenuto nell’accertamento di un possibile reimpiego, indicando gli altri posti in cui avrebbe potuto essere utilmente riallocato, meritava di essere ripensato, come poi giustamente avvenuto, perché si risolveva in una sostanziale inversione dell’onus probandi (che invece l’art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), divaricando onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo a una delle parti in lite e il secondo all’altra, laddove detti oneri non possono che incombere sulla medesima parte, perché chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo o estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione .
Anche con riguardo a tale problematica, comunque, i giudici di legittimità si sono fatti carico di “alleggerire” la posizione processuale del datore di lavoro, nell’ottica di un equilibrato bilanciamento dei contrapposti interessi. La giurisprudenza, ad esempio, consente che l’impossibilità del ripescaggio sia dimostrata anche per via indiretta o presuntiva, poiché, concernendo un fatto negativo, il relativo onere probatorio può essere assolto mediante la dimostrazione di fatti positivi corrispondenti, quali la circostanza che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti, fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori, ovvero che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica dei lavoratori licenziati . Alcune sentenze, peraltro, hanno sottolineato come, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del repêchage, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio .
7. Senonché la questione oggi più discussa in tema di obbligo di ricollocazione del lavoratore, la cui posizione sia stata soppressa, è quella della natura giuridica dello stesso in relazione alla struttura della fattispecie del licenziamento per g.m.o. Infatti, se prima delle riforme del 2012 e del 2015 tale questione si poneva prevalentemente sul piano dogmatico, dopo i due cruciali interventi legislativi essa finisce per assumere dirimente rilievo ai fini della selezione del regime sanzionatorio applicabile nei casi di accertata illegittimità del recesso datoriale. È non a caso soprattutto di questo che si torna a discutere, con toni come ricordato di una certa vivacità polemica , dopo la sentenza n. 128 del 2024 della Corte costituzionale. È qui che si gioca la principale partita: che è sì, come ovvio, di natura interpretativa, ma che è anche, inevitabilmente, di politica del diritto .
Come sin troppo noto, si è imposta per prima la questione se il mancato adempimento dell’obbligo di ripescaggio potesse determinare, oppure no, un’ipotesi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» ai sensi del novellato testo dell’art. 18, comma 7, St. lav., giustificando in tal modo l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata. Non è certo questa la sede per ripercorrere l’avvincente dibattito dottrinario che si è sviluppato sul punto e che – prima dei decisivi interventi correttivi compiuti dalla Corte costituzionale con le sentenze 59 del 2021 e 125 del 2022 – aveva già visto fronteggiarsi coloro che configurano l’obbligo di ricollocamento come uno degli elementi costitutivi del “fatto” posto a base del licenziamento (e quindi del g.m.o. stesso), con conseguente attrazione nella sfera della tutela reintegratoria, e quanti, invece, lo ritengono un elemento ad esso esterno, la cui violazione determinerebbe l’applicabilità della sola sanzione indennitaria (forte).
Va solo ricordato che, dopo una iniziale apertura alla possibilità di applicare la tutela reale, la giurisprudenza di merito si era espressa prevalentemente in senso negativo , ritenendo che l’obbligo di ricollocazione del lavoratore costituisca un elemento esterno al fatto la cui (manifesta) insussistenza comporta la tutela reintegratoria, sicché quest’ultima dovrebbe essere ricollegata alla sola ipotesi di inesistenza dei motivi economici invocati in sede di licenziamento, mentre ogni valutazione relativa al rispetto del repêchage rientrerebbe nelle “altre ipotesi” di licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo, sanzionabili con la sola tutela obbligatoria.
Una prima vera svolta sul tema si è verificata con l’intervento della Corte di cassazione, con tre decisioni emanate tra il 2015 e il 2018 . Nella pronuncia del maggio 2018, la più nota e commentata, è stato affermato che anche in caso di illegittimità del licenziamento per la violazione dell’obbligo di ricollocamento del lavoratore il giudice di merito potesse (all’epoca) optare per la tutela reale. La Corte di cassazione ha infatti affermato che il riferimento legislativo alla «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» (da ricondurre a una evidente e facilmente verificabile, sul piano probatorio, assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso) deve essere inteso con riferimento a tutti i presupposti di legittimità della fattispecie, tra i quali rientra anche a quello della impossibilità del repêchage .
8. Dopo quella svolta, che si situava però in un contesto in cui ancora l’art. 18 St. lav. esigeva l’accertamento dell’introvabile carattere “manifesto” della insussistenza del fatto e spianava la strada a una mera facoltà giudiziale di somministrazione del rimedio ripristinatorio, anche la giurisprudenza di merito si è ovviamente allineata a questa opzione interpretativa, ribadendo che l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore costituisce un elemento del fatto la cui (per l’appunto manifesta) insussistenza può dare luogo alla tutela reale . Nondimeno, quelle sentenze avevano, quantomeno potenzialmente, fatto un significativo passo avanti nella estensione dello spazio di applicazione della tutela reintegratoria attenuata, collocandosi saldamente dentro la tradizionale ricostruzione dogmatica dell’obbligo di ricollocamento del lavoratore quale elemento essenziale e costitutivo del valido esercizio del potere di recesso .
In effetti, le esigenze produttive e organizzative poste dal datore di lavoro alla base di esso, da valutare secondo il principio di buona fede contrattuale e nel concreto contesto del rapporto di lavoro, sussistono solo se non vi sia la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni, sicché l’impossibilità di ricollocamento finisce per essere un elemento coessenziale (al pari della riorganizzazione e del nesso causale) della nozione stessa di giustificato motivo oggettivo. E ciò non soltanto in forza del tradizionale principio che il licenziamento economico debba costituire una extrema ratio – che comunque dà concreta espressione al bilanciamento tra gli artt. 4 e 41, comma 1, Cost. –, ma anche perché nella nozione di giustificato motivo non può distinguersi il fatto materiale dalla sua valutazione giuridica. Il che implica, quale ulteriore conseguenza, che l’inadempimento dell’obbligo di repêchage comporta l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento: insussistenza che ben può essere sanzionata con la tutela reintegratoria attenuata di cui al quarto comma dell’art. 18 St. lav.
9. Ciò che con quella giurisprudenza di legittimità si manifestava solo in potenza, si è realizzato finalmente in atto con le evocate – e sotto ogni profilo determinanti – sentenze della Corte costituzionale n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022, che, come noto, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, rispettivamente nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica» – la disciplina della reintegra, e nella parte in cui antepone alla «insussistenza del fatto» l’attributo «manifesta», il cui significato appariva obiettivamente indeterminabile al di fuori di un atto di fede nei confronti della personale saggezza del giudicante.
Ma ciò che deve essere maggiormente sottolineato in questa sede è che nella parte motiva di entrambe le sentenze i giudici costituzionali hanno chiaramente evidenziato come l’insussistenza del fatto, al quale è circoscritta la tutela reale, postuli una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso, e dunque la sua natura pretestuosa, tali dovendosi intendersi non soltanto le ragioni inerenti all’attività produttiva, alla organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, come il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro, ma anche l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore, di modo che il rimedio della reintegrazione debba operare anche se l’insussistenza riguardi uno solo dei presupposti appena indicati. Come infatti spiega la Corte nella sentenza n. 59 del 2021, «tale requisito […] si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 novembre 2019, n. 29102). Perché possa operare il rimedio della reintegrazione, è sufficiente che la manifesta insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2018, n. 32159). Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si raccordano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro, che il giudice è chiamato a valutare, senza sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità. Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio» .
In altre parole, la Corte costituzionale ha autorevolmente confermato – nelle due pronunce manipolative – la lettura da tempo condivisa dalla giurisprudenza, e cioè che la validità del licenziamento “economico” consta di tre elementi, uno dei quali è appunto l’impossibilità del repêchage, con la conseguenza che la nozione di “fatto” (intesa in senso giuridico), di cui all’art. 18, comma 7, con la quale il g.m.o. interamente si indentifica, include anche questo elemento della fattispecie.
10. Quando la questione anche del profilo rimediale-sanzionatorio della violazione del repêchage sembrava dunque senz’altro chiusa con riguardo all’articolo 18 , a dar nuovi argomenti di discussione è da ultimo intervenuta la sentenza n. 128 del 2024, che, pur statuendo sull’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, secondo taluni riaprirebbe la partita anche sul versante della previsione statutaria. Ma ci sembra che questa possibilità di riaprire la discussione – per quanto riguarda l’assetto raggiunto nell’interpretazione e applicazione dell’art. 18 – sia frutto di una illusione ottica, come stiamo per argomentare.
Ora, con questa ultima pronuncia la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per g.m.o. in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, con la precisazione che, rispetto ad esso, resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore; sicché, per i rapporti di lavoro interessati da questa disciplina, la declaratoria di illegittimità del licenziamento per violazione dell’obbligo di ripescaggio non potrà in ogni caso dare luogo all’applicazione della tutela reale ma soltanto alla somministrazione di quella indennitario-risarcitoria, compresa tra un minimo di sei e un massimo di 36 mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR.
Più in particolare, la sentenza ha accolto le questioni sollevate dal giudice rimettente in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 4 e 35 Cost., rilevando che il principio della necessaria “causalità” (i.e., giustificazione) del recesso datoriale esige che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia sussistente, sicché la radicale irrilevanza dell’insussistenza del fatto materiale prevista dalla norma censurata determina un difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Infatti, la discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento non si può estendere fino a consentire di rimettere questa alternativa a una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su un “fatto insussistente”, lo qualifichi come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare.
Su tale base, la Corte ha quindi precisato che il vizio di illegittimità costituzionale, stante la specifica formulazione del secondo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, non si riproduce qualora il “fatto materiale” – allegato come ragione d’impresa – sussiste ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda. In altri termini, per la Corte, la differenza, derivante dalla diversa scelta del legislatore in sede di bilanciamento degli interessi in gioco rispetto al regime delineato dall’art. 18 St. lav., risiede, per l’appunto, nell’attributo “materiale”, che non compare nella previsione statutaria. Siccome nell’ambito del sistema del d.lgs. n. 23 del 2015 rileva solo la insussistenza del fatto “materiale”, e tale nozione è limitata alla effettività e non pretestuosità della esigenza di riorganizzazione invocata dal datore, la questione della ricollocabilità aliunde del lavoratore – in questo contesto – si pone non solo su un piano concettualmente diverso e successivo rispetto a tale verifica, come anche nel contesto dell’art. 18 , ma viene specificamente munita, per come è ora formulata la norma di risulta all’esito della sentenza della Corte, di una diversa forma di tutela, assicurata dal rimedio, comunque adeguato, della indennità risarcitoria tra 6 e 36 mensilità.
La Corte di cassazione, in una fattispecie regolata dal d.lgs. n. 23 del 2015, nel dichiarare la illegittimità del licenziamento per violazione dell’obbligo di repêchage, ha puntualmente applicato la tutela indennitaria nei termini derivanti dal dispositivo della sentenza n. 128 del 2024 .
10. Una parte della dottrina propende con veemenza per la sicura estensione di questa regola, introdotta dalla Consulta nel corpo dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, all’articolo 18 . Questo tentativo appare, tuttavia, palesemente infondato e finisce per travisare il pur chiarissimo significato della pronuncia, per la dirimente ragione che a escludere l’assimilabilità, sul punto, dei due diversi regimi rimediali è stata proprio la Corte costituzionale, che, mentre ha ribadito il proprio avallo al consolidato orientamento interpretativo relativo all’articolo 18, nei termini sopra rammentati, ha corretto l’irrazionale disposto del secondo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 limitando l’applicabilità della neo-introdotta regola della tutela reintegratoria nelle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
La diversità, (anche) sotto tale profilo, dei due regimi, rispettivamente disegnati dal legislatore del 2012 e del 2015, è espressamente ricondotta dalla Corte a una diversa scelta di politica del diritto, dovuta a un diverso modello di bilanciamento degli interessi, ritenuto conforme a Costituzione. È la stessa Corte a spiegarlo laddove precisa che, alla stregua della previsione dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella evenienza in cui sia possibile ricollocare aliunde il lavoratore, il “fatto materiale”, allegato come ragione d’impresa, sussiste, ma non giustifica il licenziamento, perché per l’appunto risulta che il prestatore di lavoro avrebbe potuto essere utilmente ricollocato in azienda. Donde la consequenziale e decisiva precisazione, che merita d’essere riportata per esteso: «Però – in ragione di una scelta di politica del lavoro fatta dal legislatore con il cosiddetto Jobs Act (legge n. 183 del 2014), che ha ridotto la portata della tutela reale – si fuoriesce dall’area della tutela reintegratoria attenuata del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, il cui perimetro applicativo, come nell’ipotesi del licenziamento disciplinare, è segnato dall’“insussistenza del fatto materiale”. Né si riproduce il vizio di illegittimità costituzionale, del quale si è finora argomentato, proprio perché il licenziamento è comunque fondato su un “fatto sussistente”, ancorché il recesso datoriale sia poi illegittimo sotto un profilo diverso (quello della verificata ricollocabilità del lavoratore). La tutela allora è quella solo indennitaria di cui al comma 1 dello stesso art. 3. Consegue che la reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, dovendo esser limitata al rilievo dell’insussistenza del fatto materiale, deve tener fuori, dalla sua portata applicativa, la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, che esclude il rilievo, a tal fine, della valutazione di proporzionalità del licenziamento alla colpa del lavoratore (vedi la coeva sentenza n. 129 del 2024). La violazione dell’obbligo di repêchage attiva la tutela indennitaria di cui al comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015» .
Non v’è pertanto nessuno spazio per rimettere in discussione – come suggerisce invece parte della dottrina pro-business – il consolidato assetto interpretativo formatosi sulla diversa previsione dell’art. 18, comma 7, St. lav., che è improntato a una diversa scelta di graduazione dei rimedi, che lì assicura una netta prevalenza a quello reintegratorio. Occorre quindi prendere atto, come è stato correttamente puntualizzato, che siccome «la Corte ritiene che il bilanciamento tra l’art. 41, c. 1, Cost. e l’art. 4 Cost. sia stato operato dalla prima riforma in modo differente rispetto a quanto è avvenuto nella seconda, la Cassazione non dovrà mutare il suo solido e consolidato orientamento che all’insussistenza del tentativo di ricollocamento fa conseguire la reintegrazione attenuata» .
11. È innegabile, d’altro canto, che, nel mostrare, sotto questo rilevante profilo, una sostanziale deferenza nei confronti della diversa scelta di politica del lavoro effettuata dal legislatore del Jobs Act, la Corte costituzionale realizzi «una soluzione compromissoria» , che può entrare effettivamente in tensione – sul piano sistematico – con la dominante impostazione dottrinale e giurisprudenziale, ribadita peraltro dalla stessa sentenza, che colloca il repêchage all’interno del fatto (giuridico) posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Può quindi comprendersi come in dottrina si sia paventato il rischio di un «cortocircuito sistematico», quando non di «insanabili contraddizioni nel sistema» , evidentemente dovute alla discrasia di valutazioni che si viene così a determinare tra i due regimi.
La tensione deve essere però sciolta, sul piano pragmatico, prendendo atto di ciò, che seppure il repêchage costituisca sempre un elemento essenziale del giustificato motivo oggettivo, il legislatore ha ritenuto di doverne sanzionare la violazione considerandolo interno al “fatto” previsto dall’art. 18 (con conseguente applicazione della tutela reale) e invece esterno a quello definito con l’aggettivo “materiale” dall’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, così come risultante all’esito della sentenza n. 128 del 2024. È, questa, soluzione che può certo apparire scarsamente appagante, e pure noi avremmo auspicato un minor grado di deferenza nei confronti della scelta del legislatore del Jobs Act, con l’estensione anche ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 del medesimo regime rimediale oggi previsto – dopo gli interventi della Corte costituzionale del 2021 e del 2022 – dall’art. 18 .
Tuttavia, pur nella difficoltà del compromesso così raggiunto, non pare corretto affermare che si tratti di una decisione di portata tutta politica della Corte costituzionale, che «pur di salvaguardare la scelta di fondo del d.lgs. n. 23/2015 di ridurre le tutele previste per licenziamento economico rispetto allo Statuto dei lavoratori, non esita a mutilare la nozione di causa/fatto (con eliminazione da essa del repêchage) nel d.lgs. n. 23/2015, finendo però così per minarne in radice l’effettività» . Anche la sentenza n. 128 del 2024, infatti, rafforza – e non di poco – l’effettività delle tutele contro il licenziamento economico illegittimo nel nostro sistema, e se non arriva al punto di correggere del tutto, col rischio però di tracimare dal ruolo che le è proprio , le aporie che all’interno di tale assai slabbrato “sistema” ha creato a getto continuo il legislatore con le due improvvide controriforme neoliberali all’italiana, come altrove le abbiamo chiamate , non può imputarsi alla Corte costituzionale una responsabilità che resta – sul piano, questo sì, tutto politico – in capo al detentore del potere legislativo.
