TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa
L’obbligo datoriale di repêchage – che vede subordinata la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche alla comprovata impossibilità di adibire il lavoratore ad una diversa mansione o postazione di lavoro – è un classico istituto di creazione giurisprudenziale e dottrinale , posto che nessuna delle pur articolate discipline legislative in tema di licenziamento allude, anche indirettamente, ad esso. Si tratta in effetti di un obbligo strettamente connesso alla teorica del licenziamento come estrema ratio
Per la verità la previsione di un tale limite esterno al potere di licenziare fu originariamente elaborata dalla giurisprudenza arbitrale formatasi in applicazione degli Accordi interconfederali del 1950 e del 1965 riguardanti i licenziamenti individuali nel settore industriale . Una previsione divenuta, poi, tralaticiamente, un punto fermo della disciplina “vivente” del licenziamento individuale per motivi organizzativi, fino ad assurgere a parte integrante del giustificato motivo oggettivo. Il licenziamento viene pertanto ritenuto legittimo non soltanto quanto supportato da ragioni economiche, produttive e organizzative, ma anche quando sia provata l’impossibilità per il datore di lavoro di ricollocare il lavoratore in esubero su altra postazione di lavoro.
La giurisprudenza, peraltro, pur nella perentorietà dell’affermazione del vincolo, non si è curata di precisarne bene i confini o almeno ha lasciato ampi margini di incertezza su di essi, malgrado si tratti di un obbligo la cui violazione comporta la illegittimità del recesso datoriale.
Al classico tema del perimetro – livello, qualifica e ambito aziendale – entro il quale si impone la ricerca di posizioni alternative atte a eludere la drastica risoluzione del rapporto, si è però da un decennio aggiunta un’animata ulteriore disputa. La biforcazione delle sanzioni conseguenti alla illegittimità del licenziamento per g.m.o. (codificata dal 7° c. dell’art. 18 e dalla sentenza della Corte costituzionale n. 128/2024) ha, infatti, reso necessario chiarire se l’omissione del repêchage comporta una conseguenza reintegratoria (nella formula attenuata) o, invece, un rimedio meramente indennitario. Alternativa che viene risolta in base alla collocazione della omissione in parola all’interno della “insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” o, piuttosto, nelle “altre ipotesi” di illegittimità (v. par. 4).

2. L’ambito professionale di operatività dell’obbligo di ricollocazione
Quanto alla individuazione dei contesti che segnano la latitudine dell’obbligo di repêchage è d’uopo rivolgersi in via prioritaria alle indicazioni giurisprudenziali, posto che alcuna norma di legge offre ausilio al riguardo e la dottrina non è affatto univoca.
Può dirsi al riguardo che è consolidato il principio secondo cui il ripescaggio non può essere limitato alla sola offerta di mansioni del medesimo livello di quello posseduto dal lavoratore, dovendosi estendere – nelle ipotesi in cui le prime non siano disponibili – anche a mansioni diverse e financo di livello inferiore, assunto condivisibilmente motivato con il rilievo “dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto” .
Secondo taluno la ricollocazione potrebbe avvenire su mansioni che comportano un solo livello di inquadramento inferiore, secondo altri non vi sono limiti nella ricerca del minore livello, con l’unico vincolo della compatibilità con il bagaglio professionale di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento .
Non ostano alla applicazione di tale principio i limiti al mutamento di mansioni e di livello previsti dall’art. 2103 c.c. (nella versione successiva alla riforma del 2015), limiti che rispondono a rationes differenti (tutela della professionalità versus tutela del posto di lavoro) e neanche la eventuale contestuale riduzione della retribuzione conseguente alla nuova adibizione.
Un principio, questo relativo alla retribuzione, che trova origine nella pronunzia delle Sezioni Unite della Cassazione del 7 maggio 1998 n. 7758, che ha ritenuto prevalente l’interesse del lavoratore “alla conservazione del posto di lavoro, rispetto al quale, in ragione della logica del male minore, è possibile sacrificare sia la professionalità acquisita, sia la retribuzione in godimento” ; assunto che poi ha trovato larga conferma nella giurisprudenza successiva.
E va al riguardo sottolineato che quanto più si amplia l’ambito entro cui deve operare la ricollocazione, tanto più condizionato risulta per il datore di lavoro il ricorso al licenziamento per g.m.o., con la singolare conseguenza che quanto più si afferma la latitudine della flessibilità funzionale (pro business) tanto più si difficulta il potere di licenziare (con effetto pro labour).
I Giudici, invece, hanno escluso che l’obbligo di repêchage possa riguardare la collocazione in una posizione di livello superiore a quella rivestita dal lavoratore , mentre hanno sostenuto che la proposta di trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale soddisfa l’obbligo di repêchage .
A fronte di questa “dilatazione” dell’obbligo in esame in direzione di mansioni diverse e anche inferiori, la giurisprudenza ha invece più volte escluso che:
a) il datore di lavoro abbia un obbligo di formazione dei lavoratori, tale da consentire l’adeguamento professionale alle nuove mansioni disponibili in azienda , sicché vanno escluse dal vincolo di repêchage mansioni evidentemente disomogenee quanto a attitudini e capacità professionali ;
b) il datore di lavoro debba attivarsi per modificare l’assetto organizzativo, in guisa da creare postazioni professioni compatibili con il profilo professionale posseduto dal lavoratore .
Sempre in chiave di estensione dell’obbligo di repêchage, stavolta sul piano temporale, la Corte di Cassazione ha altresì affermato che “il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”.

3. Il perimetro di riferimento logistico e societario
In ordine al perimetro logistico e societario entro il quale deve trovare svolgimento la proposta di repêchage si è affermata la tesi che proietta la ricerca di una posizione lavorativa alternativa sulla intera struttura aziendale, financo in diversi cantieri o filiali e, quindi, non solo sulla unità produttiva in cui opera il lavoratore da licenziare .
Ulteriore spessore l’obbligo datoriale in parola rinviene in quella giurisprudenza secondo cui esso “si estende anche a posizioni lavorative presenti presso le altre società riconducibili al medesimo centro di imputazione datoriale” , non potendo essere limitato al solo organico della società formale titolare del contratto di lavoro. Secondo altro orientamento, invece, a tal fine non è sufficiente un collegamento economico funzionale tra imprese essendo necessario che ricorra in senso tecnico la figura della codatorialità .
Muovono all’opposto nella direzione di una delimitazione dell’obbligo di repêchage le pronunzie della Corte di Cassazione che ne escludono la ricorrenza in relazione al licenziamento dei dirigenti, sul rilievo che la libera recedibilità, connaturata alla posizione di questi ultimi, è inconciliabile con l’obbligo in questione .

4. Le conseguenze sanzionatorie della omissione del repêchage

Una problematica ulteriore rispetto alla individuazione del perimetro entro il quale va esercitato il repêchage ha investito, come inizialmente chiarito, le conseguenze sanzionatorie dell’omissione.
Andando in contrario avviso rispetto all’orientamento largamente prevalente – secondo cui l’omesso tentativo di “recupero” del lavoratore licenziando produceva un ordine di reintegrazione (nella formula attenuata) –, la Corte costituzionale con la sentenza n. 128/2024 ha affermato a chiare lettere che il mancato repêchage, pur provocando il venir meno del giustificato motivo oggettivo di licenziamento con conseguente illegittimità del medesimo, deve essere sanzionato con un mero indennizzo, ai sensi del 1° c. dell’art. 3 del D.lgs n. 23/2015.
Ciò in quanto il mancato assolvimento dell’obbligo di ripescaggio non può essere ricondotto o assimilato alla “insussistenza del fatto posto alla base” del licenziamento c.d. economico - cui la stessa sentenza della Corte costituzionale ricollega il rimedio reintegratorio -, ma deve rientrare nelle altre ipotesi, diverse dalla “insussistenza” del fatto, in cui non ricorre il g.m.o., ipotesi punite con la mera sanzione indennitaria .
Il mancato ripescaggio, dunque, provoca sicuramente l’illegittimità del licenziamento in quanto carente del giustificato motivo oggettivo, ma non la sanzione reintegratoria, riservata solo alla “insussistenza” del fatto posto a giustificazione del licenziamento.
La pronunzia della Corte costituzionale merita, ad avviso di chi scrive, pieno consenso, anche al di là del suo percorso motivazionale, per i seguenti argomenti:
a) allineare quanto a conseguenze sanzionatorie il mancato riutilizzo del lavoratore e la mancata soppressione del posto (insussistenza del fatto) sarebbe irrazionale giacché, se si entra in una valutazione comparativa, il primo comportamento datoriale è certo meno grave del secondo e merita una sanzione meno severa , tenuto altresì conto della difficoltà per il datore di fornire la prova di un fatto negativo e della cennata circostanza che la giurisprudenza tende a chiedere la prova della impossibilità di ricollocazione financo in mansioni inferiori appartenenti a un diverso livello e nella intera area aziendale, quindi non soltanto nell’unità produttiva interessata dal licenziamento ;
  b) la collocazione del mancato repêchage entro “il fatto posto a fondamento del licenziamento” comporterebbe che, almeno nelle ipotesi in cui il licenziamento non tocca postazioni lavorative professionalmente fungibili (per le quali l’erroneità della scelta prevede il rimedio indennitario: (v. infra), non si configurerebbero mai “gli altri casi” che il legislatore isola concettualmente e vuole sanzionati solo sul piano indennitario. L’interpretazione fornita dalla Consulta con la sentenza n. 128/2024 è, pertanto, l’unica idonea a riconoscere uno spazio alla sanzione meramente economica, in linea con la graduazione dei rimedi voluta dal legislatore ;
  c) nella sede giudiziale il repêchage viene in rilievo solo dopo che sia stata esclusa la fattispecie della insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, a conferma che esso è esterno a detta fattispecie, per la quale soltanto il legislatore ha previsto la reintegrazione.
  e) se è plausibile che inizialmente, per riequilibrare il regime sanzionatorio del 2012/2015, sbilanciato in favore della inedita sanzione indennitaria, poteva essere “politicamente” opportuno o almeno comprensibile il tentativo di ritrovare spazi per l’opzione reintegratoria, analogamente, e per converso, appare ragionevole - a seguito dei vari interventi della Corte costituzionale e della Cassazione che hanno reso residuale lo spazio della sanzione indennitaria - ricollocare il repêchage tra gli elementi esterni al fatto posto alla base del licenziamento, la cui mancanza produce solo una conseguenza economica . In fondo è operazione legittima quella che, al variare del dato normativo, fa conseguire una mutazione interpretativa, proprio per la strutturale connessione tra i vari segmenti della disciplina del recesso datoriale per motivi oggettivi.
In merito alla giurisprudenza successiva alla pronuncia della Corte costituzionale n. 128/2024 merita segnalazione la sentenza del Tribunale di Ravenna del 17.10.2024, lo stesso Tribunale che aveva rinviato alla Corte costituzionale la questione poi oggetto della pronunzia n. 128/2024.
Il Giudice, pur prendendo atto che la Corte costituzionale ha escluso – quanto meno con riferimento al D.lgs n. 23/2015 – la reintegrazione in caso di omesso repêchage, ritiene che “l’ammontare risarcitorio deve corrispondere per lo meno alla monetizzazione della reintegra” ed essere “adeguato e pari all’enorme disvalore della violazione datoriale”, concludendo per una condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità “da corrispondere dalla data del licenziamento sino alla effettiva reintegrazione (con il limite delle 12 mensilità)”, in sostanza una condanna alla reintegrazione (attenuata) solo per equivalente e non in forma specifica .
A voler quindi delineare in guisa sintetica l’attuale assetto normativo del d.lgs n. 23/2015, come derivante dall’intervento della Corte costituzionale, può dirsi che allo stato opera la sanzione reintegratoria nella formula attenuata:
 aa) se la modifica organizzativa e la conseguente soppressione del posto di lavoro non sono effettive;
 bb) se le motivazioni economiche o organizzative “dichiarate” a monte della modifica strutturale, pur in assenza di un obbligo al riguardo, risultano non veritiere;
 cc) se non vi è un nesso causale tra la riorganizzazione e il licenziamento dello specifico lavoratore;
Postulano invece una reazione puramente indennitaria, in quanto rientranti nelle altre ipotesi di carenza del g.m.o. diverse dall’ “insussistenza del fatto”:
 aaa) la violazione del criterio di buona fede e correttezza nella scelta del lavoratore da licenziare, in presenza di una pluralità di lavoratori con mansioni fungibili o, secondo altro orientamento, la violazione dei criteri canonici mutuati dalla disciplina dei licenziamenti collettivi
 bbb) la mancata prova da parte del datore di lavoro della impossibilità di collocare su altre posizioni il lavoratore, ossia l’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente collocare il lavoratore.
Va infine segnalato che la riscrittura ad opera della Consulta della disciplina sanzionatoria del mancato repêchage, riguarda direttamente soltanto il d.lgs. n. 23/2015. A rigore, quindi i Giudici potrebbero, in sede di applicazione dell’art. 18, comma 7, come novellato dalla legge del 2012, confermare l’opposta interpretazione fin qui consolidata dalla Cassazione in materia di omesso repêchage e applicare la reintegrazione attenuata . E probabilmente lo faranno per amore delle proprie originarie soluzioni e dell’imput ideologico di salvaguardare per quanto possibile gli spazi della reintegrazione .
Una simile evenienza provocherebbe, tuttavia, una ulteriore ed evidente contraddizione tra la disciplina del 2012 (con reintegrazione per mancato repêchage) e quella del 2015 (con mero indennizzo per la stessa ipotesi), provocando una esigenza di ulteriore aggiustamento ad opera del legislatore o della stessa Corte costituzionale.

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