Testo integrale con note e bibliografia

1. Il quadro di riferimento

Come noto, il tema della rappresentatività sindacale e della sua misurazione è venuto in grande rilievo nel corso degli ultimi anni con riguardo alla questione dell’efficacia del contratto collettivo nazionale. Ciò è dipeso, da un lato, dal lento ma progressivo sfaldamento del sistema contrattuale confederale, che ha lasciato spazio ad esperienze contrattuali autonome sempre più diffuse e applicate, dall’altro, dalla concorrenza competitiva che si è registrata all’interno stesso del sistema confederale, in cui alcuni contratti hanno visto allargarsi il loro campo di applicazione ben oltre il perimetro originario diventando punto di riferimento applicativo per tanti settori (pensiamo, per tutti, al ccnl multiservizi e al ccnl servizi fiduciari e di vigilanza). La duplice tendenza non solo ha scardinato il principio di unicità contrattuale per categoria merceologica, alimentando un pluralismo competitivo al ribasso a tutto campo, ma ha altresì significativamente ridimensionato, in nome di un rinnovato slancio del principio di libertà sindacale, il parametro della maggiore rappresentatività quale strumento di garanzia della uniformità dei trattamenti economici-normativi.
Dinanzi alla babele contrattuale che si è generata, resa ancora più evidente dal lodevole intervento di sistemazione operato dal Cnel attraverso il codice alfanumerico unico dei CCNL, si è diffusa negli studiosi e negli operatori la convinzione della necessarietà di un intervento legislativo che superi la persistente anomia del sistema delle relazioni sindacali, proponendo un modello regolativo imperniato sulla perimetrazione delle categorie merceologiche e sulla misurazione di rappresentatività dei soggetti sindacali abilitati a negoziare nei rispettivi settori. Ed, infatti, la definizione di un paradigma in grado di selezionare le associazioni sindacali e, dunque, i contratti collettivi sulla base di criteri di rappresentatività certi e verificabili sembra costituire l’unico rimedio possibile contro i fenomeni del dumping salariale e dello shopping contrattuale che affliggono il sistema delle relazioni industriali e che si ripercuotono direttamente sui lavoratori.
Peraltro, se la diagnosi è ampiamente condivisa, la terapia è estremamente complessa da identificare. Da una parte, i criteri di misurazione classici della maggiore rappresentatività sembrano mostrare i segni del tempo e perdono capacità discretiva (il numero di iscritti, i consensi ottenuti in occasione delle elezioni sindacali, la partecipazione alle trattative per la stipula di contratti collettivi, la capillarità dell’organizzazione, ovvero la presenza di una data associazione sul territorio nazionale, l’assistenza prestata nelle controversie individuali e collettive, l’aver partecipato alla costituzione di enti bilaterali, l’aver fornito assistenza ai lavoratori nelle pratiche per la disoccupazione, sono indicatori in parte non obiettivamente riscontrabili, in parte scarsamente selettivi), aprendo la strada al criterio quantitativo, di pronto riscontro ma di dubbia utilità in chiave anticoncorrenziale, rappresentato dal numero di aziende e di lavoratori che applicano lo specifico CCNL. Dall’altra parte, la demarcazione dell’ambito all’interno del quale effettuare queste misurazioni è operazione estremamente fluida e impermeabile ad un intervento eteronomo del legislatore non solo per il principio di libertà sindacale, e quindi dell’art. 39, c. 1, Cost., che implica l’autodeterminazione ad opera degli stessi attori delle relazioni industriali della categoria contrattuale di applicazione del contratto collettivo, ma anche per l’esistenza di contratti collettivi relativi a categorie affini ed, almeno in parte, sovrapposte, costantemente mutevoli in ragione della realtà socio-economica e produttiva di riferimento. Sicché se un rinvio legislativo “dinamico” ai perimetri contrattuali individuati dalle stesse parti sociali presenta il rischio comunque di una frammentazione della rappresentanza sindacale, con il proliferare di nuove sigle sindacali operanti in sotto-settori ritagliati e cuciti ad hoc al fine di risultare rappresentative, una gestione esclusivamente legislativa della perimetrazione rappresenterebbe un’indebita compressione della facoltà di autorganizzazione ed azione sindacale in contrasto con l’art. 39 Cost. Da qui le difficoltà oggettive di un intervento legislativo che contemperi i valori costituzionali in gioco (libertà sindacale, diritto al lavoro equo e dignitoso, libertà di iniziativa economica d’impresa), patrocini un modello contrattuale tendenzialmente uniforme in cui trovino equilibrato spazio la tutela di condizioni di lavoro adeguate, che liberino effettivamente dal bisogno, e la produttività del contesto applicativo (settore / azienda), e sappia quindi coniugare, nella scelta dei criteri selettivi di abilitazione delle organizzazioni sindacali alla firma di contratti collettivi erga omnes, ai parametri quantitativi del tasso di applicazione e/o copertura anche parametri qualitativi legati ai soggetti stipulanti e ai contenuti degli accordi (ad esempio, previsione dei minimi retributivi e normativi oltre una definita soglia percentuale media di settore).

2. Il tema della rappresentatività sindacale nelle ultime due Legislature e nella Direttiva UE sul salario minimo adeguato

Dall’esame dei diversi disegni di legge presentati alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica in materia di rappresentatività sindacale nelle ultime due Legislature, la XVII e la XVIII, è possibile trarre alcune interessanti osservazioni.
In primo luogo, la maggioranza delle proposte di legge si inserisce in più ampi progetti volti a dare attuazione agli artt. 39 e 46 Cost. o, comunque, tesi a ridefinire l’attuale sistema del diritto sindacale, circostanza sintomatica del fatto che il tema della rappresentatività richiede di affrontare congiuntamente molti altri profili critici del diritto sindacale. Si segnala altresì un disegno di legge costituzionale che ambisce a riscrivere l’art. 39 Cost. Si tratta del Disegno C.225, presentato dall’On. Stefano Ceccanti (PD) in data 23 marzo 2018. Tra le altre cose, il nuovo dettato dell’art. 39 Cost. prevederebbe che “i requisiti del contratto collettivo che produca effetti ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto comune dei contratti [siano] stabiliti con legge, che a tale fine determina i criteri per l’accertamento della rappresentatività delle associazioni sindacali”.
In secondo luogo, deve osservarsi come la quasi totalità dei disegni di legge presentati preveda di misurare e certificare la rappresentatività sindacale – a livello nazionale e, talvolta, a livello territoriale e aziendale – facendo riferimento ai criteri già individuati dalle stesse associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, ovvero alla media tra il dato associativo e il dato elettorale, talvolta persino citando specifici testi contrattuali (è questo il caso, ad esempio, del Disegno S.1259, presentato dall’On. Francesco Laforgia (Misto, Liberi e Uguali) in data 30 aprile 2019, il quale menziona nell’articolato il T.U. 10 gennaio 2014). Trattasi, com’è noto, di un modello già ampiamente sperimentato nell’ambito del pubblico impiego privatizzato in base a quanto previsto dall’art. 43, co. 1, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Il Disegno S.654, presentato On. Giovanni Barozzino (Misto, Sinistra Ecologia e Libertà) in data 14 maggio 2013, si propone invece di misurare e certificare la rappresentatività sindacale facendo riferimento unicamente ai risultati elettorali per le elezioni delle RSU. In ogni caso, i vari progetti di legge presentati sembrano basarsi su criteri di misurazione della rappresentatività già ampiamente sperimentati, senza cioè introdurre significative novità. Da questo punto di vista, si differenzia rispetto agli altri progetti, il Disegno S.1132, presentato dall’On. Tommaso Nannicini (PD) in data 11 marzo 2019. Infatti, il disegno di legge in parola non si propone di individuare direttamente i criteri attraverso i quali misurare la rappresentatività sindacale, bensì prevede la costituzione, presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, di una commissione paritetica composta da rappresentanti delle parti sociali alla quale affidare il compito di individuare i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, tenendo però conto degli accordi interconfederali stipulati in materia dalle associazioni di rappresentanza comparativamente più rappresentative.
Alcuni disegni di legge individuano una soglia al di sopra della quale il sindacato può considerarsi rappresentativo, generalmente fissata al 3% o al 5% (cfr., ad esempio, il Disegno S.654; il Disegno C.519, presentato dall’On. Cesare Damiano (PD), in data 25 marzo 2013; il Disegno C.5, di Iniziativa popolare, presentato in data 15 marzo 2013; il Disegno S.184, presentato dall’On. Rita Ghedini (PD) in data 15 marzo 2013; il Disegno C.788). Tutti i progetti di legge prevedono, allo scopo di misurare la rappresentatività sindacale, la collaborazione ed il coinvolgimento di vari enti istituzionali: perlopiù dell’Istituto Nazionale Previdenza Sociale e del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, ma talvolta anche del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
In terzo luogo, va detto come solo alcune proposte di legge prendano in considerazione in maniera più o meno approfondita il tema della misurazione della rappresentatività delle associazioni datoriali, mentre altre sembrano eludere il tema. Lo stesso dicasi in merito alla perimetrazione della categoria contrattuale. In genere, gli elementi presi in considerazione dai diversi disegni di legge per determinare la rappresentatività sindacale delle associazioni sindacali dei datori di lavoro sono il numero dei datori di lavoro iscritti a ciascuna associazione ed il numero dei dipendenti occupati presso ciascuno dei datori di lavoro iscritti, nonché la diffusione territoriale dell’associazione (cfr., ad esempio, il Disegno S.654; il Disegno C.2198, presentato dall’On. Rina De Lorenzo (M5S) in data 21 ottobre 2019; il Disegno S.1259). Fa riferimento a questi criteri anche il Disegno C.788, presentato dall’On. Chiara Gribaudo (PD) in data 26 giugno 2018, il quale, però, li individua come criteri suppletivi, lasciando in prima battura agli accordi interconfederali sottoscritti dalle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro privati comparativamente più rappresentative sul piano nazionale il compito di fissare i parametri utili a certificare la rappresentatività sindacale. Il Disegno C.788, in effetti, si distingue per essere tra quelli meno invasivi della libertà sindacale, tanto da prevedere che gli accordi interconfederali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possano individuare ulteriori parametri rispetto a quelli indicati dalla legge stessa ai fini della determinazione della rappresentatività sindacale delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori. Si contraddistingue, invece, per una regolamentazione di carattere maggiormente “eteronomo” un altro coevo progetto di legge, ovvero il Disegno C.707, presentato dall’On. Renata Polverini (FI) in data 7 giugno 2018.
Infine, quanto alla provenienza politica delle diverse proposte di legge, va rilevato come la maggioranza delle proposte presentate nelle ultime due legislature siano state avanzate da Deputati e Senatori appartenenti a partiti di sinistra o di centro-sinistra (PD, M5S, LeU, SEL). Si registra un solo disegno di legge del centro-destra: il Disegno C.707. L’unica altra iniziativa in materia di diritto sindacale proveniente dall’area del centro-destra è il Disegno C.1724, presentato dall’On. Francesco Lollobrigida (FDI) in data 2 aprile 2019, relativo all'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle forme di organizzazione dei sindacati e sull'attuazione delle disposizioni costituzionali che ne disciplinano il riconoscimento della personalità giuridica.
A prescindere dall’area politica del Deputato o del Senatore che ha presentato il disegno di legge, tutte le proposte esaminate sono rimaste ben lontane dal diventare legge. Infatti, tutti i disegni di legge presentanti durante la XVII si sono arenati già in Commissione. L’iter dei vari progetti di legge presentati durante la XVIII ha, d’altro canto, subito un’accelerazione solo tra maggio e luglio 2022, quando la crisi del Governo Draghi si stava già affacciando e la sua successiva sfiducia, con l’indizione delle elezioni anticipate, ne ha definitivamente sancito la caducazione.
Il nuovo Governo, appena formatosi, avrà da affrontare anche questo tema, resosi assai urgente a seguito dell’approvazione della direttiva UE sul salario minimo adeguato avvenuta il 4 ottobre u.s. In verità la direttiva non istituisce un unico meccanismo di determinazione salariale ma lascia i diversi Stati membri liberi di scegliere le modalità di attuazione con cui garantire tale trattamento minimo adeguato quali la contrattazione collettiva e il salario minimo legale. La finalità di un simile intervento è quella di contrastare il diffondersi dei bassi trattamenti retributivi e del dumping salariale in ambito europeo e quindi evitare che la competitività e la concorrenza fra imprese si fondi principalmente sul parametro del costo del lavoro, senza peraltro intervenire direttamente sull’armonizzazione dei salari europei o sull’individuazione di un meccanismo uniforme di determinazione. La direttiva in tal senso prevede che gli Stati membri in cui è presente un salario minimo legale debbano adottate misure necessarie atte a garantire criteri stabili e chiari per la determinazione e l’aggiornamento del trattamento retributivo minimo, anche con la partecipazione delle parti sociali. Con l’accordo del 7 giugno 2022 il Consiglio e il Parlamento europeo hanno stabilito, poi, che i salari minimi legali dovranno essere aggiornati al massimo ogni due anni (quattro anni laddove i paesi utilizzino un meccanismo di indicizzazione automatica). Mentre per gli Stati membri in cui la retribuzione adeguata è garantita tramite contrattazione collettiva, senza imporne una generalizzazione o applicazione universale, si pongono due diverse discipline in funzione del tasso di copertura dei contrati collettivi: se superiore al 80% dei lavoratori vengono previste alcune misure e iniziative molto blande e “fumose”, se inferiore si introduce un obbligo, a carico dello Stato membro, di adozione di uno strutturato piano d’azione pubblico volto alla promozione dello strumento contrattuale, sentite le parti sociali.
In sostanza la UE richiede agli Stati membri di risolvere internamente e tramite soluzioni autonome l’equilibrio tra miglioramento dell’adeguatezza dei salari minimi ed impatti e rischi economici che l’innalzamento dei salari può determinare in specifici settori, regioni e PMI, ma obbligandoli a farsi carico della questione dell’equità e adeguatezza dei salari per arginare il fenomeno dei woorking poors e implementare la coesione ed il progresso sociale.

3. Le soluzioni praticabili

Ora, a parte le difficoltà tecniche più sopra registrate, di fronte alla frammentazione della rappresentanza da ambo i lati, datoriale e dei lavoratori, ed all’affermarsi di spinte opportunistiche di tipo micro-corporativo che depotenziano la visione solidaristica tradizionale delle organizzazioni sindacali in uno scenario di debolezza strutturale del nostro sistema economico per carenza di investimenti, capacità di innovazione e dimensionamento ridotto delle imprese con conseguenti distorsioni sul mercato del lavoro (bassi tassi di occupazione, alti livelli di lavoro irregolare, limitata formazione professionale), non possono realisticamente prevedersi interventi organici sulla materia di tipo legislativo. La plastica dimostrazione di ciò è data dalla sistematica caducazione di tutti i progetti di legge presentati nelle ultime due legislature (v. sub par. 2), in un contesto peraltro di progressivo deterioramento e quindi sempre più difficilmente aggredibile da una riforma di supporto della rappresentatività sindacale e della contrattazione collettiva, tanto più se non associata ad una compiuta revisione dell’art. 39 Cost.
Le soluzioni che mi sembrano realisticamente prospettabili sono pertanto sostanzialmente tre (qui riprodotte in termini essenziali e ingiustamente riduttivi, anche a causa del limitato spazio a disposizione): una che punta a identificare il contrato leader, di applicazione necessaria, con il contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative il cui ambito di applicazione sia “strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”, tramite una generalizzazione della portata degli artt. 30, c. 4, e 50, d.lgs. 50/2016 ed il riconoscimento della categoria “oggettiva”; l’altra che limita l’intervento legislativo ai soli settori c.d. “fragili”, identificati dalle parti sociali con l’ausilio delle istituzioni competenti (Ministero del lavoro / Ispettorato nazionale del lavoro / Cnel), dove i livelli retributivi risultino particolarmente bassi, con applicazione di un principio di estensione erga omnes dei minimi salariali stabiliti dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative; infine, una terza via che preveda un intervento legislativo solo sul versante della determinazione del salario minimo adeguato, che sia di valenza generale in quanto tarato sul minimum vitale dignitoso ma di applicazione di fatto circoscritta a quei settori o a quelle aziende che non applichino i minimali della contrattazione collettiva nazionale maggioritaria oppure che applichino minimali della contrattazione collettiva nazionale maggioritaria inferiori alla soglia di povertà lavorativa identificata per legge.
Tutte e tre le soluzioni sul tappeto sono largamente inappaganti perché non sciolgono i nodi dell’efficacia del contratto collettivo associata all’effettiva rappresentatività degli agenti negoziali e sono dunque del tutto parziali e limitate, ma hanno comunque il pregio di perseguire un obiettivo condiviso e di fornire un riscontro inderogabile alle istanze di tutela dei lavoratori in condizioni precarie. Fra le tre la mia preferenza cade senz’altro sull’ultima, poiché per la prima l’individuazione della “stretta connessione” ha dato luogo, ad esempio con riguardo alle cooperative sociali, ad un articolato contenzioso non ancora definitivamente composto; mentre la seconda implica un’ingerenza delle Istituzioni del lavoro nella scelta dei settori fragili e dei contratti di riferimento che pare eccessiva alla luce della libertà di autodeterminazione sindacale. La terza, invece, ha il pregio di non incidere sulla libertà sindacale, di mantenere il pluralismo sindacale, ma di poterlo censurare, ritenendo le previsioni della contrattazione collettiva applicabile nulle e/o illegittime laddove in contrasto con i paramenti di adeguatezza minima legale. La legge costituirebbe la rete di salvaguardia minima per tutti i settori e per l’intero mercato del lavoro italiano, mentre la contrattazione collettiva, all’interno dei rispettivi campi di applicazione definiti esclusivamente dalle parti sociali, costituirebbe la sede incrementale di tutele basata sullo stato di salute economica e sulla produttività di settore / azienda. Si garantirebbe così un supporto esterno, eteronomo, alla contrattazione collettiva, che tuttavia rimarrebbe l’autorità salariale per antonomasia del nostro ordinamento. La soluzione dovrebbe poi estendersi anche nell’ambito del lavoro autonomo, quanto meno di quello economicamente dipendente, come recentemente statuito per i lavoratori delle piattaforme digitali (v. art. 47-quater, c. 2, d.lgs. n. 81/2015)
Dunque, si tratterebbe di una soluzione minimalista, ma utile e concretamente fattibile, stante la necessaria presa in carico della direttiva UE da parte del nuovo Governo ai fini della sua trasposizione interna e la forte partecipazione dell’opinione pubblica rispetto al tema dei minimi inadeguati a causa della contrattazione collettiva c.d. selvaggia, delle inefficienze strutturali del nostro sistema economico e, da ultimo, anche della crisi energetica e geopolitica in atto. Preso atto che la complessità tecnica, politica e sindacale della questione inibisce di fatto un intervento sistematico sulla materia, ritengo che valga la pena intervenire quanto meno per tamponare l’emorragia, ridurre i gap retributivi e fornire una base di riferimento della retribuzione minima più decorosa e socialmente sostenibile.
Naturalmente nella determinazione legale si dovranno seguire percorsi non unilaterali o autoritativi, ma fondati sul dialogo e la collaborazione con le parti sociali che porti all’identificazione di criteri condivisi e solidali, in una visione di sistema che scongiuri il rischio di strappi particolaristici o opportunistici. In sostanza, di fronte all’insuperabilità delle resistenze politiche e sindacali ad operare un’incisiva riforma della rappresentatività e dell’efficacia generale dei contratti collettivi, non si deve, a nostro avviso, rispondere con la perpetuazione dell’immobilismo legislativo, ma almeno cercare di orientare l’azione sul terreno del maggiore bisogno rappresentato dai minimali retributivi, secondo la logica di buon senso del noto aforisma “piuttosto che niente è meglio piuttosto”.

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