Testo Integrale con note e bibliografia       Testo della Sentenza

Abstract:
Le sentenze del tribunale amministrativo regionale del Lazio, che nel maggio dello scorso anno hanno annullato le nomine dei direttori di alcuni musei di rilevante interesse nazionale, hanno generato vivaci polemiche mediatiche e politiche.
Il contributo affronta una delle questioni decise dal tribunale amministrativo laziale, quella del possesso della cittadinanza italiana per espletare le funzioni di direttore di museo di rilevante interesse nazionale.
L’autore, dopo aver delineato il quadro normativo di riferimento (nazionale e comunitario) in tema di cittadinanza per l’accesso all’impiego pubblico e la relativa evoluzione giurisprudenziale, ripercorre le varie fasi del contenzioso e auspica, infine, un intervento del legislatore.

 

SOMMARIO:

1) Premessa.
2) Normativa nazionale in materia di accesso al pubblico impiego e cittadinanza sino alla riforma del 1993.
3) Normativa europea in materia di accesso al pubblico impiego e cittadinanza. 4) Adeguamento della normativa italiana a quella europea.
5) Le pronunce del TAR Lazio.
6) Successive vicende: rimessione della questione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
7) Conclusioni.

 

 

 

 

 

1. Premessa
Il tribunale amministrativo regionale del Lazio, con due sentenze del maggio 2017 , ha annullato le nomine dei direttori di alcuni musei di rilevante interesse nazionale per vari motivi, tra i quali la cittadinanza non italiana di alcuni dei soggetti nominati.
Al deposito delle sentenze sono seguite vivaci polemiche mediatiche e politiche. Come è stato evidenziato , si è assistito alla messa in scena di un consueto copione all’italiana, caratterizzato da varie prese di posizioni non proprio pacate ed equilibrate: l’impossibilità in Italia di realizzare iniziative di riforma, in quanto puntualmente bloccate da resistenze conservatrici, che trovano sponda nei giudici (a seconda dei casi penali, contabili o amministrativi); la fortuna che siano rimasti i giudici a ristabilire la legalità continuamente messa in pericolo dall’improvvisazione, se non dalla prepotenza, dei politici; l’abolizione dei tribunali amministrativi regionali, proposta anche da ex capi di Governo; la presenza di decisori politici del tutto incompetenti, da porre sotto tutela giurisdizionale.
Col presente contributo si intende solo fare il punto in diritto su una delle questioni decise dal tribunale amministrativo laziale, quella della cittadinanza dei soggetti nominati, ritenendo opportuno delineare preliminarmente il quadro normativo di riferimento.

2. Normativa nazionale in materia di accesso al pubblico impiego e cittadinanza sino alla riforma del 1993
Il requisito del possesso della cittadinanza per accedere agli impieghi pubblici si affermò in Italia all’inizio del secolo scorso , in particolare col testo unico sugli impiegati civili dello Stato, approvato con R.D. 22 novembre 1908, n. 693. Come sottolineato da autorevole dottrina , il legame tra nazionalità e funzione pubblica divenne un rapporto esclusivo tra nazione e Stato, membro della collettività e titolare di funzioni di governo, cittadino e impiegato pubblico.
Tale impostazione venne ribadita nella Costituzione Repubblicana: per l’accesso alle funzioni pubbliche (indifferentemente se politiche o amministrative) è richiesto il requisito della cittadinanza. L’art. 51, co. 1 dispone, infatti, che tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. L’art. 54, co. 2 precisa che i cittadini cui siano affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.
A breve distanza di tempo dall’entrata in vigore della Costituzione viene approvato, con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, il Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, il cui art. 2 indica fra i requisiti generali per l’ammissione agli impieghi pubblici il possesso della cittadinanza italiana. Secondo il Consiglio di Stato la ratio della riserva doveva essere individuata non nell’esigenza di protezione del mercato interno, ma in quella di garantire che i fini pubblici, che nel cittadino si suppongono naturalmente compenetrati nei fini personali, fossero meglio perseguiti e tutelati.
Il requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego è rimasto a lungo un dato pacifico fino a quando, per effetto dell’integrazione europea, è stato parzialmente rivisto.

3) Normativa europea in materia di accesso al pubblico impiego e cittadinanza
La libera circolazione dei lavoratori rappresenta uno dei capisaldi della costruzione comunitaria , ma anche il Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità economica europea, espressamente escludeva dalla libera circolazione dei lavoratori “gli impieghi nella pubblica amministrazione” (art. 48, par. 4 TCE, ora art. 45, par. 4 TFUE). Tale limitazione, espressione della c.d. “riserva di sovranità”, era volta a salvaguardare alcune delle prerogative degli Stati membri.
L’ampiezza della formulazione esprime l’iniziale volontà del legislatore comunitario di sottrarre al principio della libera circolazione l’intero settore del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. A partire dal 1980 la Corte di Giustizia ha fornito un’interpretazione restrittiva della suddetta limitazione, affermando che l’inapplicabilità del principio di libera circolazione dei lavoratori per l’accesso agli impieghi nelle amministrazioni pubbliche riguarda soltanto quelle funzioni aventi ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o di altre collettività pubbliche, che presuppongono l’esistenza di un rapporto di particolare solidarietà nei confronti dello Stato medesimo, rinvenibile nel requisito della cittadinanza . La Corte ha successivamente precisato che la riserva di cittadinanza necessita della compresenza di due condizioni: l’impiego deve comportare l’esercizio, sia pure indiretto, di pubblici poteri e deve riguardare la tutela degli interessi generali dello Stato o di pubbliche collettività .
In sintesi, nella prospettiva europea non rileva l’aspetto soggettivo del datore di lavoro, quanto quello oggettivo relativo alla natura delle funzioni espletate.

4) Adeguamento della normativa italiana a quella europea
Il legislatore italiano, in occasione della riforma di privatizzazione dell’impiego pubblico (biennio 1992-93), ha recepito i citati orientamenti della giurisprudenza della Corte di Giustizia, cui avevano aderito anche le sezioni consultive del Consiglio di Stato .
L’art. 37, co. 1 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (ora art. 38 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) dispone che i cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale. Il co. 2 di tale articolo demanda a un regolamento governativo il compito di fissare i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana.
Il regolamento è stato adottato con D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, che agli articoli 1 e 2 individua i posti (dirigenti delle amministrazioni statali, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni, nonché delle regioni e della Banca d'Italia, magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, avvocati e procuratori dello Stato, ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell'interno, del Ministero di grazia e giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato) e le funzioni (funzioni che comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi e funzioni di controllo di legittimità e di merito), per i quali è inapplicabile il principio della libera circolazione dei lavoratori.
Le indicazioni dell’art. 37 del d.lgs. n. 29/93 e del D.P.C.M. citato sono state recepite nel regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi, emanato con D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, il cui art. 2, co. 1 dispone che il requisito della cittadinanza non è richiesto per i soggetti appartenenti all’Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. n. 174/94.
Ne consegue che i cittadini europei, sebbene entro i limiti indicati, sono in linea di principio equiparati ai cittadini italiani per quel che concerne l’accesso ai pubblici uffici .

5) Le pronunce del TAR Lazio
Il tribunale amministrativo capitolino ha ritenuto, in base all’art. 38 del d.lgs. n. 165/01 e al D.P.C.M. n. 174/94, non possibile la partecipazione di soggetti sprovvisti della cittadinanza italiana a procedure concorsuali indette da amministrazioni pubbliche per la copertura di posti di livello dirigenziale, come quello di direttore di musei di rilevante interesse nazionale.
Le sentenze sono state oggetto di consistenti critiche da parte della dottrina, soprattutto per la completa omissione dal percorso motivazionale di riferimenti alla disciplina europea in materia e alla relativa evoluzione giurisprudenziale, sinteticamente riportate nel paragrafo 3 .
In particolare, il Consiglio di Stato qualche anno addietro ha affrontato il caso della legittimità della nomina di un cittadino greco a presidente di un’autorità portuale italiana, utilizzando lo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia . Quest’ultima ha evidenziato che la normativa italiana attribuisce al presidente di autorità portuale anche funzioni implicanti l’esercizio di poteri d’imperio (come l’adozione di ordinanze a salvaguardia dei beni demaniali e della navigabilità del porto), ma esse costituiscono solo una parte marginale dell’attività, la quale presenta in generale carattere tecnico e di gestione economica . L’interpretazione fornita in sede pregiudiziale è stata pienamente accolta dal Consiglio di Stato , secondo il quale l'art. 51, co. 1 Cost. deve essere letto nel senso di consentire in via generale l'accesso dei cittadini degli Stati dell'Unione europea agli uffici pubblici, sulla base del principio della libera circolazione dei lavoratori, salvo gli eventuali limiti espressi, o legittimamente ricavabili dal sistema, con riguardo alla concreta partecipazione all'esercizio di pubblici poteri o, comunque, alle circostanze poste in rilievo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Le suddette pronunce della Corte di giustizia e del Consiglio di Stato non sono state prese in considerazione dal tribunale amministrativo laziale, che si è limitato alla fedele applicazione della normativa nazionale in materia.

6) Successive vicende: rimessione della questione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
A pochi mesi di distanza dalle citate pronunce è intervenuta una sentenza del Consiglio di Stato , relativa a una vicenda analoga (l’incarico di direttore del Parco archeologico del Colosseo), che è pervenuta alle seguenti conclusioni di tenore opposto a quelle del giudice di primo grado: 1) alla luce del primato del diritto europeo su quello nazionale, il D.P.C.M. n. 174/94 deve essere disapplicato, senza che sia necessario, per l’evidenza del contrasto col diritto europeo, disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia; 2) le funzioni attribuite al direttore del Parco archeologico non implicano spendita di pubblici poteri, trattandosi piuttosto di attività prevalentemente rivolte alla gestione economica e tecnica del Parco; 3) per l’esercizio delle funzioni di direttore del Parco archeologico del Colosseo non è richiesto il possesso della cittadinanza italiana. A supporto di tali conclusioni la pronuncia richiama il precedente relativo alla nomina di cittadino greco a presidente di un’autorità portuale .
Tuttavia, il medesimo Consiglio di Stato a inizio 2018 ha ribaltato tali conclusioni, ritenendo di non poter procedere alla disapplicazione del D.P.C.M. n. 174/94 per ragioni di ordine processuale, sostanziale e costituzionale .
Per quanto concerne le prime, la pronuncia rileva che il Ministero ha sostenuto la conformità della procedura svolta alle previsioni del D.P.C.M. n. 174/94, prospettandone la contrarietà al diritto europeo, con richiesta di disapplicazione, solo nel corso del giudizio di secondo grado . Ne consegue che, in assenza di uno specifico motivo di appello, potrebbe sussistere una preclusione di natura processuale alla disapplicazione delle citate disposizioni regolamentari. Come è stato evidenziato , tale preclusione è superabile, in quanto la piena applicazione del principio del primato del diritto europeo richiede non solo la disapplicazione della norma nazionale contraria alla norma dell’Unione direttamente efficace (c.d. disapplicazione primaria), ma anche di tutte le altre norme, in particolare di carattere processuale, che impediscono di porre rimedio a una situazione contrastante con il diritto dell’Unione (c.d. disapplicazione secondaria) .
Per le ragioni di ordine sostanziale, il Consiglio di Stato propone una lettura della giurisprudenza in materia della Corte di Giustizia (riportata nel paragrafo 3) incentrata sulla distinzione tra “i soggetti estranei all’apparato statale”, per i quali opera la deroga al principio di libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione solo se le rispettive attività d’imperio si rivelano prevalenti rispetto a quelle di gestione, e “i pubblici poteri” facenti parte degli apparati ministeriali statali, che rientrano nella predetta deroga senza necessità di ulteriori verifiche. Secondo tale lettura ricade nella prima ipotesi il presidente di un’autorità portuale, in quanto ente pubblico avente personalità giuridica diversa dallo Stato, che non fa parte degli apparti ministeriali; nella seconda ipotesi rientrano, invece, i dirigenti ministeriali, tra cui i direttori di musei di rilevante interesse nazionale, in quanto titolari di importanti funzioni autoritative, nonché referenti naturali ed esclusivi dell’organo politico per attuare il programma di governo e responsabili della salvaguardia degli interessi generali dello Stato nello specifico settore di amministrazione affidato.
La disapplicazione del D.P.C.M. n. 174/94 risulta, infine, preclusa dagli articoli 51 e 54 della Costituzione, che, nel riferirsi non al pubblico impiego complessivamente inteso, ma più limitatamente agli “uffici pubblici” e alle “funzioni pubbliche”, sono conformi ai principi del diritto europeo in materia, come declinati dalla Corte di Giustizia.
Il Consiglio di Stato, alla luce dell’evidente contrasto interpretativo tra le due sentenze (tra l’altro emesse dalla medesima sezione), ha ritenuto indispensabile il deferimento della questione all’Adunanza plenaria.

7) Conclusioni

All’Adunanza plenaria spetterà valutare la portata delle predette preclusioni ed esprimere una parola decisiva sulla natura delle funzioni di direttore di museo di rilevante interesse nazionale.
Una volta intervenuta la pronuncia dell’Adunanza plenaria, sarebbe necessario, ad avviso di chi scrive, che il legislatore, tenendo conto anche delle conclusioni della suddetta pronuncia, aggiorni la normativa in materia risalente al 1994, al fine conformarla alla disciplina europea nel frattempo sviluppatasi.

 

 

 

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