Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa.
Il diffondersi delle nuove tecnologie ha rivoluzionato gli ambienti di lavoro, influenzando non solo le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, ma anche le potenzialità del controllo datoriale e rendendo attuale il tema dei limiti che i controlli, pur se indispensabili al datore per la gestione del rapporto, devono incontrare a tutela dei diritti della persona del lavoratore, della sua dignità, libertà e riservatezza.
La ricerca del contemperamento del diritto dei dipendenti alla vita privata con quello dei datori alla difesa dei propri beni e della propria organizzazione aziendale, realizzata anche attraverso controlli cd. difensivi (giustificati da esigenze economiche e di gestione), risente certamente del peso crescente che assumono le esigenze dell’impresa e dell’economia; al tempo stesso, sul piano generale, cresce la spinta in tutti gli ordinamenti a tutelare maggiormente il valore della vita privata, dei dati personali e delle condotte che si ricollegano alle libertà fondamentali, di fronte ad una evoluzione della scienza delle informazioni che permea e rende controllabile, attraverso la raccolta e l’incrocio e la trasmissione di milione di dati, la vita degli individui (la posta elettronica, la messaggistica istantanea e, più in generale, l’utilizzo della rete come veicolo di informazioni di ogni tipo è mezzo e, al contempo, oggetto di agevole controllo).
La Grande Camera della Corte EDU, nel caso in esame, si occupa proprio di tale contemperamento, con la recente sentenza del 17 ottobre 2019, ultimo tassello della vicenda López Ribalda e altri c. Spagna, ripercorrendo ed evolvendo traguardi interpretativi già raggiunti nel noto caso Bărbulescu c. Romania appena due anni prima giungendo ad affermare, sia pure alla luce delle peculiarità del caso concreto e con il rispetto di determinate condizioni, la compatibilità dei controlli cd. difensivi con il catalogo dei diritti tutelati dalla Convenzione e, segnatamente, la proporzionalità della misura di controllo (nel caso di specie della videosorveglianza occulta) rispetto al fine di tutelare gli interessi organizzativo-patrimoniali del datore, in presenza del ragionevole sospetto di condotte furtive dei lavoratori.
Nel nostro ordinamento, come è noto, sulla scorta dell’art. 117 della Cost. come novellato dalla l. cost. n. 3/2001 e della giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenze cd. gemelle nn. 348 e 349 del 2007 , da ultimo ribadite dalla stessa Consulta con la sentenza n. 25 del 2019 ), le decisioni della Corte EDU interpretano “autenticamente” la Convenzione e, per tal via, costituiscono parametro interposto di legittimità della norma interna , assumendo rilievo per l’interprete allorché si prospetti la violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU medesima.
Se è vero che le decisioni della Corte e la Convenzione giammai possono essere interpretate come limitative o lesive dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per espressa previsione dell’art. 53 della CEDU medesima , ciononostante gli interpreti si interrogano, leggendo la sentenza in commento, su quali possano essere le ricadute interpretative nel diritto interno, tenendo conto del rilievo che assumono, per valutare le conseguenze delle valutazioni svolte dai giudici di Strasburgo, le specificità derivanti dal quadro normativo del paese di provenienza e considerando come potrebbero essere presenti in diverse realtà nazionali tutele differenziate e, sotto certi aspetti, già sufficientemente rispettose dei diritti dell’uomo tutelati dalla Convenzione .
Per esempio, il nostro ordinamento, ove in tema di controlli la norma fondamentale è costituita dall’art. 4 dello Stat. Lav., così come riscritto nel 2015 (v. infra), è dotato di una disciplina rispettosa della vita privata e della riservatezza dei lavoratori, non solo per il rinvio espresso al cd. codice della privacy (d. lgs. n. 196/2003) ma soprattutto perché, come si vedrà, condiziona l’utilizzabilità dei dati raccolti, a certe condizioni, alla previa “adeguata” informazione dei dipendenti; tale profilo (ancora non interpretato dalla Corte di Cassazione, allo stato) influisce fortemente sulla trasposizione degli assesti interpretativi della Corte EDU, tanto che l’interprete si può legittimamente domandare se possa proprio configurarsi, nel nostro ordinamento, un giudizio di bilanciamento analogo a quello formulato nel caso de quo dalla Corte EDU e con quali risultati.

2. Il caso López Ribalda e altri c. Spagna.
I fatti di causa risalgono al 2009, allorché il datore di lavoro (gestore di un supermercato della catena spagnola M.S.A.), registrate una serie di discrepanze tra i livelli delle scorte di magazzino e gli incassi di fine giornata, installava all’interno del negozio dispositivi di videosorveglianza, alcuni dei quali, ben visibili, presso i varchi di entrata/uscita per filmare eventuali furti dei clienti, altri, invece, nascosti anche al personale, in posizione utile al controllo del personale addetto alle operazioni di cassa.
Tali telecamere riprendevano cinque dipendenti intenti non solo a perpetrare furti individuali ma anche a collaborare tra di loro e/o con alcuni clienti alla sottrazione di vari prodotti. Così, identificate le lavoratrici responsabili, le stesse venivano licenziate per motivi disciplinari.
L’impugnativa proposta da tre delle cinque lavoratrici, preceduta da una transazione poi dalle stesse impugnata (perché, a loro dire, sottoscritta in stato di costrizione e minaccia) veniva respinta in entrambi i gradi di giudizio di merito dai giudici nazionali.
Stessa sorte toccava all’impugnativa delle altre due lavoratrici, che avevano contestato l’uso della videosorveglianza occulta asserendo che quest’ultima avrebbe consentito al datore di lavoro un’indebita e arbitraria invasione della loro privacy. In particolare i giudici spagnoli, sia in prima che in seconda istanza, rifacendosi a precedenti decisioni della Corte Costituzionale, escludevano l’illegittimità del licenziamento, ritenendo, il giudice di prime cure il controllo conforme all’art. 20 dell’Estatuto de los Trabajadores perché realizzato nel pieno rispetto della “dignità umana” dei lavoratori; il giudice di appello (l’Alta Corte di Giustizia della Catalogna), invece, pur riconoscendo la possibilità di irrogare una sanzione amministrativa nei confronti del datore di lavoro per omessa informazione dei lavoratori in ordine all’installazione delle telecamere, riteneva che, nel caso di specie, la videosorveglianza, ancorché occulta, fosse legittima perché giustificata (dai ragionevoli sospetti di furti), necessaria (per l’adeguata protezione agli interessi patrimoniali dell’azienda) e proporzionata (implicando il minor sacrificio possibile dei diritti dei dipendenti).
I successivi ricorsi in Cassazione venivano dichiarati irricevibili e quelli presentati alla Corte Costituzionale, per violazione degli artt. 18 e 24 della Costituciòn, erano giudicati inammissibili; pertanto, esauriti i gradi di giudizio in Spagna, i dipendenti ricorrevano alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

2.1. (segue) La posizione della Camera semplice.
I lavoratori-ricorrenti convenivano lo stato spagnolo dinnanzi alla Corte di Strasburgo, in sede di ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 CEDU, dolendosi, in particolare, della violazione degli artt. 8 e 6, § 1, CEDU .
Sotto il primo profilo, lamentavano la lesione del loro diritto alla riservatezza, previsto e tutelato dall’art. 8, ad opera della videosorveglianza predisposta dal loro datore di lavoro senza previamente informarli, cd. videosorveglianza occulta. Quanto alla dedotta violazione del diritto ad un equo processo e, precisamente dell’art. 6, § 1, invece, i ricorrenti evidenziavano che le sentenze dei giudici interni avevano fondato la legittimità del licenziamento sulle immagini registrate dalle videocamere nascoste e, pertanto, su prove ottenute illegalmente.
La sentenza della Corte europea, resa a maggioranza il 9 gennaio 2018, escludeva la violazione dell’art. 6, § 1 , ed accoglieva, invece, la prima delle prospettate censure aderendo, come già in precedenza, ad una nozione ampia di <> ai sensi dell’art. 8 della Convenzione.
La corte, in particolare, osservava come “il concetto di vita privata si estende agli aspetti relativi all'identità personale, come il nome o l'immagine di una persona […] può includere attività di natura professionale o imprenditoriale […] anche effettuate al di fuori della casa di una persona o di locali privati”. Da tale assunto derivava, per la corte , che “la videosorveglianza nascosta di un dipendente nel suo luogo di lavoro deve essere considerata, in quanto tale, una considerevole intrusione nella sua vita privata. Essa comporta una documentazione riproducibile della condotta di una persona sul suo posto di lavoro, che lui o lei, essendo obbligato a […] svolgere il lavoro in quel luogo, non può eludere”.
Così argomentando, la corte disattendeva le difese del governo spagnolo che, quanto alla violazione dell’art. 8, forte del fatto che le misure erano state predisposte da una società privata, rifuggiva qualsivoglia addebito di responsabilità asserendo che nessuna violazione degli obblighi di astensione poteva essergli addossata. Ed infatti, per i giudici di Strasburgo l’art. 8 doveva essere interpretato non solo come norma di protezione dell’individuo da interferenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche, ma anche come disposizione impositiva di obblighi di intervento a carico dello stato, tenuto pertanto ad adottare le misure atte ad assicurare il rispetto della privacy anche nei rapporti interprivati. Proprio queste ultime – riteneva la corte – erano state, nel caso di specie, disattese dal governo spagnolo dimostratosi incapace di garantire il “giusto equilibrio” tra il diritto dei lavoratori al rispetto della riservatezza e quello del datore alla tutela degli interessi aziendali nonché – in senso lato – della sua proprietà, non avendo il datore di lavoro rispettato l'obbligo (sancito dalla sezione 5 della legge spagnola sulla protezione dei dati personali) di informare gli interessati della predisposizione e dell’attivazione di un mezzo di raccolta e trattamento dei loro dati personali.
Ad avviso della corte, infine, la durata prolungata della videosorveglianza e le sue potenzialità di controllo generalizzato e indiscriminato dell’intero staff pregiudicavano, escludendola, la proporzionalità della misura atteso che gli interessi datoriali – di per sé legittimi – avrebbero potuto essere tutelati, almeno in parte, con mezzi differenti (per esempio, informando anticipatamente, anche se genericamente, i lavoratori).

2.2. (segue) La decisione della Grand Chamber.
La decisione del caso López Ribalda e altri c. Spagna, resa il 17 ottobre scorso dalla Grande Camera, in riforma del precedente della Camera semplice, sposa un’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione che, alla luce delle peculiarità del caso concreto, porta la corte a negarne, sostanzialmente, la violazione.
La Grand Chamber, ribadendo l’impostazione generale delle proprie precedenti pronunce in ordine alla diretta operatività all’interno del rapporto di lavoro di tutte le garanzie che la disciplina della privacy, in genere, detta per il trattamento dei dati personali, aderisce, ancora una volta, ad una concezione ampia di “vita privata” tale da ricomprendere molteplici aspetti dell'identità fisica e sociale della persona, ivi inclusi, in particolare, il nome, l'immagine e le attività lavorative con conseguente conferma dell’applicabilità anche a tale ultimo ambito dell’art. 8 CEDU.
Per quanto riguarda, in particolare, il controllo dei lavoratori sul luogo di lavoro, la Corte sottolinea che, indipendentemente dalla discrezionalità di cui dispongono i singoli Stati nella scelta dei mezzi più idonei alla salvaguardia dei diritti in questione, le autorità nazionali devono garantire che l'introduzione da parte di un datore di lavoro di misure di controllo che incidono sul diritto al rispetto della vita privata dei suoi dipendenti sia “proporzionata ed accompagnata da adeguate e sufficienti garanzie contro gli abusi” (avendo le stesse non solo obblighi negativi di astensione ma anche, e a fortiori, positivi doveri di intervento).
Quanto al vaglio di legittimità-proporzionalità della misura la Corte richiama la decisione del caso Bărbulescu c. Romania, ritenendo che i principi ivi sanciti (cfr. punti 121 e 122 della sentenza Bărbulescu) siano applicabili, con gli opportuni adattamenti, anche quando il controllo datoriale sia realizzato – come nel caso di specie – non già con l’accesso alla corrispondenza del lavoratore ma attraverso la predisposizione di sistemi di videosorveglianza. Pertanto, al fine di garantire la proporzionalità delle misure in questione, sarà necessario previamente appurare:
(i) che il dipendente sia stato informato della possibilità per il datore di adottare misure di videosorveglianza e dell'attuazione effettiva di tali misure;
(ii) quale sia l'estensione del controllo e il suo grado di invasione della privacy del dipendente;
(iii) che il datore di lavoro abbia motivazioni legittime, idonee a giustificare il monitoraggio nella sua portata;
(iv) se fosse stato possibile predisporre un sistema di controllo basato su metodi e misure meno invasivi;
(v) quali siano le conseguenze del monitoraggio per il dipendente ad esso soggetto e quale l'uso fatto dal datore di lavoro dei risultati del controllo stesso, in particolare che tale uso sia conforme allo scopo perseguito e dichiarato, e che sia necessario in relazione ad esso;
(vi) che al lavoratore siano state fornite garanzie idonee.
Sulla base di tali coordinate la corte, pur concordando con la pronuncia resa dalla Camera semplice quanto alla esclusione della violazione dell’art. 6, §1, CEDU (ribadita all’unanimità), esclude altresì – sia pure con tre voti contrari – la violazione dell’art. 8.
La Grande Camera giunge a tale conclusione sulla base di pregnanti osservazioni che valorizzano al massimo le peculiarità del caso concreto. Per i giudici di Strasburgo in particolare: il controllo non ha riguardato l'intero negozio, ma solo le aree prossime alle casse, dove era probabile fossero stati commessi i furti; inoltre le condotte filmate erano state tenute dalle lavoratrici in un luogo aperto al pubblico e a contatto costante con la clientela (sotto tale profilo, evidenzia la corte come occorra distinguere, nell'analisi della proporzionalità di una misura di videosorveglianza, i vari luoghi in cui è stato effettuato il monitoraggio alla luce del differente grado di tutela della privacy che il dipendente poteva ragionevolmente aspettarsi, “tale aspettativa” – asserisce la Corte – “è molto elevata in luoghi di natura privata, come servizi igienici o guardaroba, in cui una protezione accresciuta o persino un divieto assoluto di videosorveglianza sono giustificati. Rimane alta nelle aree di lavoro chiuse, come gli uffici. È manifestamente inferiore in luoghi che sono visibili o accessibili ai colleghi o, come nel caso di specie, al pubblico in generale”); infine le operazioni di videosorveglianza si sono prolungate per soli dieci giorni cessando immediatamente al momento dell’identificazione dei responsabili, così risultando contenuta l’estensione temporale della misura che non ha ecceduto quanto necessario all’esigenza di riscontrare la fondatezza dei sospetti di furto e di individuarne i colpevoli.
Alla stregua di tali rilievi il giudice europeo ritiene che l'intrusione nella sfera di riservatezza dei lavoratori-ricorrenti non abbia raggiunto, nel caso de quo, un “livello elevato di serietà” e che nessuna misura alternativa poteva essere efficacemente adottata atteso che “la fornitura di informazioni a qualsiasi membro del personale avrebbe potuto vanificare lo scopo della videosorveglianza, che era […] scoprire i responsabili dei furti, ma anche ottenere prove da utilizzare per i procedimenti disciplinari contro di loro”.
Con riferimento alla preliminare informazione dei dipendenti, pacificamente avvenuta in modo generico e parziale, la Grand Chamber chiarisce che la stessa rappresenta solo uno dei criteri (pertanto sintomatici e non tassativi) da considerare per vagliare la proporzionalità delle misure di controllo adottate dal datore di lavoro e che, nel caso di specie, la violazione da parte del datore del dovere di informazione preventiva, esplicita, precisa e inequivocabile di cui alla Sezione 5 della Legge spagnola sulla protezione dei dati personali non è in grado di inficiare la proporzionalità della misura essendo rispettati gli altri criteri.
Così, tenuto conto del concreto grado di invasione della riservatezza dei dipendenti e dei motivi legittimi che lo giustificano, la Grande Camera sancisce chiaramente la proporzionalità della misura e, di conseguenza, il rispetto dell’art. 8 CEDU. Segnatamente – afferma – “mentre, in generale, il minimo sospetto di appropriazione indebita o qualsiasi altro illecito da parte dei dipendenti non può giustificare l'installazione di dispositivi di videosorveglianza occulta da parte del datore di lavoro, l'esistenza del ragionevole sospetto che sia stato commesso un grave reato e l'entità dei danni accertati nel caso di specie pare rappresentare un’adeguata giustificazione. Ciò è tanto più vero in una situazione in cui il buon funzionamento di un’azienda è messo in pericolo non solo dal sospetto comportamento scorretto di un singolo dipendente, ma piuttosto dal sospetto di un'azione concertata da parte di più dipendenti, poiché ciò crea un'atmosfera generale di sfiducia nel luogo di lavoro. In tali circostanze, viste le significative garanzie fornite dal quadro giuridico spagnolo, compresi i rimedi che le ricorrenti non hanno utilizzato, e l’importanza delle ragioni che giustificano la videosorveglianza, come rilevato dai tribunali nazionali, la Corte conclude che le autorità nazionali non sono venute meno ai loro obblighi positivi ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione. Di conseguenza, non vi è stata violazione di tale disposizione” .

3. Il controllo datoriale nella giurisprudenza della Corte EDU prima del caso López Ribalda.
La vicenda López Ribalda e altri c. Spagna non rappresenta, invero, un caso isolato nella giurisprudenza della corte di Strasburgo. La Corte EDU, infatti, è stata chiamata più volte ad occuparsi dei diritti dei lavoratori e, segnatamente, dei rapporti tra la loro privacy e il potere di controllo datoriale.
Il problema della videosorveglianza occulta era stato, per esempio, già affrontato in occasione della decisone del caso Köpke c. Germania il 5 ottobre 2010 , tra l’altro richiamata dalla Grande Camera nella sentenza in commento. La misura era stata occultamente predisposta dal datore di lavoro all’interno di un supermercato, nei confronti, però, di due soli dipendenti e non indiscriminatamente nei confronti dell’intero personale. Tale – significativa – differenza rispetto alla vicenda López Ribalda, accompagnata dalla durata limitata nel tempo del controllo (due settimane), era stata valorizzata dalla corte al fine di giustificarne la predisposizione perché circoscritto e quindi poco invasivo della riservatezza dei lavoratori, ritenendosi che lo scopo legittimo di tutela degli interessi organizzativo-patrimoniali dell’azienda fosse stato in concreto perseguito assicurando il giusto equilibrio tra il diritto del richiedente alla tutela della sua vita privata e quello del datore alla protezione dell’impresa.
Sempre in materia di videosorveglianza, la sentenza Antović e Mirković c. Montenegro del 28 novembre 2017 si era occupata di due professori universitari che lamentavano la lesione del proprio diritto alla privacy ad opera dell’installazione, da parte dell’Università del Montenegro, di telecamere di sorveglianza nelle aule di lezione all’asserito fine di proteggere l’incolumità pubblica e il patrimonio dell’Università, misura ritenuta legittima dai giudici nazionali. La Corte EDU, in quel caso, dopo aver ribadito, interpretando l’art. 8 CEDU, che l’aspettativa di protezione della privacy del lavoratore esiste anche quando il luogo di lavoro sia pubblico (o aperto al pubblico), ne riscontrava la violazione nel caso concreto, poiché le dichiarate finalità protettive dell’incolumità delle persone e del patrimonio universitario – pur di per sé legittime – non assumevano rilevanza nel giudizio di bilanciamento, atteso che il datore di lavoro avrebbe potuto raggiungere i medesimi scopi utilizzando altri strumenti, meno invasivi ma ugualmente efficaci. Né poteva dirsi idoneo a bilanciare tale giudizio di sproporzione il fatto che l’attività di videosorveglianza – a differenza di quanto avvenuto nel caso López Ribalda – fosse stata pacificamente visibile e adeguatamente resa nota ai professori.
Ulteriore modalità di controllo è, poi, rappresentata dagli accertamenti realizzati dai datori attraverso l’esame degli strumenti informatici in dotazione ai lavoratori. Al riguardo si segnala la decisone del caso Bărbulescu c. Romania – cui si è già accennato – adottata dalla Grande Camera della Corte EDU in data 5 settembre 2017 . La vicenda era quella di un ingegnere, addetto alle vendite, che aveva utilizzato un account Yahoo Messenger, creato per rispondere alle richieste dei clienti, per scopi personali e, segnatamente, per intrattenere conversazioni – anche intime – con la fidanzata e il fratello. Anche in questo caso, come in quello Lopez Ribalda, la Grand Chamber perviene ad una soluzione opposta a quella della precedente Camera semplice del 12 gennaio 2016. Difatti mentre quest’ultima, valorizzando il divieto di uso delle risorse aziendali per scopi personali espressamente contenuto in un regolamento interno noto ai dipendenti, aveva ritenuto legittimo il monitoraggio effettuato dal datore di lavoro sulle comunicazioni elettroniche di un proprio lavoratore e, pertanto, valido il suo successivo licenziamento per violazione della politica aziendale; la Grande Camera, invece, ricondotte anche le conversazioni che si hanno sul posto di lavoro ai concetti di <> e <> di cui all’art. 8 CEDU, ha ritenuto di dover prioritariamente salvaguardare la riservatezza dei lavoratori anche in presenza di una specifica policy, ben nota ai dipendenti, recante l’espresso divieto di uso delle e-mail aziendali per fini personali. Indispensabile per la decisione del caso Bărbulescu, così come del caso López Ribalda, si rivela – ancora una volta – il giudizio di bilanciamento tra il diritto alla riservatezza dei dipendenti, da un lato, e gli interessi al controllo del datore, dall’altro, da compiere alla stregua dei parametri individuati nel decalogo di cui ai punti 121 e 122 della sentenza Bărbulescu e trasposti, mutatis mutandis, nella sentenza López Ribalda.

 

4. L’evoluzione della disciplina dei controlli “occulti” nel panorama normativo e giurisprudenziale italiano (cenni).
Il potere di sorveglianza del datore di lavoro, inteso non solo quale estensione del potere di direzione, ma anche quale mezzo di protezione dei beni e degli interessi aziendali, rappresenta una componente imprescindibile della gestione del rapporto lavorativo, che rinviene, tuttavia, limiti invalicabili nei diritti fondamentali della persona posti a tutela della sua dignità, libertà e riservatezza .
A presidio di tali valori, lo Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970) assoggettò i poteri di controllo del datore ad una vasta serie di tutele e garanzie, soprattutto con riguardo ai controlli occulti disciplinati dagli articoli 3 e 4 dello statuto e, sotto altro profilo, dall’art. 8 (che vieta al datore di lavoro di effettuare qualsiasi tipo di indagine, anche a mezzo terzi, “sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”).
In particolare, l’art. 4, norma interna sostanzialmente corrispondente a quelle esaminate (sia pure con riferimento all’ordinamento spagnolo) dalla sentenza in esame, consente al datore il controllo occulto dell’attività lavorativa dei suoi dipendenti attraverso dispositivi funzionanti a distanza solo ed esclusivamente con il rispetto di rigorose condizioni.
La norma, così come novellata dal d.lgs. n. 151/2015 (cd. Jobs Act) e dal d.lgs. n. 185/2016 (cd. correttivo al Jobs Act) , nel rimuovere il precedente divieto, da un lato esclude che gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e quelli “di registrazione degli accessi e delle presenze” rientrino tra gli strumenti di controllo per i quali è prescritta l’autorizzazione collettiva o amministrativa e, dall’altro, pur contemplando in astratto l’utilizzabilità delle informazioni raccolte attraverso gli strumenti suddetti “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, ne subordina il concreto utilizzo alla duplice condizione che “sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” e che gli strumenti siano utilizzati “nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196” .
Sul versante del diritto vivente , la giurisprudenza di legittimità, in considerazione delle peculiarità dei casi affrontati, talvolta ha vincolato i controlli cd. difensivi (richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza sul lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori) al rispetto delle garanzie procedurali dell'art. 4, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori, quando tali controlli riguardino l'esatto adempimento della prestazione lavorativa e non la tutela di beni estranei al rapporto di lavoro, escludendo “che l'insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore” (cfr. Corte di Cassazione, Sez. L, sent. n. 4375 del 23 febbraio 2010 ; nello stesso senso, Corte di Cassazione, Sez. L, sentenza n. 16622 del 1 ottobre 2012 e n. 19922 del 5 ottobre 2016).
In altre decisioni, invece, la suprema corte ha sottratto i controlli cd. difensivi all’applicazione delle garanzie procedurali citate, a condizione che gli stessi non si traducessero in una mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa, potendo quindi essere ammessi a tutela del patrimonio e dell’immagine aziendale atteso che “non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa” (cfr. Corte di Cassazione, Sez. L, sentenza n. 10636 del 2 maggio 2017, in tale occasione la corte ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore la cui condotta era stata accertata dal filmato di una telecamera installata nei locali dove si erano verificati furti in danno del patrimonio aziendale).
La giurisprudenza della corte suprema ha, infine, escluso che il controllo concernente il corretto impiego degli strumenti di lavoro (ex artt. 2086, 2087 e 2104 cod. civ.) possa essere ricondotto alla disciplina dei cd. controlli a distanza di cui all'art. 4 Stat. lav., riconoscendo al datore la possibilità di effettuare dei controlli mirati, purché rispettosi della libertà, dignità e riservatezza dei lavoratori, nonché, con specifico riferimento alla disciplina in materia di protezione dei dati personali contenuta nel d.lgs. n. 196/2003, dei principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza di cui all'art. 11, primo comma, del citato decreto (cfr. Corte di Cassazione, Sez. L, sentenza n. 22313 del 3 novembre 2016; nello stesso senso, Corte di Cassazione, Sez. L, sentenza n. 22662 del 8 novembre 2016).
Questi orientamenti devono, però, ancora confrontarsi con il nuovo testo dell’art. 4 dello Statuto, come riscritto nel 2015, avendo la novella incluso espressamente nel novero dei controlli di cui al primo comma (legati ad esigenze produttive, organizzative e di sicurezza sul lavoro, anche detti “preterintenzionali” poiché, pur non essendo diretti al monitoraggio della prestazione in sé, sono sovente idonei a rivelare inadempimenti dei lavoratori) anche quelli finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, assoggettando, pertanto, anche questi ultimi al rispetto delle garanzie previste dal citato dato normativo .
Altra importante novità – cui si è già accennato – non presente nella norma previgente e con la quale la giurisprudenza dovrà presto misurarsi (anche alla luce degli orientamenti dei giudici europei), è contenuta nel comma tre del cit. art. 4, ove si legge che le informazioni raccolte con i controlli a distanza (tanto quelli di cui al primo comma, quanto quelli sugli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e sugli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze) sono ora utilizzabili “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, ma solo “a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione in delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196”. Non sfugge ad alcuno, allora, come la nuova disposizione normativa, pur apparentemente ampliando l’area dei controlli di cui all’art. 4 rispetto al testo originario (già nella stessa formulazione letterale, prima in termini di divieto, ora in termini di possibilità), risulta condizionare fortemente l’impiego dei dati raccolti, in maniera sicuramente più rigorosa di quanto sia riscontrabile negli orientamenti del diritto vivente formatisi sulla base del vecchio testo normativo.
In assenza di pronunce di legittimità, i principi affermati dalla Corte Suprema di Cassazione (quanto alla legittimità dei controlli quando non relativi all’esatto adempimento delle obbligazioni di lavoro o dei meri controlli difensivi), sviluppati sul testo previgente dell’art. 4 cit., devono oggi essere riconsiderati e calati nel nuovo quadro normativo (che subordina l’utilizzabilità dei dati raccolti all’adeguata informazione dei lavoratori) mentre spetta alla giurisprudenza di merito stabilire quale possa essere l’influenza spiegata, sul giudizio di adeguatezza, dalla giurisprudenza di Strasburgo e dal rilievo assegnato al bilanciamento tra diritti dei lavoratori ed interessi organizzativo-patrimoniali dei datori.
Risulta, in altre parole, decisivo il significato da attribuire, per tracciare i contorni effettivi dei nuovi limiti, alla nozione di adeguatezza dell’informazione che il datore deve fornire al lavoratore per soddisfare la condizione normativa, poiché pare difficilmente neutralizzabile il dovere di informazione in sé considerato, anche alla luce di un bilanciamento che tenga conto al massimo degli interessi dell’azienda e della tutela del suo patrimonio.

 

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