Testo integrale con note e bibliografia

1. In passato individuare le categorie contrattuali in riferimento all’attività dell’impresa non ha mai presentato particolari difficoltà. Invece, ormai da molti anni, ne sono emerse molteplici, specie per effetto delle radicali modificazioni nel sistema economico, connotando come incerti i precedenti confini tra le differenti attività merceologiche e moltiplicando i settori e/o sotto settori delle categorie, in precedenza storicamente unitarie nella prassi delle relazioni industriali .
Come effetto del nuovo contesto economico vanno segnalati altri tasselli del più complessivo puzzle, rendendo più incerto il quadro di riferimento: la frammentazione della rappresentanza associativa in entrambi gli àmbiti, sia datoriale sia dei lavoratori, e il forte incremento del tasso di evasione contrattuale e della contrattazione collettiva pirata, fenomeni, quest’ultimi, che peraltro sono sempre stati geneticamente presenti in Italia .
Pur con diverse aporìe, nel complesso il sistema di relazioni industriali aveva funzionato per quasi un ventennio dopo l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della nozione di sindacato maggiormente rappresentativo (smr), art. 19 dello statuto dei lavoratori, nozione, questa, impiegata anche per individuare i perimetri contrattuali. Infatti, allora, nel sistema di relazioni industriali lo scenario sul fronte associativo dei lavoratori era stabile, con la presenza di poche e ben riconosciute organizzazioni confederali, quasi sempre coese tra loro nelle scelte strategiche, né si poneva all’epoca il problema di introdurre criteri selettivi per individuare le rappresentanze dei datori di lavoro, problema riconosciuto solo tardivamente dalle stesse parti sociali con il patto della fabbrica del 2018 .
Oltre che per i radicali mutamenti nel sistema economico, la descritta nozione di smr incomincia a entrare in crisi anche per effetto del sorgere di nuovi soggetti, i quadri aziendali, che costituiscono alcuni sindacati professionali, risultati effimeri negli anni successivi, e avviano l’inizio di un processo, a quel tempo solo accennato, ma in seguito divenuto irreversibile. Ed è quanto meno dal 1990, con un’importante sentenza della Corte costituzionale (sentenza n. 30), con cui si ufficializza la crisi della nozione di smr e si rivolge un autorevole, pressante invito al legislatore per modificare l’art. 19.

2. Anche al fine di trarre indicazioni per il futuro, nell’economia del lavoro si ritiene opportuno analizzare, seppur sinteticamente, la nozione di smr, specie in riferimento all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale prima e dopo il referendum del 1995, che ha ulteriormente aggravato la crisi di tale nozione piuttosto che risolverla.
2.1. Innanzi tutto, va ricordato il particolare ruolo della Corte costituzionale analizzabile sotto un duplice profilo: quale soggetto politico o pubblico potere e quale giudice, seppur molto peculiare, in virtù del suo compito di dar vita a una giurisprudenza finalizzata all’interpretazione della Costituzione e delle leggi. Perciò, la Corte può essere considerata un “organo bifronte” : con una faccia rivolta alla sfera politica e l’altra a quella giurisdizionale, proprio per sottolineare il particolare codice genetico del suo modus operandi.
Quanto al primo profilo, sull’art. 19, si è posto in luce il duplice ruolo della Consulta espletato in funzione sia conservativa della Costituzione formale, sia di legittimazione dell'ordinamento extracostituzionale e, quindi, della Costituzione materiale, sia di supplenza e/o stimolo di nuova legislazione .
Anche in riferimento al secondo aspetto, va sottolineata la particolare caratteristica della Corte, il cui ruolo fondamentale è stato di giudice di opportunità politica in funzione conservativa degli equilibri presenti nel sistema istituzionale, piuttosto che di legittimità . Il che comporta, quale primo effetto, che le sue sentenze non siano analizzabili solo attraverso un approccio giuridico, prescindendo da valutazioni più complessive attinenti al ruolo della Consulta nel sistema istituzionale.
A conferma di tale ipotesi, vi è un importante fattore di condizionamento nell'attività della Corte, tanto da spingerla ad assumere una funzione conservativa dell'assetto politico-istituzionale vigente : l’horror vacui. La preoccupazione della Consulta di creare «vuoti legislativi» e «lacune» ha decisamente influenzato il suo indirizzo giurisprudenziale. Proprio tale timore, esplicitamente citato anche nella sentenza n. 231/2013 , ha fatto sì che la Corte tenda ad autodelimitarsi nei propri compiti: perciò, è portata a conservare la legge piuttosto che a caducarla; a dichiararla incostituzionale solo in parte, piuttosto che a travolgerla tutta, utilizzando a tal fine particolari tecniche processuali (il frequente ricorso a sentenze interpretative, l’invalidazione parziale invece di quella totale…).
2.2. In un articolo di diversi anni fa, si era sottolineato come, in realtà, non si fosse dedicata alcuna attenzione al “problema dei problemi”, l’art. 19, la cui mancata riscrittura, da parte del Parlamento, era stata resa ancora più grave dopo il referendum del 1995 con effetti non ben calcolati dai suoi promotori “iconoclasti” . E le contraddizioni e i limiti dell’art. 19, enfatizzate proprio dal referendum, sono state in minima parte colmate dall’intervento della Corte costituzionale nel 2013, a fronte della perdurante inerzia del Parlamento, anche perché una legge sulla rappresentatività è stata ritenuta inutile nell’ultimo ventennio da una parte prevalentemente maggioritaria dello schieramento politico (centrodestra) , ma in sostanza anche dall’opposto fronte politico.
Nell’economia del lavoro si analizzano solo alcuni profili della giurisprudenza costituzionale: la qualificazione della natura giuridica della disposizione statutaria e gli inviti al Parlamento a legiferare.
In merito alla prima questione, va ricordato il capovolgimento sulla natura giuridica dell’art. 19, prima ritenuta definitoria (sent. 54/1974), sedici anni dopo permissiva (sent. 30/1990), passando anche attraverso la tesi della pluricategorialità e interprofessionalità delle confederazioni maggiormente rappresentative per respingere i possibili pericoli del sindacalismo dei quadri aziendali (sent. 334/1988).
Con il mutato orientamento del 1990 si è mantenuta l’opposizione della Corte a una rappresentatività a misura aziendale con un duplice effetto deterrente: si è evitato, da un lato, di favorire organizzazioni sindacali di dubbia serietà, nate al precipuo scopo di fruire delle agevolazioni (Titolo III st. lav.); da un altro, di attribuire un potere di accreditamento in capo al datore di lavoro, favorendo i sindacati a lui più graditi. Nel complesso, la Consulta è intervenuta in funzione sia conservativa della Costituzione formale, sia di legittimazione dell'ordinamento extra costituzionale e, dunque, della Costituzione materiale.
Nello stesso alveo (legittimare la Costituzione materiale) vanno ricondotti alcuni interventi subito prima e subito dopo il referendum del 1995.
Prima: a fronte dell’inerzia del legislatore, la Corte ha espresso il giudizio favorevole sull'ammissibilità dei quesiti proposti, forse sulla base del principio "a ciascuno il suo", posto che nel sistema istituzionale non si sarebbe potuta sostituire al potere legislativo; né, pur svolgendo scelte di opportunità politica in funzione conservativa del sistema, avrebbe potuto abdicare a esercitare il suo ruolo, coprendo a tempo indeterminato carenze di altri organi (sent. n. 1/1994).
Poi in una successiva decisione (sent. n. 89/1995), non incentrata sull’art. 19 ed emanata alla vigilia del referendum, il livello di rappresentatività nazionale è stato ritenuto un criterio di selezione coerente con il sistema costituzionale di libertà sindacale anche per accedere agli strumenti previsti dal nostro ordinamento a tutela dell’attività sindacale, auspicando che, in futuro, il legislatore avrebbe potuto prevedere strumenti di verifica in merito all’effettiva rappresentatività .
Dopo: all’indomani del referendum, in un obiter dictum di una seconda decisione (sent. n. 492/1995), estranea all’art. 19, si è affermato come il principio di smr restasse “un parametro giuridicamente rilevante anche per quelle norme che [rinviavano] alla nozione contenuta nell'art. 19 dello statuto dei lavoratori» . Tuttavia, tale principio non rappresenta “più un criterio selettivo a carattere assiologico, bensì tautologico” e la partecipazione a una vertenza contrattuale aziendale può attribuire una qualifica di effettività, insufficiente però a determinare la natura rappresentativa del sindacato, «a meno di intendere quest’ultima come una condizione diffusa, tanto diffusa da non caratterizzare più nulla» .
In altri termini, la norma di “risulta”, se valorizza l’attività contrattuale come indice di effettività, presenta l’indubbio difetto di “lasciare nell’ombra l’eventuale dissenso tra sindacati ugualmente rappresentativi” .
Nella prima pronuncia sul “nuovo” art. 19 (sent. n. 244/1996), la Corte ha operato un ribaltamento rispetto al suo precedente (sent. n. 30/1990), pur senza dichiararlo, e ha ripreso la tesi della prima decisione (sent. n. 54/1974). A suo avviso, infatti, il riconoscimento da parte del datore di lavoro si sarebbe avuto, «ove il datore di lavoro, nullo iure cogente, [avesse concesso] pattiziamente una o più agevolazioni previste dal Titolo III alla rappresentanza aziendale di un’associazione sindacale priva dei requisiti per averne diritto; mentre - dopo il referendum del 1995 - questa [era] una qualità giuridica, attribuita dalla legge» ai sindacati stipulanti contratti collettivi (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva.
La descritta motivazione era molto discutibile nel merito, in quanto l'indice previsto avrebbe potuto ottenere effetti molto opinabili, favorendo sindacati non rappresentativi sul piano delle relazioni industriali, o, soprattutto, graditi al datore di lavoro e viceversa. Anche perché, se il problema della Corte era costituito dall'horror vacui e dall'assenza di regole per la fruizione dei diritti sindacali, sul piano delle tecniche decisionali allora sarebbe stata percorribile un'altra possibile strada: la sentenza di rigetto con dichiarazione di incostituzionalità .
L'adesione del datore di lavoro, quale indispensabile soggetto negoziale, alla contrattazione collettiva ha alterato il tradizionale modello statutario, basato sulla valorizzazione dei sindacati nei luoghi di lavoro come punto di forza per l'estensione dei contratti collettivi di lavoro. Dopo la modifica referendaria, il Titolo III della L. 300/1970 si è trasformato in una legislazione servente al sistema contrattuale, che ha operato nei limiti dell'applicazione volontaria di quello.
Sotto il profilo costituzionale, si è riaperta la falla dell'art. 39 Cost. ed è riemerso il problema dell'effettività dei contratti collettivi, ossia della loro applicazione generalizzata anche in assenza di una legge erga omnes .
Per legittimare l'ordinamento extra costituzionale e la Costituzione materiale, il passo immediatamente successivo della Consulta è stato quello di riempire di ulteriori requisiti la disposizione statutaria in merito ai firmatari (l’insufficienza della mera adesione formale a un contratto senza la partecipazione alle trattative), al contenuto (necessariamente normativo) e alla tipologia negoziale (solo il livello nazionale, locale e aziendale).
Quanto a quest’ultimo profilo, nel nostro ordinamento non esiste una definizione legale di contratto collettivo; di conseguenza, il suo genus è assolutamente indifferenziato, con il logico corollario che non è permesso «operare distinzioni né per soggetto né per contenuti [ed è il caso di specie] né per identità di destinatari» .
Prima che sul problema della legittimità costituzionale dell’art. 19 post referendum calasse l’oblio per diversi anni, in un breve arco temporale sono intervenute tre decisioni (sent. n. 345/1996 e ordd. nn. 148/1997 e 76/1998): nel complesso, la Consulta ha rigettato le questioni e, anche attraverso l’impiego della tecnica processuale impiegata (ordinanza), ha mostrato di non voler modificare il suo orientamento.
Il vulnus nei confronti della Costituzione, però, era già evidente allora; infatti, i contenuti del principio di libertà sindacale includono sicuramente anche l'attività contrattuale, che ha «per oggetto i comportamenti strumentali al conseguimento di accordi» . Perciò, l'analisi costi-benefici non si sarebbe dovuta limitare alla convenienza se stipulare o no il contratto a quelle condizioni, poiché il sindacato, dopo la modifica referendaria, sarebbe stato tenuto a effettuare una valutazione più ampia, comprensiva dell'opportunità di fruire o no dei diritti sanciti dal Titolo III, che avrebbero potuto influire - favorendolo - sul futuro dello stesso processo negoziale. In altri termini, nella Costituzione è sancito il principio di libertà sindacale a favore di sindacati “genuini”, i quali sono tali in virtù della loro effettività, valutata sulla base del consenso dei lavoratori e non di quello ottenuto dalla controparte imprenditoriale.
Rispetto alla crisi della nozione di smr e agli interventi spesso permissivi della giurisprudenza, che ne hanno reso ancora più problematico l’impiego, e al “silenzio assordante” del legislatore, il ruolo della Corte è stato sviluppato lungo alcune direttrici: innanzi tutto, la difesa, la più strenua possibile, sia del "vecchio", sia del "nuovo" testo dell'art. 19, per i quali il minimo comun denominatore è rappresentato dall’incertezza applicativa.
Oltre a essere discutibili sul piano della legittimità costituzionale, la difesa conservativa della norma ha contribuito a determinare come conseguenza, seppure indiretta, un certo ritardo della riforma legislativa. Senza ricordare i rischi del nuovo art. 19, dopo il 1995, si è alterato l'effetto di razionalizzazione della struttura contrattuale, con il pericolo di cristallizzare gli equilibri preesistenti.
Che questo rischio non sia puramente teorico è stato confermato anche dal fatto che, prima del referendum, la tutela organizzativa (costituzione delle rsa e fruizione dei diritti del Titolo III) è stata posta al riparo dal conflitto, mentre dopo il 1995 è diventata oggetto dello stesso conflitto. Infatti, venuta meno la definizione legale dei requisiti per l'accesso alla fruizione dei privilegi statutari , si è stati in presenza di un'individuazione, volta per volta, di chi potesse fruire dei diritti sindacali privilegiati, fissati dalla L. 300/1970, rimettendo tale individuazione al pendolo, spesso fin troppo oscillante, del sistema di relazioni industriali. Il che ha comportato, tra l'altro, che il datore di lavoro sia stato titolare non solo di un sostanziale potere di accreditamento della controparte con cui negoziare, ma anche di promozione del suo consolidamento organizzativo, con effetti distorsivi nelle relazioni industriali.
Sul piano dell'eguaglianza il “nuovo” testo dell’art. 19 ha comportato rischi, prevedendo parità di diritti tra le diverse rsa, senza tener conto della loro effettiva rappresentatività: questa è stata una soluzione incongrua , perché nei sistemi aziendali di relazioni industriali si sono posti allo stesso livello organizzazioni con rilevanza ben diversificata. Anche perché, così come si è poi verificato, questo avrebbe potuto comportare che un sindacato, pur rappresentativo sul piano dell’effettività, potesse perdere la facoltà sia di costituire una rsa, sia di fruire dei diritti fissati dal Titolo III, solo se avesse rifiutato di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo .
Dopo oltre un quarantennio dall’emanazione dello statuto e a quasi vent’anni dal referendum sull’art. 19, la Consulta ha operato un ribaltamento nel suo orientamento, minimizzandone la portata sul piano della tecnica argomentativa. Peraltro, la via dell’incidente di incostituzionalità è stata sostanzialmente “obbligata” per sbloccare un “contenzioso giudiziario alimentato dalla sottostante conflittualità, non solo tra sindacato e azienda ma anche tra sindacati” .
Quasi con un’autentica piroetta, sostenuta prima la tesi definitoria (sent. n. 54/1974), poi quella permissiva (sent. n. 30/1990), con un’altra inversione di rotta di centottanta gradi, nella sent. n. 231/2013 la Corte è tornata sui suoi passi . Attraverso una decisione additiva di principio, ha affermato di nuovo la tesi definitoria, la più rispettosa del dettato costituzionale .
Con tale sentenza, però, non si sono risolti i problemi dell’obsolescenza dell’art. 19, aggravata dal referendum manipolatorio e, soprattutto, dalla persistente inerzia del Parlamento.
Ai fini della legittimità costituzionale dell’art. 19 e della relativa fruizione del Titolo III da parte dei sindacati, con la descritta decisione, stipulare un contratto collettivo non rappresenta più un requisito essenziale, proprio perché così si negherebbe una rappresentatività esistente; perciò, è sufficiente il criterio della partecipazione alle trattative negoziali.
In merito al caso concreto, all’origine del vaglio di costituzionalità, il criterio sarebbe stato inutile perché un sindacato sicuramente rappresentativo sul piano dell’effettività (Fiom), non solo non ha sottoscritto nessun contratto, ma non è stato nemmeno ammesso alle trattative proprio a causa dei contenuti del sistema contrattuale Fiat. Ecco perché giuridicamente è irrilevante introdurre il descritto criterio surrogatorio (la partecipazione negoziale invece della sottoscrizione di un accordo contrattuale), mentre si configura più appagante la scelta aziendale emersa nel sistema di relazioni industriali (“accettare” la nomina dei rappresentanti della Fiom nelle unità produttive dell’impresa) .
2.3. Al fine di influenzare la formazione dell'indirizzo politico e di esercitare in qualche misura un ruolo "paralegislativo", la Corte ha rivolto un invito, seppur con intensità diversificata nel corso degli anni, nei confronti del Parlamento per riregolare la rappresentatività. La discrezionalità del legislatore, ovviamente, si configura in modo diverso rispetto alla libertà, in quanto il suo esercizio può essere sempre soggetto al controllo dei giudici costituzionali, legittimati a verificare la razionalità e la ragionevolezza del suo esercizio .
L’esempio cronologicamente più datato è rappresentato dalla sent. 30/1990, in cui il richiamo, rivolto al legislatore a favore di un suo intervento con una specifica indicazione (accertare la rappresentatività dei soggetti legittimati sulla base di regole, ispirate a valorizzare l'effettivo consenso come metro di democrazia) è riconducibile alla linea di politica del diritto perseguita dalla Consulta: una giurisprudenza di opportunità e non di legittimità, in funzione conservativa degli equilibri raggiunti nel sistema politico-istituzionale.
Tuttavia, la sollecitazione a una nuova regolazione legislativa ha costituito anche l'indice di una spia: l'estrema difficoltà nel continuare ad avallare l'art. 19 sul piano della sua costituzionalità. Solo così si può comprendere, infatti, il ricorso ad argomentazioni, talora molto opinabili, di quella decisione.
La scelta dell’organo costituzionale è stata dunque duplice: da un lato, “prendere” tempo in attesa di un intervento esterno; da un altro, rafforzare un “edificio” ormai sempre più pericolante.
Non esplicito, ma implicito, è stato l’invito al Parlamento a individuare criteri selettivi sulla rappresentatività nella prima decisione successiva al referendum del 1995 (sent. n. 244/1996) con un forte richiamo a una concezione diffusa di rappresentatività intesa come effettività dell’azione di tutela.
Tuttavia, anche con funzione di supplenza, i continui "inviti" (impliciti ed espliciti) al Parlamento hanno rappresentato una costante linea rossa contenuta nelle decisioni a ridosso del referendum (sentt. nn. 1/1994, 89/1995 e 244/1996).
La prolungata inerzia del legislatore è stata produttiva di ulteriori effetti di anomìa nel sistema, in quanto dopo il referendum, anche a causa dei limiti genetici di tale strumento, è stata posta in discussione la funzione promozionale dello statuto dei lavoratori. Infatti, ormai, la legislazione di sostegno «non sostiene più nessuno, o, al massimo, sostiene chi si è già messo in piedi» e, al contrario dell'originaria impostazione statutaria, ora si attribuisce alla stessa contrattazione l'effetto legale del rafforzamento organizzativo.
Secondo una logica oscillante nel tempo, pur cambiando la scelta tipologica della decisione (da due sentenze interpretative di rigetto a una additiva di principio), come in passato, la Consulta non si esime dal rivolgere un invito al Parlamento, proprio alla fine della sentenza 231/2013, nella quale vanno distinte due parti, formulate anche in modo contraddittorio.
Nella prima, sicuramente condivisibile, è la stessa Corte a sottolineare come non abbia inteso, né peraltro avrebbe potuto farlo, affrontare il problema della mancata attuazione complessiva dell’art. 39 Cost., né individuare “un criterio selettivo della rappresentatività sindacale”.
È sulla seconda parte della decisione, che, invece, sorgono molte perplessità. Infatti, rispetto alla decisione n. 30/1990, questa volta la Corte non si astiene dall’avanzare proposte di merito, forse perché l’esigenza di riregolare la rappresentatività sindacale è diventata sempre più urgente non solo per l’inerzia del legislatore, ma anche per il rinnovato attivismo delle parti sociali (stipulazione di alcuni accordi nazionali) e i limiti tipici di una soluzione solo contrattuale ai fini di un’efficacia generalizzata della relativa disciplina.
In alcune proposte si cerca di fornire in positivo possibili indicazioni al Parlamento per la futura normativa (indice di rappresentatività correlato al numero degli iscritti; diritto di ciascun lavoratore di eleggere le rsa); per altre, invece, emergono dubbi di legittimità costituzionale (obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali in possesso di una determinata soglia di sbarramento).
L’impressione complessiva è che si sia in presenza di un intervento inappropriato nella parte prescrittiva della decisione. Infatti, sembra quasi che le indicazioni della stessa Corte siano da preferire rispetto ad altre scelte, che pur potrebbero essere adottate dal Parlamento nel pieno esercizio della sua autonomia, forse perché le prime presenterebbero l’indubbio vantaggio di essere “immuni” da possibili vizi di costituzionalità in virtù dell’indubbia autorevolezza del “suggeritore”.
In definitiva, ancora una volta, la Consulta rivolge un invito a un legislatore, che ha “abdicato” al suo ruolo (né pare intenzionato a esercitarlo) in favore di una giurisprudenza che, usando (e, talvolta, “abusando” di) interpretazioni “logiche” e “teleologiche” in aperto contrasto con il dato letterale, dà libero sfogo alla sua ambizione nomopoietica.
Infine, va anche sottolineata la tecnica processuale seguita nella sentenza n. 231/2013: il ricorso alla sentenza additiva di principio. Questa tipologia di decisione, al pari delle sentenze interpretative di rigetto con dichiarazione di incostituzionalità, consente di limitare in parte gli effetti rispetto a una “secca” declaratoria di incostituzionalità, che avrebbe potuto dar luogo a una situazione peggiore rispetto a quella a cui si intenderebbe porre rimedio, limitando i danni dell’horror vacui. Infatti, l’eliminazione di qualsiasi criterio selettivo per individuare le organizzazioni sindacali legittimate a costituire una rsa avrebbe determinato il risultato più dirompente possibile nelle relazioni industriali, consentendo a qualsivoglia sindacato, anche a quello caratterizzato dal minor consenso possibile, di fruire del Titolo III st. lav.

3. Per superare la crisi della nozione di smr e dare “certezze” al sistema di contrattazione collettiva, il legislatore è intervenuto con alcuni provvedimenti, pur importanti ma solo settoriali, mai con una riforma organica.
Con una prima disposizione , la più importante se non altro per l’innovativa formulazione del criterio (quanto meno per l’epoca), si è consentito all’Inps di individuare le basi retributive contrattuali, ai fini del pagamento dei contributi sociali, stabilendo che la retribuzione base per il calcolo di tali contributi fosse quella fissata dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori comparativamente più rappresentative della categoria.
A distanza di molti anni (ben diciassette!), la nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo è rafforzata da un’altra disposizione legislativa , per effetto della quale, dal 1 luglio 2007, i benefici normativi e contributivi previsti dalla legislazione sociale sono subordinati al possesso, in capo ai datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, fermi restando l’adempimento degli altri obblighi di legge e il rispetto dei contratti collettivi (nazionali, territoriali e aziendali), stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Il criterio selettivo indicato è stato implementato con altre disposizioni amministrative, sulla cui efficacia erga omnes sorgono dubbi .
La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo è anche alla base di un ulteriore intervento legislativo, relativo ai lavoratori soci di cooperativa, secondo cui - in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria - per il trattamento economico complessivo si applicano i contratti collettivi stipulati dalle associazioni, che si richiamino alla descritta nozione . In ogni caso, seppur riferito al caso di specie, la Corte costituzionale ha interpretato la citata disposizione in sintonia con l’art. 36 Cost. e «il discutibile riferimento [al criterio] non trasforma il modello» .
In altra fonte normativa è contenuta un’indicazione generale sul sindacato comparativamente più rappresentativo, là dove si afferma che, nell’indicare i contratti collettivi (nazionali, territoriali) richiamati da uno specifico decreto legislativo, si debbano intendere quelli stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché i contratti aziendali, purché stipulati dalle rsa ovvero dalle rsu .
Sempre a proposito di soluzioni legislative, va ricordato che, in una legge di alcuni anni or sono, la precedente nozione è stata, da un lato, confermata e, da un altro, in parte integrata, introducendo il criterio della categoria oggettiva , che per certi profili richiama l’art. 2070 c.c.
Alla luce della nuova disposizione, al personale impiegato in lavori, servizi e forniture, oggetto di appalti pubblici e concessioni, va applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui campo di applicazione sia “strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente” .
Il criterio del sindacato comparativamente più rappresentativo in questo caso è integrato da quello della categoria oggettiva, smentendo la tesi dell’esclusiva competenza autonoma della contrattazione collettiva nel determinare la categoria negoziale e quest’ultimo criterio è stato tenuto presente in parte anche nell’AI del 2018 , senza ulteriori sviluppi sul piano sia legislativo sia delle relazioni industriali.
Peraltro, in presenza di più contratti esistenti nella stessa categoria, il descritto criterio è solo ed esclusivamente funzionale a individuare quello sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano effettuale. Comunque non è stato risolutivo per definire sia i sindacati rappresentativi, sia i perimetri dei contratti collettivi, in quanto sono emersi nella giurisprudenza ordinaria e amministrativa orientamenti contradditori tra loro .
Il motivo principale dell’inadeguatezza del citato criterio è individuabile nella sostanziale genericità della sua formulazione, al pari di quella del smr, anche perché sul piano applicativo molti dei dati per individuare un sindacato comparativamente più rappresentativo non si basano tanto su elementi oggettivi quanto soggettivi, forniti dalle stesse organizzazioni sindacali, che anche attraverso tali dati (p.es., numero degli iscritti…) mirano a ottenere tale qualificazione.

4. La descritta incertezza incide anche sul tema nodale della rappresentatività sindacale, determinando una difficile governabilità del sistema di relazioni industriali, nonostante i plurimi tentativi delle parti sociali di risolvere pattiziamente il tema della rappresentatività (infra), tentativi, resi vani dall’impossibilità di estendere erga omnes il contenuto delle citate intese.
Né del problema di definire la rappresentatività sindacale e i perimetri contrattuali si può far carico la giurisprudenza, impossibilitata a dirimere controversie giurisdizionali e conflitti collettivi tra le molteplici parti sociali in funzione surrogatoria per il mancato intervento legislativo. Infatti, un ostacolo rilevante, anche se non insormontabile, è rappresentato dalla parte seconda dell’art. 39 Cost., con cui si prevede - tra l’altro - l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali.
4.1. Nell’economia del lavoro è opportuno analizzare, a partire dal 2009, i molteplici accordi, finora infruttuosi per i limiti insiti nella soluzione negoziale proprio in virtù del più volte citato art. 39 Cost., stipulati dalle parti sociali in merito alla definizione della rappresentatività sindacale, nonché - tra l’altro - dei perimetri contrattuali.
In sintesi, vanno esaminati brevemente solo alcuni punti dell’Accordo Interconfederale (AI) del 2018 alla luce del precedente Testo Unico (TU) sulla rappresentanza del 2014.
Uno degli elementi centrali dell’AI del 2018 riguarda la verifica della rappresentatività sindacale e la sua certificazione . Per la prima volta la Confindustria ha accettato di sottoporsi a una misurazione, impegno, questo, già anticipato in àmbito datoriale in un precedente AI del commercio, seppur come mera dichiarazione unilaterale della stessa associazione stipulante con caratteristiche, però, meno definite rispetto al contenuto dell’AI del 2018 .
Una novità, già contenuta nel precedente AI del 2011 , ha riguardato il metodo della certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale , con la previsione di una soglia minima necessaria per l’ammissione ai tavoli negoziali .
Si è così assistito a un cambio di rotta rispetto al passato, in quanto nel settore privato la misurazione della rappresentatività ha fatto venir meno il criterio presunto, basato sul reciproco riconoscimento delle parti sociali, sostituito ora da quello della rappresentatività misurata.
Su questa strada si è posto il TU del 2014 , che ha definito un sistema di regole, per superare gli accordi separati del 2009 . In sostanziale linea di continuità con l’AI del 2011, pur incorporando al suo interno il Protocollo d’Intesa sulla rappresentanza del 2013 , ha introdotto un’innovazione per riportare il sistema delle relazioni industriali sul binario della collaborazione e dell’unita`.
Nel dettaglio, il TU ha previsto il raggiungimento di una soglia minima per individuare i soggetti legittimati a negoziare a livello nazionale e aziendale (5%) ; poi i sindacati cui afferiscono le rappresentanze ex art. 19 Statuto, con l’attribuzione dei diritti, di cui al Titolo III; infine, la maggioranza necessaria (50%+1) per sottoscrivere il contratto collettivo .
Tuttavia, nell’intesa in esame, sono emersi limiti in merito sia al suo a`mbito di applicazione , sia alle regole di rappresentatività sindacale (applicate solo a determinati settori del sistema economico, escludendo importanti protagonisti del sistema sindacale), sia alla misura delle rappresentatività (solo quella dei rappresentanti dei lavoratori).
Proprio su questa lacuna si è inserito l’AI del 2018 che, pur in sostanziale linea di continuità ma solo per alcuni profili con le precedenti intese , introduce una disposizione innovativa con la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni datoriali.
La descritta disposizione è dovuta soprattutto all’estensione del fenomeno del dumping contrattuale , che può assumere differenti forme: dal dumping prevalentemente salariale (contratti pirata) con la proliferazione di numerosi contratti collettivi, stipulati da soggetti privi di ogni rappresentanza certificata per alterare in negativo la concorrenza e ridurre la retribuzione dei lavoratori e la loro tutela nella disciplina normativa, al cd. “shopping contrattuale”, caratterizzato dalla scelta dell’imprenditore di aderire all’associazione datoriale solo in virtù della selezione del contratto collettivo nazionale meno oneroso, spesso prescindendo dall’attività merceologica concretamente esercitata .
Proprio per arginare il fenomeno, anche alla luce dell’impossibilità di contenerlo attraverso la giurisprudenza, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno previsto una certificazione della rappresentanza datoriale, per garantire una contrattazione con efficacia ed esigibilità generalizzata, conforme ai princìpi di libertà di associazione e di pluralismo sindacale , confidando in una futura condivisione da parte delle altre organizzazioni datoriali.
Partendo dal/la presupposto/necessità di coinvolgere queste ultime, pena l’inutilità della nuova disciplina, i contraenti hanno ritenuto necessario porre e porsi vicendevolmente limiti e regole, definibili quali disposizioni di carattere solo generale e non di dettaglio proprio in virtù dell’eterogeneità delle fattispecie da regolare, e consentire alle differenti associazioni datoriali di svolgere un ruolo at tivo .
Si è prefigurato un duplice intervento: l’uno amministrativo con il coinvolgimento del CNEL; l’altro eventuale e disciplinato in modo forse volutamente non chiaro, di rinvio a un successivo intervento del Parlamento.
Per effetto dell’AI il CNEL svolge compiti strategici con un’attività suddivisa in due fasi tra loro connesse. Nella prima, effettua una ricognizione dei “perimetri” della contrattazione collettiva nazionale di categoria, permettendo alle parti sociali di valutarne l’adeguatezza rispetto all’attuale contesto economico-produttivo e, se necessario, di apportare correttivi per realizzare una stretta interazione tra ccnl applicato ed effettiva attività di impresa . La finalità della prima fase è eliminare o, quanto meno, ridurre dubbi e controversie in merito all’applicazione delle regole contrattuali. Nella seconda, verifica i soggetti firmatari di ccnl circa la loro rappresentatività, nonché l’effettivo grado di copertura dei lavoratori coinvolti. Per attuare questi compiti, sempre il CNEL ha promosso alcune attività preparatorie in collaborazione con l’INPS .
L’AI del 2018 prevede anche un’eventuale terza fase, per definire un quadro normativo al fine di attribuire efficacia generalizzata ai contratti collettivi stipulati .
A differenza di un lontano passato, quando fino al 1960 solo la Cgil ha proposto l’applicazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., è la prima volta che le tre confederazioni sindacali chiedano unitariamente, seppure con una formulazione semantica, forse volutamente ambigua, un intervento legislativo in un a`mbito regolativo ritenuto, o sempre o in misura prevalente, di esclusiva pertinenza delle sole parti sociali.
Le cautele sono ovviamente diverse: innanzitutto nel testo contrattuale si parla di recepimento di intese negoziali «per la definizione di un quadro normativo in materia»; inoltre, proprio per aumentare le cautele, al sostantivo si aggiunge l’aggettivo «eventuale» per rendere forse meno perentoria la richiesta; infine, non si chiede in modo esplicito l’integrale applicazione dell’art. 39 Cost., anche se non la si esclude affatto.
La descritta richiesta potrebbe essere interpretabile o nel primo senso già indicato (forse, l’opzione più corretta rispetto alla volontà dei contraenti) o come l’auspicio di introdurre una legge per rafforzare la vincolatività quanto alla sua applicazione erga omnes oppure quale scelta per migliorare la legge che impone - in capo alle imprese - l’obbligo di versare all’Inps una contribuzione non inferiore a quella fissata dai contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria sulla falsariga del contenuto del citato AI tra Confcommercio, Cgil, Cisl e Uil del 2016. In quest’ultimo caso si sposta l’obbligo, a carico degli imprenditori, dalla misura della contribuzione a quella della retribuzione con benefici, sia per l’Inps (quanto agli introiti), sia per i lavoratori (quanto all’entità salariale da percepire).
Il forte pluralismo e la frammentazione associativa rendono difficile immaginare un consenso unanime delle stesse organizzazioni datoriali in merito alla definizione di un sistema condiviso di regole per misurare la loro rappresentatività .
Nel caso di un mancato, diffuso consenso delle organizzazioni imprenditoriali alla misurazione della rappresentatività, l’unica via percorribile è rappresentata dall’intervento del legislatore, perché l’efficacia erga omnes della contrattazione collettiva è realizzabile non attraverso l’autonomia collettiva privata, ma solo grazie alla legge.
A prescindere dall’attuazione integrale dell’art. 39 Cost., per rispondere alla prevedibile critica di una possibile lesione del principio di libertà sindacale, si può opporre o la proposta prima prospettata, consistente nell’imporre - in capo agli imprenditori - il vincolo legale della retribuzione oppure quella di una definizione per legge del salario minimo lega le sotto l’alveo dell’art. 36 Cost., anche alla luce della direttiva europea .
In tal modo, non sarebbe lesa la libertà sindacale e si arginerebbe anche il fenomeno del dumping contrattuale, con vantaggi sia per gli imprenditori a tutela della libertà di concorrenza sia per i lavoratori a difesa dei diritti loro spettanti: il tutto sotto l’egida di due importanti princìpi costituzionali (artt. 41 e 36 Cost.).

5. Nell’economia del lavoro, non è possibile tracciare un preciso articolato della futura riforma, operazione, già tentata più volte senza successo, sia in Parlamento sia in dottrina , ma solo indicare alcuni punti essenziali, oltre a quelli già espressi:
a) stabilire criteri certi di rappresentatività misurata per le associazioni sindacali datoriali e dei lavoratori e i perimetri negoziali;
b) prevedere l’efficacia obbligatoria dei contratti collettivi, quanto meno per la parte retributiva, anche alla luce delle sollecitazioni eurounitarie e con caratteristiche tali da non incorrere in censure di possibili incostituzionalità per violazione dell’art. 39 Cost.;
c) per ridurre drasticamente il lavoro nero, rafforzare la vincolatività degli accordi stipulati dalle organizzazioni rappresentative con strumenti di controllo e di ispezione da parte dell’Ispettorato nazionale del lavoro, i cui organici vanno potenziati.
Quanto al primo profilo, proprio una soluzione legislativa, che definisca la nozione di sindacato rappresentativo sulla base di dati non qualitativi, si configurerebbe quale tassello ineliminabile anche rispetto alla fissazione dei perimetri contrattuali.
In proposito, sarebbe auspicabile che il legislatore seguisse gli orientamenti della contrattazione collettiva dell’ultimo decennio, con una formulazione flessibile di principio, evitando di cristallizzarla rigidamente al fine di non violare l’art. 39, co. 1, Cost. In tale formulazione il Parlamento potrebbe operare un rinvio all’autonomia collettiva, prendendo atto che la volontà delle parti sociali è di introdurre criteri oggettivi di tipo quantitativo, riferiti alla consistenza associativa e ai risultati elettorali delle rsu, piuttosto che quelli di tipo qualitativo, necessariamente utilizzati per l’applicazione dell’art. 19 in virtù della sua formulazione generale, ma, in quanto tali, più facilmente oggetto di interpretazioni difformi da parte della giurisprudenza. Perciò, sul piano del metodo, l’intervento del Parlamento si svilupperebbe attraverso una costante consultazione e coinvolgimento delle parti sociali .
A tal fine si potrebbero seguire i criteri individuati dal TU del 2014, opportunamente integrati, anche se nel complesso poco selettivi. In tale operazione si prevede il coinvolgimento del soggetto pubblico (Ministero del lavoro, Inps) per certificare le deleghe sindacali, nonché dello stesso Ministero e delle parti sociali per raccogliere e verificare i dati elettorali nelle votazioni per il rinnovo delle rsu.
Infine, mediante un ruolo più incisivo, il CNEL potrebbe esercitare un’efficace azione nell’identificare e ponderare la rappresentatività di ogni singola organizzazione sindacale.
Ulteriori criteri quantitativi potrebbero essere utilizzati per individuare le associazioni datoriali più rappresentative, desumendoli anche in questo caso, come per i sindacati dei lavoratori, da dati “oggettivi” (numero delle imprese aderenti alle associazioni, numero dei dipendenti, valore aggiunto), così come si prevede per altre finalità . Forse, in questo àmbito, sarebbe anche auspicabile l’impiego di altri criteri (p.es., l’attività degli enti bilaterali, la presenza sul territorio, i servizi agli associati…), recependo le proposte delle associazioni datoriali non industriali.

6. Ormai da molti anni, siamo in presenza di due fenomeni più che consolidati, che hanno reso complesso il governo delle relazioni industriali: da un lato, la crisi irreversibile della nozione di smr, ancor di più dopo il referendum del 1995, e gli orientamenti laschi e contradditori della giurisprudenza ordinaria e amministrativa, che hanno contribuito ad aumentare l’anomìa del sistema; da un altro, l’individuazione legislativa di possibili “surrogati”, quali criteri sostitutivi della nozione di smr, i quali, però, nella prassi applicativa hanno mostrato fin troppi limiti, risultando inidonei per realizzare una riforma più ampia.
Perciò, la soluzione legislativa appare l’unica realisticamente percorribile, perché l’individuazione di criteri certi di rappresentatività e dei perimetri contrattuali, demandata alla sola autonomia collettiva anche se concordata dalle più importanti organizzazioni sindacali dei datori e dei lavoratori, conterrebbe inevitabilmente in sé tutti i limiti di tale scelta e sarebbe destinata all’insuccesso. Infatti, specie nei settori di maggiore debolezza sindacale e di forte frammentazione associativa (p.es., servizi, logistica, commercio e servizi, piccole imprese e artigianato), emergerebbero sicuramente azioni non coerenti rispetto alle intese negoziali prima indicate.
Un eventuale intervento legislativo potrebbe oscillare tra due poli: il primo, più limitato, per recepire prevalentemente la proposta di direttiva europea sul salario minimo adeguato potrebbe rappresentare la soluzione più fattibile tenuta presente la prolungata inazione del Parlamento, oppure il secondo, di natura più complessiva e di parziale attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., auspicabilmente da modificare , ma con un esito positivo molto più incerto.
In ogni caso il legislatore dovrebbe anche tener presente gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale di alcuni decenni fa a proposito della legge delega n. 741/1959 e dei relativi decreti emanati, finora l’intervento eteronomo più penetrante introdotto dal Parlamento nei confronti dell’autonomia collettiva e dell’art. 39 Cost. Tale giurisprudenza, pur datata, potrebbe comunque offrire importanti linee guida per evitare possibili declaratorie di incostituzionalità e non essere “costretta”, come in passato, a ricorrere a nuove tecniche decisionali (la sentenza di costituzionalità provvisoria) , pur di salvare la stessa legge.
Nel complesso, allora, le decisioni della Corte sulla legge delega sono state incanalate lungo i binari di una politica del diritto interessata a scindere sistematicamente l’àmbito di incidenza della legge, come fonte di produzione normativa statuale, esterna al sistema di relazioni industriali (e, dunque, all’ordinamento intersindacale), da quello dell’autonomia collettiva, come processo istituzionale di formazione e di applicazione di regole all’interno del sistema stesso. In tal modo la Consulta ha fornito un consistente contributo al consolidamento (con l’implicita legittimazione dell’ordinamento intersindacale) del sistema di relazioni industriali, così come sarebbe auspicabile per oggi.
A fronte di una sostanziale impossibilità a intervenire da parte dell’autonomia collettiva e della giurisprudenza, compresa quella costituzionale, che ha cercato di limitare il più possibile gli effetti della prolungata astensione legislativa, appare ineludibile l’azione del Parlamento. In proposito si pone un duplice interrogativo in merito ai motivi della mancata regolazione legislativa e alle possibili previsioni nella XIX legislatura.
Quanto al primo profilo, il problema si è già verificato all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione e per circa un quarantennio sono ben noti alla dottrina i motivi dell’inazione parlamentare, peraltro condivisa dalle parti sociali, seppur con rare eccezioni e in alcuni momenti storici (p.es., la Cgil).
L’interrogativo su cui riflettere è come mai, quanto meno dal 1990, a partire dal primo, pressante invito della Consulta a legiferare, si sia registrato un assordante silenzio da parte del Parlamento.
A prescindere da quella odierna appena iniziata, nel corso del trentennio, si sono alternate ben otto legislature, con diciotto governi e quattordici Presidenti del Consiglio dei Ministri, governi peraltro costituiti nel corso degli anni non in modo omogeneo ma secondo le più variegate formule politiche (governi di centrodestra, di centrosinistra, tecnici, giallo-verde, giallo-rosso…).
Pur al forte variare delle maggioranze di governo, il risultato è stato identico: l’inerzia del Parlamento. Perciò, il problema dell’individuazione, sia dei soggetti negoziali stipulanti sia dei perimetri contrattuali, non è mai stata al centro della reale attenzione di uno qualsiasi dei molteplici esecutivi alternatisi alla guida del Paese, forse anche in ossequio al principio di autonomia delle parti sociali.
In merito al secondo profilo, è sempre difficile formulare previsioni sia nel sistema di relazioni industriali sia - e, forse, ancor di più - in quello politico.
Allo stato, l’unico elemento rispetto al quale ipotizzare il prossimo futuro è il programma dei partiti politici e, in modo particolare, alla luce dei risultati elettorali delle elezioni politiche del 25 settembre 2022, quello della coalizione di centro-destra .
Nel complesso, le indicazioni dei programmi elettorali sono scarne, tendenzialmente generali e generiche, spesso non forniscono nemmeno puntuali indicazioni sulle modalità di raggiungimento degli obiettivi prefissati .
Nel programma elettorale di Fratelli d’Italia, il partito più votato, vi è solo l’indicazione di ampliare il campo di applicazione dei contratti collettivi nazionali . In quello della Lega, i riferimenti sono altrettanto limitati nei contenuti: si afferma genericamente che ai lavoratori vada riconosciuto un salario minimo pari a quello fissato dai ccnl più diffusi, senza far riferimento alle modalità di individuazione né dei soggetti stipulanti, né dei perimetri contrattuali . Ancor più sintetico è il riferimento nella proposta di Forza Italia, che nel suo sito riporta - come proprio - quello che, in realtà, è il “Programma quadro per un Governo di centrodestra”. In tale programma non vi sono indicazioni relative alla rappresentatività e alla contrattazione collettiva: così oggi, come già in passato, il tema di una legge sindacale non sembra essere al centro dell’interesse dei partiti politici.
Di qui il titolo del presente lavoro: l’attesa di un organico intervento legislativo sulla rappresentatività e sui perimetri contrattuali ricalca quella dei due protagonisti della commedia “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, ripresi nel non far nulla affinché si realizzi l’arrivo di Godot. E così, come nella commedia, il rischio concreto è che si continuerà ad aspettare inutilmente qualcosa (la legge sindacale), che appare come imminente, ma che imminente non è, come testimonia il passato e come forse proverà il futuro: un’attesa, perciò, senza fine .

 

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