Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa. La lotta alla povertà di chi lavora.
L’ampiezza delle questioni toccate negli interessanti webinar del PRIN su Nuove uguaglianze, lavoro dignitoso, professionalità - oggi efficacemente riassunte dalla coordinatrice nazionale, Marina Brollo, e dai responsabili delle Unità di ricerca, Carlo Zoli, Pietro Lambertucci e Marco Biasi - mi induce a prescegliere un tema, tra quelli oggetto di approfondimento nel Progetto: il tema relativo al ruolo della contrattazione collettiva nella lotta alla povertà e, più in generale, in vista della garanzia della libertà e dignità della vita di chi lavora.
Prima di entrare nel merito del tema, intendo però proporre una osservazione introduttiva: la stessa idea che in una società fondata sui nostri valori costituzionali ci si debba porre il problema del contrasto alla povertà di chi lavora è un’aberrazione.
E non è meno aberrante sol perché nei fatti accade che sempre più lavoratori siano sotto la soglia di povertà. Anche se, evidentemente, i numeri possono cambiare a seconda dei criteri utilizzati per calcolare i dati. Ne ha parlato oggi Carlo Zoli e su questo aspetto mi sembra molto chiara e apprezzabile, tra le altre, l’analisi condotta da Andrea Filippo, in occasione del webinar dell’Aquila del 13 maggio 2021 su “La povertà dei lavoratori: evidenze empiriche ed approcci teorici in una prospettiva interdisciplinare” .
Così come ho trovato interessante la riflessione di Filippo, che mi auguro venga poi sviluppata nel proseguimento della ricerca, sulle cause del fenomeno dell’In-work poverty (non nuovo ma tornato alla ribalta, almeno nelle dimensioni attuali, in tempi relativamente recenti), con particolare riferimento alla connessione tra la sua riemersione e le politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Comunque la si pensi, è significativo che la nostra società “libera”, “democratica”, fondata sulla solidarietà e le uguaglianze, ci abbia riconsegnato una sfida che qualche decennio fa sembrava superata: una lotta alla povertà di chi lavora che ci porta indietro di numerosi decenni (forse secoli, ormai); una lotta che, almeno nei paesi occidentali, all’epoca della quarta rivoluzione industriale e del dominio delle tecnologie di connessione, dovrebbe essere considerata una lotta superata o di retroguardia.
Invece il tema è reale, qui, oggi.
I dati ci consegnano una realtà, che forse alcuni non vogliono vedere, ma che impone a tutti noi di riflettere e agire, anche in merito alla individuazione delle tecniche rimediali, come ben colto dai ricercatori coinvolti nel PRIN, che hanno compiuto, a me pare, una scelta di campo sin dalla redazione del progetto di ricerca.
Una scelta che apprezzo anche perché essa presuppone la condivisione di un piano di riflessione che rifiuta la supina accettazione della colonizzazione dell’analisi (e della proposta) giuridica da parte delle scelte dell’economia (ne parlavano oggi Maurizio Ricci e, con ulteriori dettagli, Rosario Santucci, nel sottolineare il revirement nello stesso pensiero di alcuni economisti). In particolare, la ricerca di tecniche rimediali volte a garantire adeguati livelli salariali e di tutela non può trovare ostacolo nell’alibi rappresentato dalla loro sostenibilità per il sistema economico nel suo complesso, se è vero che anche la nostra economia è caratterizzata dall’accentuazione degli squilibri e dalla inesauribile crescita di alcune ricchezze: dalla vittoria dei ricchi sui poveri, per usare un’espressione ripresa da Lorenzo Gaeta nella sua introduzione al medesimo webinar dell’Aquila sopra citato, sulla falsariga delle posizioni di Luciano Gallino.
D’altra parte, è evidentemente che se si volesse cogliere la sfida probabilmente più alta, ma anche complessa, se si volessero cioè affrontare dalle fondamenta le questioni sollevate nei webinar organizzati nel quadro del PRIN, non basterebbero di certo i soli strumenti del diritto del lavoro, pur nella condivisibile prospettiva progettuale cui si riferiva stamane Mariella Magnani, nel sintetizzare i lavori del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia.
Sarebbe infatti necessario il ripensamento di un modello di produzione e sviluppo che ha accettato sia la logica del contenimento delle dinamiche salariali, sia una buona dose di precarietà, di frammentazione del lavoro e, conseguentemente, di povertà. In realtà, non v’è nulla di dato, non v’è niente di ontologico nelle scelte di sistema compiute negli ultimi decenni: lo spostamento della ricchezza tra le diverse componenti della società, da un lato; il lavoro intermittente, i part-time (talora falsi) a poche ore, gli appalti interni senza garanzia di parità di trattamento e così via, dall’altro, sono il frutto di scelte, non obbligate né irreversibili, della società nel suo complesso. Di quel modello, peraltro, sono parte integrate politiche fiscali non sempre coerenti con lo sbandierato obiettivo della lotta alle povertà.
Ma qui il tasto si fa troppo delicato, specie oggi, specie in una giornata di sciopero generale, indetto da due su tre tra le nostre principali Confederazioni sindacali, che ha a che fare anche con questi temi. E allora svicolerò, non entrerò nel dettaglio di questo aspetto, se non per il cenno che vi ho dedicato.
Proverò invece a ragionare su un singolo profilo, pur sempre – e a pieno titolo – riconducibile alla discussione sulle tecniche rimediali affrontata in una delle unità del PRIN, come confermato dall’attenzione che Carlo Zoli vi ha dedicato oggi.
Un profilo che, come accennato in apertura, riguarda la questione del contratto collettivo, della sua integrazione funzionale con la legge e della sua applicazione, nella prospettiva non solo di condurre la lotta alla povertà, ma anche di garantire la dignità della vita di chi lavora, anche al di là della questione salariale.
Il ragionamento si inserisce in un dibattito che, nel complesso, è ben noto e che riassumerò in alcuni passaggi, che mi paiono essenziali.

2. I contratti collettivi e la questione salariale: non solo lotta alla povertà, ma anche garanzia della libertà e dignità della vita di chi lavora.
Il Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017 riconosce, tra l’altro, il diritto a una retribuzione equa, che offra un tenore di vita dignitoso, e afferma la garanzia di retribuzioni minime adeguate, ideone a soddisfare “i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzioni delle condizioni economiche e sociali nazionali” .
Ed è noto come sia in cantiere, ormai in dirittura d’arrivo, una direttiva dell’Unione sul salario minimo legale.
Si tratta, però, di un piano sul quale il nostro ordinamento, come tutti noi sappiamo, è già pronto, poiché, al massimo livello (art. 36 Cost.), contiene già un precetto in materia di retribuzione (e non solo una indicazione al legislatore) ampiamente utilizzato nelle aule dei tribunali; un precetto che lega l’entità della retribuzione (non solo alla proporzionalità, ma) anche all’obiettivo di garantire al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa; e ciò comporta, non servirebbe neppure ribadirlo in questo contesto, che ogni lavoratore, anche il meno qualificato, possa assicurare alla propria famiglia non il mero sostentamento, ma il soddisfacimento anche dei bisogni connessi alla vita sociale.
Non mi occuperò, qui, delle ben note prospettive di intervento legislativo sulla materia.
Se mai, un primo problema che mi preme segnalare all’attenzione dei ricercatori che si occupano di questo tema attiene alla perdurante idoneità della giurisprudenza nostrana - la cui preziosa opera, sia ben chiaro, non è qui in discussione - a dare ancora conto della evoluzione delle discipline dei contratti collettivi.
Nella prospettiva finalistica consacrata nell’art. 36, infatti, ci si deve interrogare su quale parte del contratto collettivo debba essere oggi valorizzata: a mio avviso non può più essere trascurato l’affermarsi progressivo di diverse nozioni di trattamento economico (si pensi, in particolare, al TEC, previsto dal Patto per la fabbrica del 2018, e alla sua graduale attuazione nei ccnl di categoria) . Più in generale, non può più essere trascurata la rilevanza ormai da tempo assunta da altre partite dello scambio (ad es., ferie aggiuntive e loro eventuale monetizzazione e/o riduzioni dell’orario di lavoro e loro possibile conversione in salario), tradizionalmente neglette da quella giurisprudenza, ma comunque incidenti sull’equilibrio economico complessivo consacrato nel contratto collettivo e che, con la loro concreta dinamica, pesano sul trattamento economico di cui fruisce il lavoratore (anche nella prospettiva di garantire a lui e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa), non meno della paga base.
Insomma, al fine di consentire un’applicazione del precetto costituzionale che gli consenta di esplicare tutta la sua potenziale portata, è necessario che chi si occupa di ricerca in questo campo si ponga anche l’obiettivo di accompagnare la giurisprudenza ad una più ampia consapevolezza dello sviluppo delle dinamiche contrattuali.
Rispetto al ragionamento qui condotto, un cenno meritano, però, anche le scelte delle parti sociali, indubbiamente condizionate, nel corso del tempo, dal clima economico e politico complessivo e, in definitiva, dalle scelte di sistema cui facevo cenno nel paragrafo introduttivo.
A ciò mi induce anche l’intervento odierno di Marina Brollo, con la sua condivisibile attenzione alla perdita del potere d’acquisto dei salari.
Ebbene, questa perdita è l’effetto di una serie di fattori, tra i quali vanno certamente annoverate, da un lato, la modalità di recupero dell’inflazione che, a tacere della tempistica, si basa, come noto, su un indice (Ipca) depurato dall’incremento dei costi dei beni energetici importati; dall’altro, la spinta verso lo spostamento di parte della massa salariale sul secondo livello di contrattazione (peraltro scarsamente praticato nel nostro Paese e non sempre gestito, per parte sindacale, da negoziatori in grado di confrontarsi adeguatamente sul piano tecnico con la controparte).
In questa sede , mi limiterò ad evidenziare i segnali positivi che mi paiono emergere dall’ultima tornata negoziale, in particolare dal rinnovo Metalmeccanici del 2021, il cui negoziato si era aperto con il chiaro rifiuto di Federmeccanica di accettare le richieste di aumenti in busta paga e la dura contrapposizione tra le parti sulla fetta di salario da contrattare in sede aziendale. L’accordo si è infine chiuso con esiti non facilmente prevedibili, poiché in esso è stato stabilito un riconoscimento economico in busta paga superiore a ciò che sarebbe derivato dal mero richiamo all’indice Ipca. A tal fine, le parti hanno sfruttato una chance offerta dal Patto per la fabbrica del 2018: pur confermando il precedente sistema di definizione dei minimi, hanno infatti stabilito l’incremento del trattamento economico minimo, oltre che sulla base per la dinamica dell’Ipca, anche sulla scorta di “una ulteriore componente in considerazione della rilevante innovazione organizzativa determinata dalla riforma dell’inquadramento, come indicato dal Patto per la fabbrica, punto 5, lettera H)”.

3. La garanzia della dignità e libertà di chi lavora nei contratti collettivi: non solo salario.
La funzione salariale, non solo nel quadro della lotta alle nuove povertà, ma anche in vista del più alto obiettivo voluto dal Costituente, non esaurisce, evidentemente, il ruolo della fonte collettiva, nella sua integrazione funzionale con la legge, a garanzia della dignità e libertà delle lavoratrici e dei lavoratori.
Mi preme solo fare un esempio di quanto preziosa sia questa integrazione funzionale, sulla quale tutti noi abbiamo più volte riflettuto; un esempio che non ha, appunto, alcuna connotazione economico-salariale, ma che ha il pregio di essere recente e, soprattutto, strettamente connesso alla libertà e alla dignità di chi lavora.
In molti dei rinnovi sottoscritti nell’ultima tornata contrattuale, in un più ampio quadro di interventi che vedono variamente rafforzate le tutele in materia di permessi, aspettative, congedi, conservazione del posto in caso di malattia, ecc., le parti hanno mostrato una significativa attenzione per le questioni connesse alla tutela di coloro che sono oggetto di violenza di genere o di molestie sui luoghi di lavoro.
Non mancano, in particolare, discipline di categoria molto strutturate, che, oltre a prevedere l’elevazione da tre a sei mesi del periodo di congedo retribuito previsto dall’art. 24, d.lgs. n. 80/2015, a favore delle donne vittime di violenza di genere, contemplano altresì ulteriori diritti, quali il ricorso alla formazione continua per tali lavoratrici al rientro dal congedo, la trasformazione, anche temporanea, del loro rapporto di lavoro in rapporto a tempo parziale, la concessione di agevolazioni nella flessibilità oraria o nel ricorso a forme di lavoro agile, il trasferimento in altra sede, a parità di condizioni economiche e normative, il ricorso alle ferie par solidali, con garanzia di privacy .

4. Non solo legge: l’integrazione funzionale tra legge e contratto collettivo con applicazione generale.
In realtà, della integrazione funzionale tra legge e contratto collettivo nel perseguimento anche delle finalità che qui ci occupano credo pochi dubitino, salvo coloro che vedono ancora nei corpi intermedi e nei soggetti rappresentativi degli interessi collettivi un fastidioso ostacolo al perseguimento di finalità di tipo economico (o ritengono che l’impresa e il mercato si regolino da soli).
Soprattutto, quella integrazione funzionale è stata ampiamente considerata e voluta dal Costituente, anche nella seconda parte dell’art. 39 che, al di là della sua formulazione e dei suoi limiti (veri o supposti che siano), ha senso proprio nella prospettiva della applicazione delle tutele (di tutte le tutele) previste dai contratti collettivi a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori. Ciò, se si vuole, nella prospettiva di favorire il contributo della contrattazione collettiva alla realizzazione dell’imperativo dell’art. 3, co. 1, Cost. (la “pari dignità sociale” di tutti i cittadini) e al perseguimento dell’obiettivo di cui all’art. 3, co. 2, rappresentato dalla rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Insomma, nella lettura dei Costituente la prima tecnica rimediale, anche in vista della garanzia della lotta alle povertà e, di più, della garanzia di libertà e dignità di cui oggi discutiamo, è rappresentata proprio dalla copertura contrattuale generalizzata del contratto collettivo.
Ed è altresì evidente che questa peculiare fonte di regolazione di rapporti tra privati non smette mai di confermare la propria perdurante vocazione a contribuire al governo dei fenomeni economici e sociali, anche nel perseguimento di interessi generali, come dimostrato – se ve ne fosse stato bisogno – dal ruolo che la negoziazione tra le parti sociali ha svolto nella gestione della drammatica situazione determinatasi, anche per il sistema produttivo del nostro Paese, a causa della pandemia e dell’emergenza sanitaria (si pensi, in particolare, alla ricca negoziazione su tematiche legate al Covid, sviluppatasi già a partire dal febbraio 2020, anche a seguito di provvedimenti governativi che hanno spinto verso il governo collettivo dei fenomeni connessi alla pandemia e incidenti sul mondo della produzione e lavoro).
Ma d’altra parte, per quanti credono nel ruolo della rappresentanza collettiva degli interessi, la fonte collettiva è oggi chiamata a svolgere un ruolo centrale anche nel governo di questioni che riguardano il presente e il futuro dell’impresa e del lavoro. Si pensi, per citare solo un paio tra i temi che attraggono l’attenzione degli studiosi e del decisore politico, da un lato, alla sostenibilità (anche, ma non solo) ambientale dell’impresa e alla sua transizione ecologica, con gli effetti positivi che essa comporta, ma anche ai nuovi rischi che ne derivano in termini occupazionali; dall’altro, per toccare un tema trattato nell’altro PRIN di cui si è discusso stamane , allo sviluppo delle tecnologie di connessione, i cui effetti si colgono sia sul piano dei livelli occupazionali, sia su quello della diversificazione e allargamento dei potenziali destinatari delle tutele (come dimostra il caso emblematico, ma non certo isolato, dei riders), sia, ancora, in termini di nuove minacce (riservatezza, esercizio dei controlli, deresponsabilizzazione sui temi della sicurezza ecc.) e, correlativamente, di ricerca di nuove tutele o di ripensamento di quelle esistenti (Stefano Bellomo faceva oggi riferimento alla questione delle durate della prestazione nel lavoro agile, alla quale aggiungerei anche quella della remunerazione del lavoro svolto in tale modalità).
Ebbene, anche rispetto a tali questioni è evidentemente essenziale il ruolo del legislatore, non solo a livello nazionale, come del resto dimostrato dall’attenzione finalmente riservata a talune di tali tematiche dagli organi dell’Unione; così come quel ruolo continua a essere essenziale sul piano, più in generale, del rafforzamento dei diritti e delle tutele.
In tutti questi ambiti, però, il governo e la composizione del conflitto di interessi che caratterizza i partner delle relazioni di lavoro non può che passare, tuttora, attraverso l’azione sinergica tra la fonte eteronoma (e, in generale, l’azione dei pubblici poteri) e l’autonomia collettiva.
Questa consapevolezza e non un rigurgito neo-trentanovista spiega a mio avviso l’attenzione, prima di pochi, poi di alcuni e ormai di molti, verso la ricerca di strumenti legislativi che mirino a garantire la tenuta del sistema di relazioni sindacali e dei suoi prodotti negoziali, mediante la regolazione dell’efficacia del contratto collettivo e della sua applicazione generale.
Un’attenzione rafforzata, ma non certo originata, dal diffondersi del fenomeno dei working poors, che però, va riconosciuto, ha contribuito a sollecitare una sfera più ampia di interpreti e di decisori politici, non foss’altro per i rischi, che ne derivano, di crescita di conflittualità sociale; nihil novi sub lumine soli…, in definitiva.

5. Contratti collettivi, loro applicazione generale e dignità e libertà di chi lavora: qualunque contratto collettivo?
Tra le sfide che, non da oggi, sono connesse alla questione del contributo della contrattazione collettiva al perseguimento degli obiettivi della libertà e della dignità di chi lavora, v’è dunque la questione del livello di “copertura” dei contratti collettivi .
Si tratta, però, di una questione i cui contorni sono stati da qualche tempo ridefiniti, nel dibattito scientifico e nella stessa consapevolezza delle parti sociali, rispetto a quelli che erano presenti al Costituente.
Essa, ormai, non è più declinata solo in termini di estensione nell’applicazione del contratto collettivo, tema comunque vivo, ma anche di scelta del contratto collettivo da applicare e implica delicate valutazioni in merito al supporto che può essere fornito dai pubblici poteri all’obiettivo di garantire alla contrattazione collettiva di assolvere appieno ad una delle sue più significative responsabilità, quella che gli deriva dalla sua funzione di strumento anticoncorrenziale.
Questa funzione, infatti, è costantemente messa in discussione a causa dello shopping di regolazioni che alcune imprese continuano a compiere, specie in alcuni settori, grazie alla molteplicità di contratti collettivi e di agenti negoziali, con evidenti effetti di dumping.
La ben nota proliferazione dei contratti collettivi e la frammentazione del sistema contrattuale, spesso accompagnata dalla creazione appositi ‘ambiti’ negoziali, hanno chiaramente mostrato come l’attuale regolazione legislativa, nonostante il proliferare di norme volte a valorizzare il sindacato “comparativamente” più rappresentativo, non sia idonea a fronteggiare un fenomeno che si è rivelato in grado di alterare la corretta dinamica delle relazioni sindacali: il fenomeno rappresentato dalla “fuga” dal sistema contrattuale “tradizionale” (già di per sé molto articolato), realizzata mediante la sottoscrizione di contratti collettivi da parte di associazioni sindacali che non sono realmente rappresentative del mondo delle imprese e dei lavoratori, allo scopo di consentire alle imprese che li applicano di competere sul mercato riducendo i propri costi sul piano salariale, contributivo, ma anche normativo.
Si tratta, in definitiva, di un fenomeno di dumping sociale praticato non mediante la sottrazione del datore di lavoro dall’applicazione del contratto collettivo, ma mediante la sottoscrizione e applicazione di contratti, talora definiti nella letteratura giuslavoristica come contratti ‘pirata’, che si inseriscono in una sorta di sistema negoziale parallelo, popolato di soggetti collettivi di dubbia rappresentatività o che sono effettivamente dotati di rappresentatività solo in alcuni ambiti (ad esempio in alcune categorie del pubblico impiego), ma non in altri.
E ciò pone, come noto, il problema della opportunità o meno di una nuova legislazione promozionale dell’azione collettiva, che abbia a che fare direttamente con il suo prodotto negoziale. Il problema, evidentemente, non riguarda gli obiettivi, non nuovi, ma gli strumenti di questa nuova promozione dell’azione collettiva.
Insomma, il problema è oggi da ridefinire in questi termini: quale contratto collettivo valorizzare, e come valorizzarlo, ai fini della integrazione funzionale con la legge nel perseguimento degli obiettivi di tutela della dignità e libertà di chi lavora?
Si tratta di una questione ben chiara alle stesse parti sociali, che, in molti testi negoziali e con toni più o meno netti, hanno nel tempo moltiplicato gli inviti per un intervento legislativo, mostrando ormai chiaramente la consapevolezza che l’autonomo sistema – a legislazione invariata – non è più in grado di reggere l’urto di questa contrattazione ‘parallela’. Tanto più se si considera, da un lato, l’altrettanto nota inadeguatezza delle, ondivaghe, soluzioni giurisprudenziali e, dall’altro, che i fenomeni in questione non solo contribuiscono a creare concorrenza sleale tra imprese, ma, poiché realizzate, da soggetti che si autoqualificano come rappresentativi, consentono ai datori di lavoro che li applicano di sfruttare gli ampi spazi di flessibilità concessi dalla legislazione di rinvio alla contrattazione collettiva sottoscritta da soggetti qualificati.
A partire dalla stagione degli Aa.IIi del Commercio del 2016, si è così assistito ad un condiviso invito al legislatore a elaborare interventi diretti a svolgere una funzione anti-dumping e a consentire “una riduzione dei molteplici contratti collettivi esistenti, spesso insistenti su medesimi settori/comparti”, anche mediante la verifica del reale peso rappresentativo dei sottoscrittori, ivi comprese le associazioni datoriali .
Ma un’analoga attenzione al fenomeno è presente in un altro ambito ‘delicato’, quello della cooperazione, anch’esso fortemente esposto a forme di dumping attuate mediante la sottoscrizione di contratti da parte di soggetti, datoriali e sindacali, meno rappresentativi. Qui la lotta alla falsa cooperazione è divenuta caratteristica fondante delle relazioni sindacali di livello interconfederale: con un accordo del 2018, infatti, le parti hanno concordato, tra l’altro, sulla necessità di individuare criteri di misurazione anche della rappresentatività datoriale e hanno assunto espressamente – quale ambito principale di tale misurazione – la “tipologia d’impresa”, anche al fine di qualificare la rappresentatività delle associazioni delle imprese cooperative “all’interno di realtà plurali nelle quali la cooperazione è cofirmataria di altri ccnl” ; e ciò a dimostrazione del fatto che la disciplina legislativa oggi vigente nel settore non è in grado di fronteggiare tutti i fenomeni .
Anche nel settore industriale, nel Patto per la fabbrica del 2018, è stato posto al centro della riflessione il tema del contrasto alla proliferazione di accordi sottoscritti al fine di “dare copertura formale a situazioni di vero e proprio dumping contrattuale”; contrasto da realizzare attraverso un percorso graduale, che prevedeva, in prima battuta, il coinvolgimento del CNEL in vista della ricognizione dei perimetri della contrattazione di categoria e della valutazione, sulla base di dati oggettivi, dell’effettiva rappresentatività dei sottoscrittori dei contratti nazionali, nell’ambito di quei perimetri. In una successiva fase, alla luce dei dati, le parti sociali avrebbero potuto verificare l’adeguatezza dei perimetri rispetto ai processi di trasformazione dell’economia italiana e, se del caso, intervenire a modificare gli ambiti di applicazione dei ccnl, “anche al fine di garantire una più stretta correlazione tra ccnl applicato e reale attività d’impresa”; ma anche proporre, eventualmente, l’adozione di regole volte, tra l’altro, a impedire a soggetti privi di adeguato livello di rappresentatività “di violare o forzare arbitrariamente i perimetri e gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi nazionali di categoria”.
In tale contesto, a nostro avviso coerentemente, le parti hanno poi riconoscono che l’efficacia generalizzata dei ccnl (evidentemente di quelli sottoscritti da soggetti la cui rappresentatività sia adeguatamente certificata, nell’ambito di riferimento) rappresenti “un elemento qualificante del sistema di relazioni industriali e che le intese in materia di rappresentanza [in particolare, il TU del 2014] possano costituire, attraverso il loro recepimento [evidentemente da parte del legislatore], il presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia”.
Da queste esemplificazioni delle fonti negoziali emerge, insomma, come sia lo stesso sistema di contrattazione collettiva a ritenere ormai urgente un intervento, anche eteronomo, sulla misurazione dei negoziatori e sulla delimitazione dei perimetri negoziali.

5.1. Una prima, provvisoria, conclusione: convenire sugli obiettivi, per poi scegliere gli strumenti.
Avviandomi alla conclusione e rinviando ad altra sede per ulteriori approfondimenti sui passi già compiuti nella direzione delineata dalle parti sociali (si pensi, tra i più rilevanti e recenti, all’Accordo di collaborazione interistituzionale tra Cnel e Inps del giugno 2018, e, più di recente, all’art. 16-quater del d.l. n. 76/2020) , il profilo che mi pare qui utile enfatizzare è rappresentato dalla necessità e urgenza di una chiara scelta di campo, tra gli studiosi che ritengono importante seguire l’input fornito dalle parti sociali; una scelta che ponga al centro gli obiettivi, prima che gli strumenti.
Una scelta che, evitando di arenare subito il dibattito sulla questione dell’attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. o sulla sua abrogazione o modifica, renda chiare le posizioni su un passaggio preliminare e nevralgico: a quale fonte spetta delineare gli ambiti, i perimetri entro cui effettuare le misurazioni.
Su questo specifico aspetto, mi limiterò dunque a ribadire, in primo luogo, che qualunque opzione che prediliga meramente l’intervento eteronomo rischierebbe di limitare la capacità autopoietica della categoria, intesa sia come libera scelta del gruppo da organizzare (corollario del principio di libertà sindacale), sia, in definitiva, come scelta sull’ampiezza delle unità negoziali; una rigida determinazione legislativa dei perimetri, in definitiva, si porrebbe in contrasto con lo stesso sviluppo dinamico degli ambiti di contrattazione negoziali e con l’esigenza di garantire una stretta “correlazione tra ccnl applicato e reale attività d’impresa”, valorizzati, come abbiamo appena visto, nello stesso del Patto per la Fabbrica.
D’altra parte, se l’obiettivo è di valorizzare i contratti collettivi sulla base della reale capacità rappresentativa dei sottoscrittori, misurata in via comparativa, è evidente che non può essere sufficiente affidare a qualunque soggetto negoziale il compito di ritagliare la propria ‘categoria’ di riferimento, nella quale poi sottoporsi alla misurazione: l’effetto sarebbe o un miracoloso autocontrollo dei diversi soggetti negoziali oggi presenti sul ‘mercato’ oppure l’infinita rincorsa al ritaglio fantasioso della ‘categoria’, che potrebbe evidentemente condurre a qualsiasi risultato, senza garantire alcun effetto pratico.
La mia opinione, in conclusione, è che elementi importanti per la discussione siano presenti nella proposta della Cgil del 2016, contenuta nella “Carta dei diritti universali del lavoro - Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori”, nel cui Titolo II, concernente l’attuazione degli artt. 39 e 46 della Costituzione, v’è ampio spazio per la ripresa di temi centrali nella riflessione scientifica odierna. In questa proposta la competenza a determinare i perimetri è attribuita sì allo stesso sistema di relazioni sindacali (costituito da soggetti registrati ai sensi dell’art. 39), ma, in particolare, ad accordi di livello confederale ad efficacia generale, sul modello, in definitiva di quanto accade già nell’impiego alle dipendenze delle P.A.
Tali accordi avrebbero tra l’altro il compito, in quella proposta, di disciplinare gli altri livelli e ambiti di contrattazione a efficacia generale e di dettare i criteri di appartenenza dei singoli datori di lavoro agli ambiti contrattuali, evitando, così, il rischio di “fughe” dal sistema. Criteri che, naturalmente, potrebbero adattarsi nel tempo “ai processi di trasformazione” dei sistemi produttivi e dell’economia, non essendo escluso, nel quadro di questa ipotesi, che le parti possano nuovamente intervenire, allorché occorra, “sugli ambiti di applicazione della contrattazione collettiva nazionale di categoria, anche al fine di garantire una più stretta correlazione tra CCNL applicato e reale attività dell’impresa” (per riprendere, ancora, le parole utilizzate nel già citato Patto per la fabbrica del 2018).
Si tratta, in definitiva, di una soluzione che, rispettando - a Costituzione invariata – la procedura e la “sostanza” della seconda parte dell’art. 39, consentirebbe di evitare la “eterodeterminazione dei perimetri”, attribuendola comunque ai soggetti collettivi, che abbiano però accettato di registrarsi, di dotarsi di un ordinamento interno a base democratica e di sottoporsi alla misurazione del proprio peso rappresentativo.
Quella qui sintetizzata non è ovviamente l’unica proposta in campo, anche perché competenze analoghe potrebbero essere attribuite a soggetti interconfederali adeguatamente misurati anche nel quadro di una eventuale legislazione sul salario minimo attuativa dell’art. 36 Cost., senza avventurarsi, come prima accennavo, nella polemica sulla attuazione o meno della seconda parte dell’art. 39.
Del resto, nella prospettiva dell’intervento legislativo sull’art. 36, persino l’attribuzione del compito di ‘perimetrare’ a un soggetto terzo (una nuova commissione di esperti) potrebbe essere utile allo scopo. Ciò a condizione che l’esito della sua azione non si traduca nella intangibilità dei perimetri e sia rispettosa delle libere determinazioni dell’autonomo (per quanto inevitabilmente regolato) sistema negoziale, al quale non possono essere sottratte le proprie prerogative in materia di costruzione e modifica dinamica della propria architettura.

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