Testo integrale con note e bibliografia

1. La legittimazione del sindacato ad agire in via risarcitoria e in via inibitoria: lo strano caso del rinvio alla definizione di «enti del terzo settore»
Stupisce che i primi commentari e testi usciti sulla legge n. 31 del 2019, rubricata «Disposizioni in materia di azione di classe», entrata finalmente in vigore nel maggio scorso, non abbiano dedicato alcuno spazio di riflessione al diritto del lavoro e al ruolo possibile del sindacato . Lo stupore si accresce se si considera che, attualmente, sono già due i ricorsi per azione collettiva inibitoria, ai sensi dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c., depositati dalla Cgil e questo quando ancora non esiste, è solo in fase approvazione, il decreto del Ministero della giustizia che istituirà l’elenco pubblico delle organizzazioni e associazioni di cui agli articoli 840-bis c.p.c. e 196-ter disp. att. c.p.c. : di qui l’importanza pratica del quesito contenuto nel titolo di questo contributo.
In base alla nuova disciplina, le associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro possono proporre un’azione di accertamento delle responsabilità nei confronti di imprese o di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità a tutela di «diritti individuali omogenei» (art. 840-bis c.p.c.) ovvero un’azione inibitoria di atti e comportamenti posti in essere «in pregiudizio di una pluralità di individui o enti» (art. 840-sexiesdecies c.p.c.) andando ben oltre i limiti della condotta antisindacale. Si pensi, per fare un solo esempio, alla difficoltà che da sempre incontra la giurisprudenza nell’ammettere la legittimazione ad agire del sindacato per far valere la violazione della parte normativa del contratto collettivo. Alla luce degli artt. 840-bis e seguenti c.p.c., l’associazione sindacale agisce iure proprio, senza bisogno del consenso del lavoratore interessato, per tutelare interessi e diritti omogenei riferibili ad una pluralità di lavoratori che assume di essere in grado di tutelare e rappresentare «adeguatamente» (cfr. art. 840-ter, co. 3, lett. d).
Se l’azione collettiva risarcitoria solleva numerosi dubbi applicativi, l’azione collettiva inibitoria è apparsa al sindacato di grande interesse sin da subito poiché costituisce una sorta di equivalente funzionale della condotta antisindacale e della discriminazione collettiva ed è caratterizzata da un vasto ambito di applicazione. Nonostante la diversità delle situazioni giuridiche tutelate, essa consente di raggiungere il medesimo risultato pratico in un numero potenzialmente ampio di casi e, in particolare, di ottenere ordini di cessazione di condotte ritenute lesive di una pluralità di interessi omogenei e di rimozione degli effetti pregiudizievoli, il tutto accompagnato dalla possibilità di avvalersi della prova statistica, delle presunzioni semplici e, specialmente, di accedere finalmente all’art. 614-bis c.p.c. che opera espressamente «anche fuori dai casi ivi previsti» (art. 840-sexiesdecies c.p.c.).
Nelle prime due vertenze, l’art. 840 sexiesdecies c.p.c. è stato così impiegato dalla Cgil contro Roma Capitale, per rimettere in discussione una procedura di appalto pubblico , e nei confronti di Deliveroo, a tutela dei riders, per ottenere un ordine generale di cessazione della condotta del committente/datore di lavoro consistente nella «pervicace ed illegittima applicazione del CCNL UGL Rider e nel mancato riconoscimento degli istituti propri della contrattazione collettiva applicabile ex lege» .
Specialmente nel ricorso proposto contro Deliveroo, emerge il problema di delimitare l’ambito di applicazione dell’art. 840-sexiesdecies in rapporto alla condotta antisindacale e alla discriminazione collettiva (v. infra § 4). L’azione collettiva inibitoria ha, infatti, per espressa previsione di legge, un carattere residuale (v. art. 840-sexiesdecies, co. 10).
Tuttavia, la prima e più importante questione da affrontare è se il sindacato possa accedere al nuovo istituto processuale e, in caso di risposta positiva, se possa farlo anche a prescindere dall’iscrizione nel pubblico elenco che verrà a breve istituito presso il Ministero della giustizia.
Con riferimento al primo quesito, lo schema di decreto ministeriale «recante regolamento in materia di disciplina dell’elenco pubblico delle organizzazioni e associazioni di cui agli articoli 840-bis del codice di procedura civile e 196-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile» ha ingenerato non poca confusione e allarme tra i sindacati e gli esperti della materia. Infatti, all’art. 1, co. 2, lett. c è contenuta un prima definizione di «organizzazioni e associazioni» che fa integralmente riferimento all’art. 4 del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore) con esclusione delle «imprese sociali incluse le cooperative sociali». In base a tale disposizione normativa «sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore». Vanno escluse, come visto, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, per espressa disposizione di legge. Ma vanno esclusi anche i sindacati che, insieme alle «altre associazioni professionali e di rappresentanza delle categorie economiche», restano fuori dalla nozione di «enti del terzo settore» in base all’art. 4, co. 2. Dunque, non potranno chiedere l’iscrizione nel pubblico elenco i sindacati ma anche le altre associazioni professionali di rappresentanza delle categorie economiche ivi comprese, almeno in linea teorica, le associazioni dei consumatori e degli imprenditori anche piccoli. Anche i «consumatori» sono infatti una categoria economica, portatrice di interessi di natura patrimoniale e non patrimoniale.
Un vero paradosso che sottende probabilmente un equivoco di fondo: si fa coincidere la nozione di organizzazione e associazione «senza scopo di lucro» con quella di «enti del terzo settore» che, per definizione, svolgono attività di interesse generale per il perseguimento di finalità non di lucro specificamente enunciate dal legislatore: finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale. Così, potrebbero chiedere ed ottenere l’iscrizione, in quanto enti del terzo settore, organizzazioni come Amnesty International, sezione italiana, che per statuto svolge «attività di interesse generale aventi ad oggetto la promozione e la tutela dei diritti umani civili, sociali e politici di ogni persona» così perseguendo «finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale» o Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) che svolge «attività di promozione sociale» degli immigrati, entrambe molto attive nel campo della tutela giudiziale dei diritti fondamentali dei lavoratori ; resterebbe invece escluso il sindacato. Ma è ragionevole e giustificabile, in una prospettiva di politica del diritto, consentire l’accesso al nuovo istituto processuale a valenza generale ad Amnesty, Asgi e altre ONG e non al sindacato? E quali ripercussioni questa scelta potrebbe avere sul ruolo e sulla funzione di rilievo costituzionale svolta da quest’ultimo?
Nei pareri chiesti al Consiglio di Stato e alle Commissioni bilancio, industria, commercio e turismo questo aspetto non è emerso né è stato affrontato. È chiaro dalla lettura dell’analisi tecnico-normativa dello schema di decreto, che non era certamente nelle intenzioni dei suoi estensori escludere le associazioni dei consumatori. Così, nella presentazione del decreto, si legge che per «“organizzazioni” e “associazioni” si intendono gli enti del terzo settore – individuati dall’art. 4 del d.lgs. n. 117 del 2017 – diversi dalle imprese sociali incluse le cooperative sociali, i cui obiettivi statutari comprendono la tutela di diritti individuali omogenei». Nel prosieguo è specificato però che «ai fini della prima costituzione, sono incluse nell’elenco le associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale che, al momento dell’entrata in vigore del decreto risultano iscritte nell’elenco di cui all’art. 137 del c.d. Codice del consumo». Il testo è stato poi trasfuso nell’art. 2, co. 4 dello Schema di decreto con la conseguenza che il rinvio definitorio alla nozione di enti del terzo settore non vale per le associazioni dei consumatori o, per lo meno, per quelle che già risultavano iscritte nell’apposito elenco. Resta invece la sorprendente esclusione delle associazioni rappresentative di interessi di altre categorie economiche, come i sindacati e le associazioni imprenditori e piccoli imprenditori.
Il dato normativo non sembra giustificare una simile restrizione laddove si limita a fare riferimento all’assenza di scopo di lucro mentre definisce in termini assai ampi il bene giuridico tutelato, «diritti individuali omogenei». Con specifico riferimento al sindacato, nella memoria depositata da Roma Capitale nel primo ricorso pubblicato nel sito del Ministero della giustizia si legge che gli istituti introdotti dall’art. 840-bis e seguenti, «benchè diretti ad ampliare la sfera di applicazione dell’azione di classe come era configurata nel codice di consumo, sono comunque rivolti a tutelare l’utenza in senso lato, quindi chi usufruisce dell’attività di impresa (fornitrice di beni e servizi) e l’utenza di servizi pubblici o di pubblica utilità, ai quali non erano certo riconducibili i dipendenti del soggetto giuridico che contribuiva alla erogazione del servizio» . La questione non viene poi affrontata dal Tribunale. Tuttavia, sembra difficile continuare a negare al sindacato e al diritto del lavoro più in generale – si pensi alla vicenda dell’art. 614-bis c.p.c. – l’accesso agli strumenti processuali più innovativi, a vocazione chiaramente generale , senza ledere gli articoli 39 e 24 della Costituzione. Il diritto del sindacato di svolgere anche nel processo la propria funzione, di rilievo costituzionale, di selezione, organizzazione e tutela degli interessi collettivi deriva infatti dall’art. 24 come pure dall’art. 3 della Costituzione. In un contesto caratterizzato dall’aumento delle disuguaglianze quale conseguenza della crescita del labour market power delle imprese nel mercato globale, il processo collettivo si candida a strumento di riequilibrio e di eguaglianza ulteriore e complementare rispetto a quelli della contrattazione collettiva, dello sciopero e della disciplina della concorrenza .
Tracce di questa impostazione si rinvengono nella giurisprudenza del Tribunal Constitucional spagnolo per il quale consentire al sindacato di tutelare nel processo gli intereses colectivos de los trabajadores (v. artt. 7 e 28 CE) discende dal principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24, co. 1, della Costituzione spagnola . Al sindacato deve cioè essere garantita la possibilità di esercizio effettivo delle proprie funzioni di difesa e promozione degli interessi economici e sociali dei lavoratori anche in giudizio. L’unico limite è costituito dall’esigenza per il giudice di accertare la sussistenza di una connessione o di un collegamento chiaro fra l’organizzazione sindacale ricorrente e la pretesa fatta valere .
Superato questo dubbio iniziale, i requisiti previsti per l’iscrizione ricalcano largamente l’art. 196 disp. att. c.p.c., come modificato dalla l. n. 31 del 2019, e comprendono «la verifica delle finalità programmatiche, dell’adeguatezza a rappresentare e tutelare i diritti omogenei azionati e dalla stabilità e continuità delle associazioni e delle organizzazioni stesse, nonché la verifica delle fonti di finanziamento utilizzate». Si introduce nella legge un concetto di «adeguata rappresentatività» da intendersi probabilmente in senso sostanziale, non solo formale, come effettivo svolgimento di attività diretta alla tutela dei diritti e degli interessi individuali omogenei di cui l’ente si assume portatore ed interprete. Per il sindacato il problema maggiore è costituito dai requisiti di trasparenza sulle fonti di finanziamento e sull’amministrazione e la contabilità. L’art. 3 dello schema di decreto prevede l’obbligo di pubblicazione annuale del bilancio e la sua revisione ad opera di terzi. Si tratta di obblighi da sempre poco graditi al sindacato il cui lato economico-patrimoniale è rimasto in ombra, nonostante si registri una crescente attenzione, anche in chiava comparata, verso il sistema di finanziamento e accountability .

2. (Segue) L’iscrizione nel pubblico elenco è un requisito davvero necessario?

La proposizione di già due azioni collettive inibitorie obbliga a chiedersi se l’iscrizione nel pubblico elenco sia davvero necessaria per il sindacato. E’ vero che la legge e lo schema di decreto sembrano considerarlo un presupposto imprescindibile , ma è altrettanto vero che gli estensori non hanno fatto i conti con la specificità delle organizzazioni sindacali e, specialmente, delle grandi confederazioni. Difficile dubitare del fatto che un sindacato storicamente affermatosi nella storia del paese non persegua stabilmente e continuativamente attività volta alla tutela dei diritti e degli interessi individuali omogenei dei lavoratori mentre certamente resta, come detto, più in ombra il lato economico-patrimoniale. Come è possibile condizionare l’esercizio dell’azione collettiva in giudizio ad un’autorizzazione ministeriale?
In questo senso, è stato osservato che la legge, se compie un passo avanti svincolando finalmente il potere delle associazioni e organizzazioni di proporre domanda solo su delega o mandato del singolo membro della classe, ne compie uno deciso indietro «sul piano dell’accesso alla tutela giurisdizionale, poiché condiziona l’esercizio dell’azione ad un previo riconoscimento amministrativo» . Se, come visto, la possibilità del sindacato di scegliere di svolgere in giudizio la propria funzione di tutela collettiva può discendere da una lettura combinata degli articoli 39, 3 e 24 Cost., condizionare tale scelta ad una previa autorizzazione amministrativa può sollevare dubbi di costituzionalità. Soprattutto se si considera che, come si vedrà nel successivo paragrafo, l’iscrizione non può ritenersi in ogni caso un requisito sufficiente; sembra infatti utile mantenere il filtro del giudice chiamato ad accertare la legittimazione e l’interesse ad agire dell’associazione sindacale caso per caso, verificandone l’adeguata capacità in concreto di tutelare i diritti e gli interessi di cui si assume interprete e portatore.
Tornando alla necessità o meno dell’iscrizione, va segnalata un’interessante pronuncia del Tribunale di Milano del 26 luglio del 2020. Il caso è piuttosto complesso e riguarda una discriminazione collettiva per ragioni di razza e nazionalità che aveva visto l’azione congiunta di Asgi e della Cgil in base rispettivamente all’art. 5 del d.lgs. n. 215 del 2003, che attribuisce la legittimazione ad agire solamente al«le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità», e agli artt. 43 e 44 del TU sull’immigrazione che, viceversa, considerano legittimate ad agire le «rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale». Al di là della caotica e assai poco razionale frammentazione della legittimazione ad agire in via collettiva nella disciplina antidiscriminatoria, la sentenza del Tribunale di Milano si segnala laddove ritiene che anche il sindacato possa agire ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 215 del 2003, a prescindere dalla sua formale iscrizione negli elenchi poiché, anche in assenza di tale formale requisito, essa «può ritenersi senz’altro portatrice di un interesse collettivo consistente nella rimozione di ostacoli sociali ed economici, che impediscono ai lavoratori stranieri di poter esercitare le proprie scelte di vita». Si tratta di un’affermazione interessante che ben potrebbe essere impiegata anche in materia di azione di classe.
Con un ragionamento speculare anche la Corte di cassazione ha riconosciuto la legittimazione ad agire di Asgi in un caso di discriminazione collettiva fondata sulla nazionalità, in base agli artt. 43 e 44 TU immigrazione, affermando, da un lato, che la legittimazione ad agire degli enti collettivi contro la discriminazione collettiva deve considerarsi la regola e non l’eccezione e, dall’altro lato, che ritenere Asgi legittimata ad agire per la discriminazione basata su razza ed etnia e non sulla nazionalità sarebbe illogico e solleverebbe diversi dubbi di costituzionalità, in base agli artt. 3 e 24 Cost., oltre a porsi in contrasto con il principio di effettività valevole nell’ambito del diritto unionale .

3. (Segue) L’iscrizione nel pubblico elenco è un requisito sufficiente?

La seconda domanda è se l’iscrizione nel pubblico elenco sia un requisito sufficiente. La risposta positiva potrebbe ricavarsi dall’art. 840-ter c.p.c. ritenendo che la verifica del giudice circa la capacità di curare adeguatamente i diritti fatti valere valga solo quando a proporre il ricorso sia un membro della classe e non un’organizzazione o una associazione. Dunque, con l’iscrizione nel pubblico elenco il giudice verrebbe esonerato da tale verifica.
E’ questa una soluzione interpretativa che non convince per diverse ragioni che proprio l’esperienza del diritto del lavoro contribuisce a mettere in evidenza. Occorre anzitutto intendersi sul significato del requisito della adeguata capacità di cura dei diritti e degli interessi fatti valere. Esso non è se non una particolare declinazione del concetto di «rappresentatività» che, in ambito processuale, assurge a criterio selettivo degli enti collettivi legittimati ad agire in giudizio pur in assenza di personalità giuridica.
Così, nel diritto amministrativo è stato ormai definitivamente chiarito che gli enti collettivi possono agire a tutela di «interessi collettivi» anche in assenza di specifiche disposizioni di legge o di personalità giuridica . Il riconoscimento della legittimazione ad agire a tutela di interessi collettivi delle associazioni sindacali si fonda proprio sul concetto di rappresentatività che sostituisce e compensa l’assenza di personalità giuridica . Una rappresentatività rispetto agli interessi azionati da valutarsi caso per caso, sulla base di indici sia quantitativi che qualitativi .
Del pari, nel diritto penale è ormai pacificamente ammesso che le organizzazioni e le associazioni anche prive della personalità giuridica si possano costituire parte civile nel processo penale, ai sensi dell’art. 74 c.p.p., dimostrando di aver subito un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale come conseguenza immediata e diretta del reato, a prescindere dalla titolarità sostanziale del bene giuridico tutelato dalla norma penale violata. Tale pregiudizio si verifica quando l’ente è in grado di dimostrare che l’interesse leso dall’illecito penale coincide con lo scopo perseguito in via stabile e prevalente dallo stesso allegando indici formali (lo statuto) e sostanziali. In particolare, «l’ente deve aver svolto un’attività concreta e continuativa per il perseguimento dell’interesse che ne costituisce lo scopo statutario» e deve altresì dimostrare di avere una «forma di collegamento territoriale con il luogo in cui l’interesse è stato inciso in modo pregiudizievole» .
Così la Cgil, nelle sue diverse articolazioni anche territoriali, si è costituita come parte civile in alcuni processi penali dall’elevato valore simbolico come il disastro ferroviario di Viareggio e Pioltello , a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, e il caso Uber Eats, Flesh Road City, contro il caporalato e lo sfruttamento del lavoro specialmente degli immigrati . Interessante anche la sentenza del Tribunale di Brescia, relativa ad un’esplosione in uno stabilimento che causò la morte di alcuni lavoratori, in cui viene riconosciuta la legittimazione a costituirsi come parte civile di Cgil e Fiom per il forte radicamento nel territorio e per l’attività svolta a tutela della sicurezza dei lavoratori bresciani; «da ciò deriva» afferma il Giudice «l’identificazione del loro interesse con quello leso dai reati posti in essere e la qualificazione della loro posizione in termini di diritto soggettivo» .
È evidente una qualche forzatura : l’ente non è il titolare sostanziale dell’interesse leso ma l’interprete e il portatore. Come nel diritto antidiscriminatorio, dove è pacificamente riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale dell’ente collettivo che agisca iure proprio in assenza di vittime identificate o identificabili, la capacità di quest’ultimo di rappresentare adeguatamente l’interesse leso si trasforma in titolarità sostanziale . Ma ciò che in questa sede preme rilevare è il carattere fondamentale che riveste in tutti questi casi il filtro del giudice tenuto a valutare la rappresentatività in concreto dell’ente collettivo al fine di ammetterne la legittimazione a costituirsi parte civile.
Anche l’esperienza del diritto del lavoro mostra l’importanza di mantenere tale filtro. Infatti, dinanzi alla crisi dell’ordinamento intersindacale (su cui infra § 4), la “battaglia vertenziale” può essere utilizzata dal sindacato come veicolo di accreditamento al fine di ristabilire la propria credibilità e il proprio ruolo agli occhi dei lavoratori e della pubblica opinione; questo non vale solo per le grandi Confederazioni sindacali, come la Cgil, ma anche e specialmente per le sigle sindacali minori come dimostra l’esperienza dello sciopero nei servizi pubblici essenziali . Sigle sindacali poco rappresentative che potrebbero non faticare ad ottenere l’iscrizione nel pubblico elenco – una volta superati tutti i dubbi e i problemi interpretativi citati – per poi instaurare una serie di vertenze a valore simbolico e strategico, a tutela di diritti e interessi dei lavoratori con i quali non hanno un reale ed effettivo collegamento. Di qui l’importanza di mantenere filtri selettivi ancorati al concetto di rappresentatività effettiva o in concreto, da valutarsi caso per caso attraverso la mediazione del giudice.

 

4. Perché la legge n. 31 del 2019 interessa il sindacato: il processo come strumento di azione sindacale e il carattere residuale dell’azione collettiva inibitoria.

I ricorsi depositati dalla Cgil ancor prima dell’istituzione del pubblico elenco dimostrano come la legge n. 31 del 2019 interessi il sindacato prima e forse più delle altre associazioni e organizzazioni. Per gli studiosi di diritto del lavoro non è un fatto sorprendente. Nell’ultimo decennio, la cosiddetta crisi del sistema sindacale “di fatto” si è tradotta nella crescente difficoltà dei grandi sindacati confederali e specialmente della Cgil di vedere riconosciuti dalle imprese il proprio ruolo e le proprie prerogative all’interno dell’ordinamento intersindacale, spingendo quest’ultima ad utilizzare il processo come strumento alternativo di autotutela collettiva . Un cambiamento di prospettiva epocale rispetto a quando Giorgio Ghezzi, nel suo libro del 1981 ripubblicato da Ediesse nel 2012, raccontava della vicenda del licenziamento «dei 61» ad opera della Fiat, provata da un decennio di violento conflitto e della combattuta scelta della Cgil di optare per l’utilizzo dello strumento del processo (l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori); la paura di fondo era, tuttavia, che questo si rivelasse un boomerang e che sotto accusa finisse il sindacato stesso e il suo modo di lottare . Il titolo del libro «Processo al sindacato» esprime perfettamente il dilemma e il timore del sindacato.
Oggi, invece, la Cgil considera il processo e la strategic litigation un modo di lottare e combattere le disuguaglianze diverso e spesso più efficace dinanzi ad imprese che, anche grazie alla spinta e alle opportunità offerte dalla globalizzazione, non riconoscono più le regole e le prassi dell’ordinamento intersindacale astretto nei confini nazionali. Una strategia che, invero, ha dato ottimi risultati come dimostrano tre emblematiche vicende degli ultimi anni: il caso Fiat , il caso Ryanair e, da ultimo, il caso Deliveroo/Assodelivery .
Il filo rosso di queste tre vicende è rappresentato dall’indisponibilità, diversamente manifestata, da tre grandi multinazionali ad avviare un confronto negoziale con un sindacato pur dotato di evidente rappresentatività all’interno della categoria e/o del luogo di lavoro, mettendo in atto strategie di union avoidance e dalla conseguente scelta della Cgil di tutelarsi all’interno dell’ordinamento statuale, ricorrendo al giudice anziché agli strumenti tipici dell’ordinamento intersindacale come lo sciopero. L’azione giudiziale del sindacato si è fondata in tutti i casi considerati sia sull’art. 28 Stat. Lav. sia sull’art. 5, d.lgs. n. 216 del 2003 in materia di discriminazione collettiva. Se attraverso l’art. 28 Stat. Lav., il sindacato è ricorso al giudice per tutelare le proprie prerogative e la propria credibilità agli occhi dei lavoratori, con l’innovativo strumento della discriminazione collettiva per convinzioni personali, inclusive secondo la giurisprudenza delle opinioni sindacali , esso ha agito per tutelare gli interessi e i diritti individuali omogenei dei lavoratori discriminati in ragione dell’appartenenza al sindacato o dell’esercizio dei diritti sindacali: diritti e interessi che corrispondono altresì ad un interesse pubblico generale rilevante per la collettività nel suo insieme, l’interesse al «corretto e buon funzionamento del mercato del lavoro nel complesso, a cui concorre il leale e corretto svolgimento delle relazioni sindacali, e il conseguimento di obiettivi di politica sociale» .
Più specificamente, nel caso Fiat, la Cgil ha agito per tutelare i propri iscritti in larga parte esclusi dalla procedura di riassunzione presso il nuovo stabilimento ; nei casi Ryanair e Deliveroo la Cgil ha denunciato la natura discriminatoria rispettivamente della c.d. «clausola collarino» e dell’algoritmo «cieco» Frank, il cui effetto pratico era quello di inibire l’esercizio dei diritti sindacali e, in particolare, il diritto di sciopero.
I due strumenti processuali consentono al sindacato di arrivare allo stesso risultato pratico: ordine di cessazione del comportamento e rimozione degli effetti e, nel caso della discriminazione, condanna al risarcimento del danno non patrimoniale ex lege; le situazioni giuridiche tutelate sono però del tutto diverse. Come chiarito dalla Corte di cassazione, in un ricorso per condotta antisindacale proposto da Slai-Cobas contro la Fiat che aveva trasferito 316 lavoratori in uno stabilimento sito a 20 chilometri di distanza dal primo, 77 dei quali iscritti a Slai-Cobas, «il procedimento ex art. 28 S.L. è riservato ai casi in cui venga in questione la tutela dell’interesse collettivo del sindacato al libero esercizio delle sue prerogative, interesse che è distinto ed autonomo rispetto a quello dei singoli lavoratori»; per contro, nel caso della discriminazione collettiva, le organizzazioni sindacali agiscono per far valere il danno di «un gruppo di lavoratori identificati dall’appartenenza sindacale» . In altri termini, mentre l’art. 28 Stat. Lav. è uno strumento con il quale il sindacato tutela diritti di cui e direttamente titolare, nel rispetto del principio della coincidenza tra titolarità del diritto e titolarità dell’azione, la discriminazione collettiva rappresenta un’ipotesi di dissociazione tra questi due elementi poiché il sindacato agisce o come sostituto processuale a tutela di diritti individuali omogenei di lavoratori o come ente esponenziale rappresentativo di un interesse plurimo individuale che assume altresì rilevanza generale: l’interesse al rispetto della normativa antidiscriminatoria a sua volta funzionale al corretto funzionamento del mercato e al perseguimento di obiettivi sociali.
La l. n. 31 del 2019 è riconducibile a quest’ultima prospettiva e si candida, come visto, ad offrire al sindacato strumenti processuali che consentano di superare i limiti e le ambiguità della condotta antisindacale e della discriminazione collettiva. Di qui l’importanza di chiarire i rapporti di sovrapposizione e intersezione tra le diverse fattispecie partendo dalla constatazione che l’azione collettiva inibitoria ha, per espressa disposizione di legge, carattere residuale.
Rispetto alla discriminazione collettiva, a fronte dell’identità delle situazioni giuridiche tutelate (diritti e interessi individuali omogenei), la sovrapposizione appare evidente come pure il carattere di specialità della prima rispetto all’azione collettiva inibitoria. Così che quando la condotta dell’impresa o dell’ente erogatore di pubblici servizi appaia connotata da carattere discriminatorio, il sindacato dovrà avvalersi dello speciale strumento predisposto dall’ordinamento e non dell’azione collettiva inibitoria. Tuttavia, la legittimazione ad agire nel diritto antidiscriminatorio costituisce ad oggi un mosaico di difficile ricomposizione. Così, ad esempio, il sindacato può agire quando la discriminazione si fondi su disabilità, convinzioni personali (inclusive dei motivi sindacali), orientamento sessuale, in base all’art. 5, d.lgs. n. 216 del 2003, sulla nazionalità, in base agli artt. 43-44 TU immigrazione, ma non sul genere, poiché in tale caso la legittimazione spetta unicamente alla Consigliera di parità (v. art. 37, TU pari opportunità), o sulla razza, per cui la legittimazione è attribuita ad enti iscritti in appositi elenchi ministeriali (v. art. 5, d.lgs. n. 215 del 2003). La diversità tra i requisiti selettivi individuati da tali disposizioni normative rasenta, a tratti, l’illogicità. Perché un’organizzazione sindacale o una ONG non può agire in giudizio contro le discriminazioni di genere? Perché un’organizzazione sindacale può agire contro le discriminazioni per nazionalità (art. 44 del TU sull’immigrazione) ma non contro le discriminazioni per razza o origine etnica senza essere prima iscritta nell’elenco apposito (art. 5, d.lgs. n. 215 del 2003)? E, per contro, perché una ONG può agire in quest’ultima ipotesi e non nella prima? Perché per agire contro le discriminazioni razziali occorre l’iscrizione in un apposito elenco e, invece, nelle altre ipotesi di discriminazione per religione, disabilità, età, convinzioni personali basta la «rappresentatività» rispetto all’interesse o il diritto leso?
In assenza di un auspicato intervento legislativo di razionalizzazione, il sindacato potrebbe dunque utilizzare l’azione collettiva inibitoria per colmare il vuoto e l’incoerenza del dato normativo, intentando azioni giudiziarie contro comportamenti discriminatori fondati, ad esempio, sul genere, in concorso con la Consigliera di parità, ed ottenendo per tale via l’accesso allo speciale strumento di cui all’art. 614-bis c.p.c.
In linea teorica, non esiste invece un problema di sovrapposizione tra condotta antisindacale e azione collettiva inibitoria a fronte della diversità delle situazioni giuridiche tutelate: diritti e prerogative di cui il sindacato è titolare sostanziale, nella prima fattispecie, diritti e interessi individuali omogenei di cui il sindacato è portatore e interprete, ente esponenziale, ma non titolare sostanziale, nella seconda. È però facile immaginare che, come già avvenuto nei rapporti tra condotta antisindacale e discriminazione collettiva, nel caso di illeciti plurioffensivi il sindacato si troverà ad avere l’«imbarazzo della scelta» potendo instaurare contemporaneamente due giudizi che mantengono un diverso petitum e una diversa causa petendi.

 

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