Testro integrale con note e bibliografia

1. Art. 39, comma 1, Cost.: quando la libertà può divenire abuso
Il 13° report periodico dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro vigenti depositati nell’Archivio CNEL del giugno 2021, aggiornato al novembre 2021, fornisce un dato impressionante: 933 contratti collettivi di categoria per il settore privato. Ebbene, l’esorbitante numero di accordi può suscitare, almeno, due impressioni eguali e contrarie. La prima è data dallo stupore del perfetto funzionamento dell’art. 39, comma 1, Cost.: vale a dire la piena realizzazione della libertà sindacale sotto il profilo dell’autonomia contrattuale collettiva. La seconda è data egualmente dallo stupore, stavolta però in senso negativo, per il troppo elevato numero di fonti collettive atte a regolare i rapporti di lavoro nelle varie categorie, spesso non sotto l’egida del principio del favor .
Passando dalla sfera sensoriale a quella giuridica, occorre constatare che mentre la prima reazione ha fonte normativa, basandosi cioè su uno ius positum che l’ordinamento riconosce ai soggetti sindacali; la seconda, invece, non gode, almeno nel sistema oggi vigente, di altrettanta base legale e, dunque, questo secondo profilo può affrontarsi solo in una prospettiva de iure condendo; visto che alla libertà sindacale il legislatore ha ritenuto, finora, di non porre limiti specifici.
Non ci si può, quindi, stupire se nell’ordinamento ci siano tanti sindacati quanti se ne vogliano costituire e che, conseguentemente, ci siano tanti contratti collettivi quanti se ne vogliano concludere: non essendo altro questo, se non l’effetto diretto della libertà sindacale costituzionalmente prevista. Anzi, in tal modo, si potrebbe dire che si attui non solo una piena realizzazione del principio cardine del diritto sindacale, bensì anche la possibilità, per i datori di lavoro non iscritti ad associazioni datoriali, di una “pluralità di scelta” circa il contratto collettivo da applicare nei contesti produttivi. Questa pluralità non dovrebbe, in astratto, assumere connotati negativi poiché potrebbe generare un effetto concorrenziale positivo tra le fonti collettive e, dunque, la possibilità di una maggiore offerta qualitativa delle regole che devono guidare i rapporti di lavoro nei vari contesti produttivi. In tal senso, quindi, alla pluralità dei contratti corrisponderebbe un incremento delle tutele del lavoro.
Sennonché la concorrenza perfetta che si potrebbe realizzare con la libertà sindacale, non pare presentare, da un punto di vista dei contenuti, ossia delle tutele che il contratto collettivo è chiamato ad assicurare, quella perfezione economica che descrive il prezzo come capace di realizzare il massimo benessere dei consumatori. Penso che un esempio possa rendere emblematico quanto si sta dicendo .
Nel settore dei meccanici, per il medesimo livello di inquadramento D2, il minimo tabellare dal 1 giugno 2021 sancito dall’Accordo sulla classificazione del personale stipulato il 3 maggio 2021 da FEDERMECCANICA, ASSISTAL, FIM CISL, FIOM CGIL e UILM UIL è pari ad euro 1.651,07; quello sancito dal CCNL per Metalmeccanica stipulato l’8 gennaio 2021 da FEDERPARTITEIVA e FID dal 1° ottobre 2021 è pari ad euro 910,00. Direi che risulta abbastanza evidente la differenza quantitativa tra i due importi retributivi.
Si ricordi, però, che la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. viene rimessa, appunto, alla contrattazione collettiva e, dunque, malgrado l’evidente disallineamento tra i due minimi tabellari, deve ritenersi che tale cifra sia frutto della trattativa e dell’accordo raggiunto tra le parti collettive . Nell’ambito dell’autonomia contrattuale non è, così, possibile incidere su tale aspetto poiché occorrerebbero delle norme inderogabili atte a limitare la capacità dispositiva delle parti. Capacità che proprio l’art. 39, comma 1, Cost. è finalizzato a proteggere .
Sembra, dunque, verificarsi un “corto circuito” tra libertà sindacale ed autonomia contrattuale , laddove si venga a creare una “concorrenza al ribasso” in merito ai trattamenti da corrispondere ai lavoratori . Va notato, inoltre, che può generarsi anche un fenomeno di concorrenza sleale tra imprese: laddove alcune utilizzino lo “scudo” del contratto collettivo per ridurre il costo del lavoro, danneggiando, così, il fair play.
Come arginare, allora, questa tipologia di dumping ad ordinamento vigente? La via intrapresa dal legislatore e dalle parti sociali è stata quella della rappresentatività.

2. Limite “apparente” e conforme a Costituzione: la rappresentatività sindacale
La rappresentatività sindacale appare, ad oggi, l’unico limite che la libertà sindacale sembra incontrare. Limite che non incide sull’an, bensì sul quomodo e, come tale, non soggiace alla scure di incostituzionalità. La selezione che viene, infatti, operata tramite tale parametro non inibisce l’organizzazione e l’attività sindacale a priori ai soggetti non dotati di rappresentatività maggiore o comparativa , poiché se così fosse nessun soggetto avrebbe la possibilità di raggiungerne una tal soglia, bensì incide su alcuni ambiti specifici definiti dal legislatore (si pensi ai rinvii del d.lgs. 15 giungo 2015, n. 81 ), limitando solo per tale prospettiva la possibilità d’intervento. Di guisa che il soggetto sindacale che non sia comparativamente più rappresentativo al momento, non è escluso che possa diventarlo, per il tramite della propria attività, in un tempo successivo.
La rappresentatività è, dunque, un criterio dinamico e che, senza dubbio, richiede, al fine di svolgere al meglio la sua funzione, una misurazione. Misurazione che sembra, però, impossibile a realizzarsi per almeno due ordini di ragioni: 1) la mancanza di criteri legali di misurazione; 2) la ritrosia delle parti sociali, che vedono, forse, nella stessa un tentativo di controllo esterno.
Quanto alla prima, il legislatore non ha mai definito giuridicamente la rappresentatività che, dunque, ad oggi è per l’interprete un qualcosa di “ignoto”. La giurisprudenza ha supplito a tale mancanza, ma ciò né esclude che manchi una definizione legale della rappresentatività né esime il legislatore dal definire la soglia di misurazione dei criteri giurisprudenziali. Si pensi, ad esempio, alla consistenza numerica degli iscritti: quale soglia è tale da identificare la consistenza come significativa? Cento iscritti? Mille? Diecimila? Od ancora, il criterio della diffusione territoriale o quello della intercategorialità: bastano due province od occorrono più regioni? In quante categorie deve operare il sindacato: due, tre? Appare, a mio avviso, evidente, allora, che non possa rimettersi all’interpretazione la supplenza non solo di parametri chiari e certi, ma, soprattutto, della soglia minima che consenta l’accesso ai vari gradi della rappresentatività. L’interpretazione sarebbe, qui, puramente creativa, secondo il noto brocardo: ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit.
Ma all’accertamento del grado di rappresentatività dei soggetti sindacali hanno dedicato (almeno idealmente) energie anche le parti sociali per la delineazione di un sistema di misurazione certificata dapprima con l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e, poi, con il Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014. In estrema sintesi, si prevede, per ciascun contratto collettivo di categoria, la ponderazione del dato associativo (deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori) e del dato elettorale (voti espressi), ottenuto in occasione dell’elezione delle rappresentanze sindacali unitarie, delle organizzazioni sindacali; stabilendo, inoltre, una soglia minima di rappresentatività per la partecipazione al sistema della contrattazione pari al 5%.
Sennonché, a quasi otto anni dalla loro stipulazione , tali regole continuano a permanere quali “lettera morta” e, dunque, anche la supplenza dell’ordinamento intersindacale non sembra aver prodotto i frutti sperati . Occorre, allora, constatare che la rappresentatività, ad oggi, non è ancora né misurata, perché il sistema del Testo unico è rimasto inattuato, né misurabile, perché in assenza di interventi legislativi manca il precetto che la impone e soprattutto i parametri di calcolo . Tutto si basa, quindi, su una presunzione iuris tantum in quanto la rappresentatività maggiore o comparata continua ad essere qualcosa di astruso dall’empirismo di cui necessita per avere, realmente, il connotato di qualità soggettiva delle organizzazioni sindacali e di limite effettivo. Anche le norme che vi si riferiscono ed i contratti collettivi che le attuano non hanno, così, (almeno ufficialmente) un riscontro certo : nessuno, ad oggi, può garantire che un’organizzazione sindacale sia realmente o meno rappresentativa, sia nella declinazione maggioritaria che in quella comparativa, poiché manca la misura e la misurazione .
Va dato conto, però, alla luce dei dati CNEL diffusi il 6 dicembre u.s. , a seguito del confronto con il flusso informativo UNIEMENS dell’INPS , che – si badi, in termini di applicazione: quindi, de facto e non de iure – dei 933 contratti censiti, i primi 54 contratti «maggiormente applicati» coprono il 75% dei lavoratori ed i restanti 879 il 25%. Tale dato è sicuramente esemplificativo e può ben portare ad integrare ulteriormente il connotato della rappresentatività (ad esempio, qualificando come maggiormente rappresentativi i sindacati firmatari dei primi 54 contratti maggiormente applicati e, da tale qualificazione, muovendo, quindi, verso il carattere del comparativamente più rappresentativo), ma, anche qui, occorre una norma che renda la situazione di fatto vincolante per quella di diritto.

3. Primo e secondo principio della dinamica ed interventi del legislatore
La rappresentatività, almeno come è concepita oggi, non sembra arginare il problema del crescente numero di fonti collettive di categoria. Occorrono, dunque, almeno due interventi legislativi : il primo costituzionale, che intervenga sull’an; il seconda ordinario, che definisca e misuri la rappresentatività.
Ritengo utile, al fine di chiarire il perché della necessità di tali iniziative ad opera del legislatore, ricorrere (in tutta la mia superficiale conoscenza) ai primi due principi della dinamica o leggi di Newton.
Il primo principio afferma che «corpus omne perseverare in statu suo quiescendi vel movendi uniformiter in directum, nisi quatenus a viribus impressis cogitur statum illum mutare». Nel nostro caso, si potrebbe parafrasare in tal modo: qualsiasi sindacato è legittimato a contrarre, salvo che non sia previsto un limite a tale facoltà. Come detto, l’art. 39 Cost. pone nella libertà di organizzazione sindacale un principio così ampio da non poter privare alcuni soggetti dell’autonomia contrattuale né da vincolare altri all’applicazione di determinati contratti. Per far ciò, bisogna modificare la norma: abrogandone, ad esempio, i commi inattuati. Così facendo, si manterrebbe fermo il principio del pluralismo sindacale (anche nella sua declinazione contrattuale), ma non sarebbe più costituzionalmente posto il procedimento di efficacia generalizzata del contratto collettivo e, dunque, nella sua inattuazione, l’impossibilità di applicare i contratti collettivi stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a tutti gli appartenenti la categoria. Se si attuasse tale modifica, una legge ordinaria potrebbe operare in tale materia non più costituzionalmente regolata.
Come la prima legge di Newton, però, occorre una vis che induca una modifica allo stato di quiete e tale vis non può non essere che una legge di riforma costituzionale. Difficile da farsi? Forse, ma certamente non impossibile, se ci fosse una reale volontà della politica e delle parti sociali.
Affinché, però, la modifica dell’art. 39 Cost. produca i benefici sperati, occorre, parallelamente, una legge ordinaria sulla rappresentatività sindacale. Come détta, infatti, il secondo principio della dinamica: «mutationem motus proportionalem esse vi motrici impressae, et fieri secundum lineam rectam qua vis illa imprimitur». Sicché, se non si individua con certezza il limite della rappresentatività, il cambiamento non risulta proporzionale allo scopo perseguito . La legge dovrebbe, quindi, definire la rappresentatività, i parametri che il sindacato deve possedere per soddisfarla, la procedura di misurazione della stessa e, soprattutto, quando diviene condizione preclusiva per l’autonomia contrattuale. Non si tratta di limitare la libertà di organizzazione sindacale, bensì di limitarne la declinazione di autonomia contrattuale sulla base di una soglia di rappresentatività minima. Ovvero, ancor più semplicemente, si potrebbe estendere l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi conclusi da soggetti comparativamente più rappresentativi. Il cambiamento, appunto, è proporzionale all’impulso che il legislatore vorrà dare.
Non può, quindi, pretendersi alcun mutamento dello status quo, se non si esercita una “forza” (interconfederale o legislativa) effettiva atta a produrlo.

 

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