TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione
L’anno 2020 si è mostrato uno degli anni più impegnativi della storia recente, con il mondo intero che risponde e cerca di riprendersi dalle sfide sanitarie ed economiche poste dal Covid-19. La crisi da esso indotta arriva in una fase in cui il commercio internazionale è molto elevato e la concorrenza esterna è onnipresente in tutti i settori. Già la crisi finanziaria del 2008 aveva contribuito a frenare la crescita esponenziale della globalizzazione registrata nei decenni precedenti . La recente pandemia modifica di nuovo il quadro economico; le imprese dovranno affrontare sfide in un contesto di accresciuta incertezza nei mercati internazionali. Sfide che in un framework alquanto reticolato – come quello italiano – avranno un effetto nelle imprese differente in base alla struttura, all’organizzazione e alle diverse filiere . La frammentarietà e l’elevato numero di piccoli imprenditori rappresentano i tratti storici del nostro apparato produttivo . L’outsourcing, sia fuori dal Paese sia dentro i confini nazionali, spinge la produzione fuori dall’azienda madre verso fornitori esterni. Non sappiamo se il quadro di riferimento post pandemico possa mantenersi tale oppure se cambieranno le caratteristiche strutturali del sistema produttivo (e in quel caso, in che modo). Istituzioni, imprese e sindacati si stanno domandando quali possano essere gli strumenti più idonei per affrontare i cambiamenti che verranno nel sistema economico. In Italia, la fase più critica della crisi, perlomeno nel breve periodo, è stata superata attraverso l’uso di ammortizzatori sociali. Tuttavia, l’utilizzo massiccio di trattamenti di integrazione salariale registrato nuoce tutti: l’azienda, che paga un contributo per farne accesso, il lavoratore, che riceve un compenso mensile inferiore rispetto alla sua retribuzione, e le casse dello Stato, quindi l’intera cittadinanza. Gli attori in gioco dovranno allora individuare nuovi metodi per la gestione delle realtà produttive e dei lavoratori in una fase economica post pandemica.
2. Le esternalizzazioni nei periodi di crisi
Considerate le forti trasformazioni che caratterizzano le fasi successive di una crisi, la flessibilità del personale – intesa in termini di disponibilità dei lavoratori – diventa un elemento essenziale per la sopravvivenza di molte aziende. Talvolta, però, la flessibilità potrebbe non essere del tutto compatibile con le tutele e i diritti previsti dalla contrattazione collettiva del settore in cui l’azienda opera. Ci sono poi diversi fattori aziendali ad aver reso complessa la gestione della crisi. I costi fissi (es. costi degli impianti, macchinari o affitto degli stabilimenti), ad esempio, rappresentano quegli oneri che le aziende hanno abbattuto più difficilmente e per i quali hanno ricevuto un minore recupero. Come affermato dalla Commissione Europea il 13 ottobre 2020, «a causa della pandemia, molte imprese devono far temporaneamente fronte al problema della diminuzione della domanda che non consente loro di coprire parte dei costi fissi. In molti casi, si prevede che nei prossimi mesi la domanda riprenda vigore e d'altro canto per tali imprese un eventuale ridimensionamento potrebbe non essere un'opzione efficiente, se ciò comporta ingenti costi di ristrutturazione». In questo contesto, le imprese che si sono mostrate maggiormente resilienti al cambiamento sono state quelle con costi interni più bassi, a fronte di maggiori costi dei servizi. Questi ultimi, specie quelli esternalizzati, rispondono meglio alle ciclicità e agli eventi straordinari che può incontrare l’organizzazione aziendale. Le nuove sfide stanno inducendo le aziende a ripensare al giusto mix di risorse interne ed esterne nella gestione efficiente dei processi operativi essenziali. L’esternalizzazione delle fasi di produzione rappresenta un processo di trasformazione dei costi fissi in costi variabili che risponde alle fasi cicliche del mercato affrontandole nella maniera più dinamica possibile. Oltre che strumento di risposta, l’outsourcing viene spesso utilizzato anche nei momenti di crisi per “trasferire il problema” all’esterno. Secondo un’indagine Isfol svolta nel 2012, successiva alla crisi finanziaria del 2008, Enel avrebbe affermato che esternalizzare può evitare alle aziende di dover affrontare problemi gestionali importanti. Fenomeno riscontrato anche dalla Fiom Cgil che associa il ricorso a tali strumenti nei momenti di crisi alla riduzione dei costi e al contrasto dei cali del business. Ancora più in linea con l’attuale situazione la dichiarazione di Slc Cgil, secondo cui la crisi finanziaria avrebbe accelerato lo sviluppo di queste tendenze non permettendo un pronto intervento legislativo a supporto della regolamentazione del settore . Intervento che, a distanza di nove anni dall’indagine, non è ancora avvenuto né tantomeno è stato discusso. L’outsourcing offre allora alle imprese quella flessibilità che serve in tempi incerti . Secondo due dei maggiori studi di consulenza , i processi di esternalizzazione garantiscono la resilienza nelle attività operative e mantengono la continuità aziendale in situazioni in cui shock esterni (spesso imprevisti) hanno un impatto sia sulle aziende che sui loro fornitori di servizi.
I processi di esternalizzazione non si sviluppano in un determinato settore ma coinvolgono tutti i comparti produttivi, anche molto diversi tra loro, da quello pubblico a quello della carne , passando per la meccanica . Pur cambiando il settore, le pratiche manageriali risultano essere molto simili: l’applicazione di condizioni di lavoro differenziate – rinvenibili non solo nei bassi salari ma anche nella bassa sicurezza sul lavoro, accesso alla formazione, diritti, stabilità occupazionale – con cui i datori di lavoro possono aggirare i vincoli esistenti nel mercato del lavoro all’interno dei confini organizzativi attraverso l’utilizzo di lavoratori al di fuori di essi . Si può dedurre inoltre che le motivazioni che portano un’impresa ad esternalizzare un processo varino sulla base della tipologia di lavorazione che essa vuole commissionare. Le ragioni, in taluni casi, sono le medesime seppur si raffrontino aziende appartenenti a settori diversi. Ad esempio, l’attività della logistica – o meglio l’autotrasporto, il magazzinaggio e i servizi di consegna – spesso soggetta a esternalizzazione, rappresenta un puro fattore di costo e non di produzione di valore. Ciò è deducibile dal fatto che la logistica è caratterizzata da mansioni relativamente semplici e da forza lavoro altamente vulnerabile, nonché per il fatto che produzioni sempre più basate su modelli just-in-time, necessitino di tempi rapidi di reazione anche di fronte a imprevisti nella domanda di beni , ovvero necessitino di gestire quelle situazioni fluttuanti del mercato caratterizzate da picchi di attività spesso improvvisi e non programmabili. Prendendo a riferimento l’outsourcing dell’assistenza clienti, ciò permette all’azienda di concentrarsi più nelle attività strategiche e ridurre i costi, a fronte di un servizio al cliente differente rispetto all’assistenza svolta dal personale interno. Il ricorso a professionisti esterni, invece, non ha ragioni di abbattimento del costo bensì di utilizzo di professionalità non presenti internamente. Le motivazioni di fondo di esternalizzare un servizio si ravvisano dunque sul tipo di servizio che viene esternalizzato piuttosto che sul settore in cui l’azienda committente opera.
3 La “rinazionalizzazione” dei processi produttivi
La crisi derivante dalla pandemia da Covid-19, a differenza delle altre recenti crisi, è il risultato di un’azione pubblica di riduzione della mobilità delle persone e annessa chiusura di attività economiche. Ogni settore è stato colpito dalla pandemia poiché essa ha generato effetti sull’intera catena. Si è mostrato che dopo la crisi finanziaria del 2008, le multinazionali hanno invertito le loro tendenze di espansione internazionale e si sono ridotte. Già da allora, si è assistito a un rallentamento progressivo di alcuni aspetti della globalizzazione nonché del commercio mondiale . Secondo le stime di Eurofound , si prevede che gli investimenti esteri diminuiranno di circa il 30% a seguito della pandemia. Tale riduzione, sommata ai rischi di mobilità pubblica e delle merci, fa presumere una fase di accorciamento delle catene globali del valore, che potrebbe includere una più ampia diffusione di eventi di reshoring. Secondo Eurofound, ciò potrebbe avvenire per differenti ragioni. Gli svantaggi della produzione dispersa in termini di gestione logistica, la perdita di qualità del prodotto e gli eccessivi costi di trasporto sono sempre più considerati di una certa rilevanza nelle decisioni di localizzazione delle multinazionali, in particolare quando risaltano attività precedentemente fuori sede . Allo stesso tempo, i differenziali del costo del lavoro – il principale motore dell'offshoring – stanno diminuendo e stanno diventando meno importanti nelle decisioni di localizzazione delle imprese . Dopo il Covid-19, le valutazioni aziendali potrebbero così spostarsi ulteriormente a favore dell'accorciamento delle catene globali del valore, visto che shock di questo tipo sottolineano che la resilienza risiede in livelli di complessità operativa inferiori rispetto a quella delle delocalizzazioni che operano su mercati esteri.
La natura globalizzata dell'economia del XXI secolo è una componente chiave in termini di dinamiche ed effetti del virus. La pandemia ci ha dolorosamente ricordato la vulnerabilità dell'economia globale agli shock. In questo contesto, la discussione in atto su costi e benefici delle catene globali del valore si intensifica e in alcuni paesi si stanno già discutendo (o mettendo in atto) incentivi per le imprese a internalizzare le loro attività. Tra gli esperti sussistono pareri contrastanti. Bonadio et al. stimano che parte della riduzione del PIL reale sia dovuta alla trasmissione attraverso le catene di approvvigionamento globali, mostrando tuttavia che la contrazione del PIL sarebbe stata peggiore con catene globali del valore “rinazionalizzate” (anche se sostengono che nel breve-medio periodo potrebbero esserci degli accorciamenti delle catene). Gli autori non ne fanno un fattore relativo ad uno specifico settore bensì essi ritengono che non esista alcun beneficio sistematico in termini di resilienza nella rinazionalizzazione delle catene di approvvigionamento. Arriola et al. stimano che un passaggio al regime localizzato di imprese ridurrebbe il PIL reale globale di oltre il 5%, non offrendo né una maggiore efficienza né una maggiore sicurezza sull’approvvigionamento dei prodotti. Tuttavia, gli autori confermano e non smentiscono le tesi secondo cui la pandemia minerà il modello delle catene globali del valore: un paradigma di rete produttiva che ha profondamente caratterizzato l'economia mondiale negli ultimi 30 anni . In generale, si conferma comunque nella catena del valore quel sistema di produzione che, nella sua diversificazione, è in grado di resistere meglio agli shock generati dai cambiamenti. Secondo altra autorevole dottrina, invece le imprese hanno compreso che la resilienza è situata nello snellimento dei processi . La pandemia non cambierà completamente le decisioni che sono alla base dei processi di delocalizzazione, tuttavia nelle analisi costi-benefici non potranno più essere trascurate le implicazioni di improvvise interruzioni. Esse altereranno inevitabilmente il processo decisionale, dove le imprese cercheranno di ridurre la loro dipendenza da lunghe catene di approvvigionamento. Inoltre, a seguito della pandemia, i manager saranno molto concentrati sulle pratiche legate al rischio, che indurranno le imprese a ripensare le proprie strategie di internazionalizzazione . L’accorciamento delle catene del valore per motivi connessi al rischio non si traduce in automatico in una re-internalizzazione dei processi nell’azienda madre, considerato che proprio le esternalizzazioni permettono al datore di lavoro di trasferire all’esterno – sui fornitori o sui singoli lavoratori – i rischi imprenditoriali , creando delle vere e proprie “catene di trasferimento del rischio e dell’insicurezza” . A tal proposito, anche le aziende italiane stanno già offrendo le prime esperienze. DiaSorin, società leader nella diagnostica, sta valutando il trasferimento di parte della produzione in Italia per avere una produzione di riserva in caso di interruzioni . La Fondazione Altagamma, associazione che riunisce le imprese dell’alta industria culturale e creativa, ha dichiarato che è tempo di far rientrare in Italia la produzione di lusso di seta e tessuti tecnici . Anche il finanziamento pubblico per stimolare il rientro delle attività in Italia costituirà un ulteriore impulso volto ad influenzare le esperienze di reshoring, nonché ad aumentare la velocità nella messa in atto dei processi (essendo spesso il criterio cronologico un elemento importante nell’accoglimento delle domande di finanziamento). A tal proposito, con il documento della Camera dei Deputati del 15 gennaio 2021, dal titolo “Proposta di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, ovvero il programma di investimenti che l'Italia deve presentare alla Commissione europea nell'ambito del Next Generation EU – lo strumento per rispondere alla crisi pandemica provocata dal Covid-19 – lo Stato vorrebbe assegnare importanti investimenti pubblici per «sostenere lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle nostre imprese e delle filiere produttive, con attenzione anche alle imprese di minori dimensioni e alle scelte di localizzazione produttiva (reshoring)». Agli effetti della pandemia si aggiunge anche il fatto che le esigenze di neutralità climatica saranno probabilmente altrettanto trasformative e dirompenti per i processi di produzione e le relazioni di lavoro esistenti e nei prossimi decenni; una politica climatica più rigorosa, norme sulle emissioni più severe e la pressione del mercato per l'elettrificazione rimarranno, ad esempio, i principali motori della ristrutturazione in settori come la produzione di veicoli e i trasporti, e potranno essere le politiche volte alla tre sostenibilità – ambientale, sociale ed economica – causa di trasformazione delle attuali filiere e attività produttive .
4. La “rinazionalizzazione” del dumping sociale
Un ipotetico rientro delle attività nel paese d’origine non significa di conseguenza una re-internalizzazione dei processi produttivi. I due fenomeni sono completamente sconnessi. Ipoteticamente, sarebbe possibile assistere ad una frammentazione delle fasi della produzione interne al paese, senza il verificarsi di eventi di reshoring. Le esternalizzazioni infatti hanno dimostrato di rispondere efficacemente alle pandemie globali grazie alle caratteristiche di flessibilità ed agibilità come visto dinanzi. Inoltre, l’equilibro produttivo, basato su esternalizzazioni sempre più resilienti ai periodi incerti e localizzate più in prossimità dell’azienda madre, non sterilizza quei meccanismi di abbattimento del costo del lavoro che talvolta rappresentano il principale motivo dell’outsourcing. I confini tra paesi non delimitano più quelle che sono le tutele dei lavoratori. Il progressivo trasferimento delle attività manifatturiere avvenuto negli ultimi decenni dal Nord al Sud del mondo sta cambiando . Il “Sud del mondo” ora sono quelle periferie esistenziali (anche dentro gli stessi confini nazionali) dove le persone, di fronte all’impossibilità di compiere scelte significative per mancanza di alternative, sono ridotte da soggetti a oggetti, che sacrificano i propri diritti davanti l’altare dell’opportunità e della continuità occupazionale . Queste dinamiche hanno permesso ad alcuni imprenditori di riportare i meccanismi di dumping sociale, prima noti come processi di delocalizzazione in paesi esteri, all’interno dello stesso territorio italiano, generando fenomeni spesso noti sotto il nome di dumping contrattuale – ovvero una sorta di “rinazionalizzazione” del dumping sociale – inteso come abbattimento del costo del lavoro tramite l’utilizzo di metodi sleali in termini di concorrenza e alteranti del sistema di relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Tuttavia, è opportuno ricordare che le operazioni di decentramento e di terziarizzazione del processo produttivo non sono genericamente dei fenomeni negativi: qualora al contenimento dei costi venisse affiancata la ricerca di maggiore efficienza nei processi produttivi e di maggiore qualità nei prodotti finiti, esse servono ad arricchire il patrimonio imprenditoriale del sistema paese, poiché creano le condizioni per lo sviluppo di imprese specializzate e capaci di innovazione . Le esternalizzazioni sono anche il modo in cui le aziende si relazionano secondo economie di scala e un nesso di reciproca convenienza (orizzontale) in luogo del precedente rapporto gerarchico (verticale) che univa le diverse funzioni . Così l’affermarsi di un “modello di competitività puramente di costo” ha portato a ritenere l’esternalizzazione per molte imprese una leva strategica non solo in termini organizzativi ma anche brutalmente economici . Specie dal punto di vista organizzativo, le aziende ricercano nella flessibilità produttiva lo strumento per adattare, fra l’altro, la propria struttura alle mutevoli esigenze del mercato e alle situazioni impreviste . Dal punto di vista economico, talvolta però ciò avviene in modalità non lecite al solo fine di eludere la disciplina protettiva dei lavoratori . Questa la base del ragionamento che poi dà luogo a fenomeni distorsivi della concorrenza, nonché in violazione di norme di legge quali la somministrazione fraudolenta, l’appalto illecito, il distacco illegittimo, la disapplicazione del contratto leader, il falso lavoro autonomo, il lavoro nero.
5. La frammentazione contrattuale in Italia
Altri eventi attuali, inerenti le relazioni industriali, si affiancano alla frammentazione produttiva, ampliandone gli effetti tramite la loro capacità di ingenerare differenze di trattamento, sia di carattere economico che normativo, tra lavoratori appartenenti alla stessa filiera. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una serie di fenomeni che hanno provocato disordine nei sistemi di contrattazione collettiva a livello nazionale: l’articolazione e la continua nascita di organizzazioni in rappresentanza delle imprese anche a causa della progressiva intersecazione e sovrapposizione dei settori economici tradizionali, favorite dai processi di terziarizzazione dell’economia e dallo sviluppo delle nuove tecnologie, che trasformano le attività economiche e rendono più difficile del passato tracciare linee distintive, ad esempio, tra manifattura, servizi, credito, ed altri settori; la frammentazione e frantumazione delle categorie contrattuali tradizionali e la moltiplicazione degli ambiti di applicazione dei contratti; l’attivismo contrattuale differenziato per settori economici; il farsi largo di un esercito di contratti stipulati da nuovi soggetti a rappresentatività indefinita . In particolare, la rappresentanza datoriale nell’ultimo periodo ha subito una disarticolazione senza precedenti. I recenti cambiamenti del contesto economico e produttivo, che hanno determinato una profonda trasformazione dei mercati, hanno indotto le imprese ad aggregarsi secondo modelli diversi rispetto al passato. È abbastanza evidente lo sforzo di mantenere una platea “elettiva” riconoscibile ma, allo stesso tempo, di non precludersi una possibile espansione settoriale o dimensionale . La crescente frantumazione della rappresentanza datoriale, quindi, ha fatto sì che vi fossero contratti in concorrenza, operanti nello stesso campo di applicazione, anche se firmati dalle stesse tre storiche organizzazioni sindacali . Inoltre, talvolta si è assistito a contratti afferenti a comparti sovrapponibili stipulati da rappresentanze datoriali facenti parte della stessa confederazione. La concorrenza tra diversi contratti collettivi nel medesimo settore, da massima espressione di un modello pluralista di relazioni industriali, si è trasformata nel nostro Paese in una competizione al ribasso. Resta inteso che a generare concorrenza sleale tra i vari contratti è la diversità dei trattamenti economici e soprattutto dei trattamenti normativi previsti dalle fonti diverse contrattuali . L’incremento della contrattazione collettiva di categoria in forza di moltiplicazioni di strumenti contrattuali identici e/o dello scorporo di sigle sindacali e datoriali, con la creazione ad hoc di nuovi soggetti rappresentativi, contrasta con gli stessi obiettivi di razionalizzazione delle aree di contrattazione solennemente evocati dalle parti sociali, per ultimo il Patto della Fabbrica dell’8 marzo 2018. Il tema della rappresentanza datoriale se fino a pochi anni fa era del tutto trascurato, di recente è stato oggetto di molta attenzione da parte della dottrina, rinnovando così il dibattito intorno alle relazioni industriali.
La frammentazione della contrattazione collettiva nazionale genera all’interno di una unica categoria di lavoro una pluralità di regole di cui poco si sa rispetto a “chi” le ha definite, anche dal lato dei datori di lavoro. Ciò è stato favorito dal senso di inadeguatezza dei contratti nazionali di categoria di governare le trasformazioni in atto e tutelare gli interessi imprenditoriali. Inoltre, anche la possibilità di scelta del contratto collettivo da applicare, nonché la contrattazione aziendale applicata al primo livello (v. il caso FIAT) – soprattutto in quelle imprese di grandi dimensioni, capaci di rappresentare autonomamente i propri interessi – sono stati incentivi all’uscita dalla associazione datoriale e alla frammentazione contrattuale . Un sistema complesso e frammentato che ha indebolito e “mercatizzato” la funzione della contrattazione collettiva . Al contempo, a tali fenomeni disgregativi si contrappongono alcuni fenomeni di aggregazione associativa per permettere alle organizzazioni rappresentate unitariamente di “pesare” di più nei confronti dei sindacati e delle istituzioni (v. Federturismo, Federalimentare, Confindustria Moda, Confindustria Servizi HCFS). Tuttavia, le nuove associazioni non hanno inciso sui sistemi contrattuali, nel senso di una loro semplificazione o riconduzione ad unità, limitandosi ad una generale azione di coordinamento delle associazioni preesistenti che restano le uniche titolari del potere di contrattazione (v. ReTe Imprese Italia e Alleanza Cooperative Italiane).
La frammentazione contrattuale e la diversità di condizioni dei lavoratori risultano particolarmente accentuate dal sistema delle esternalizzazioni produttive. Il datore di lavoro che esternalizza un processo, infatti, non è tenuto, salvo il rispetto delle clausole sociali legali o contrattuali, quando esse sono effettivamente vincolanti (come vedremo in seguito), all’applicazione del CCNL che riserva ai suoi lavoratori in house. In tal modo, i lavoratori che operano all’interno di uno stesso processo produttivo, in base ai processi oggetto di esternalizzazione, hanno trattamenti economici e normativi differenti, anche svolgendo, talvolta, le medesime lavorazioni. Senza arrivare a far riferimento alla somministrazione fraudolenta o a forme di appalto illecito, già l’esternalizzazione per sé, seppur genuina, ha messo in discussione le capacità dei sindacati di rappresentare i lavoratori lungo tutta la catena del valore, portando alla crescente frammentazione delle condizioni di lavoro . Inoltre, le differenze non si notano solo in termini di diritti e tutele contrattuali. Basti pensare ai lavoratori degli appalti negli ospedali (ad esempio, i lavoratori delle pulizie o gli addetti alla mensa) che, anche operando all’interno di strutture sanitarie pubbliche, in alcuni territori non hanno ricevuto lo stesso trattamento in termini di priorità nella campagna vaccinale dei lavoratori del SSN. In un sistema che si prospetta sempre più frammentato, formato anche da imprese retiste, codatorialità e forme di distacco dei lavoratori, diviene indispensabile trovare delle soluzioni condivise e pattuite volte a ristabilire delle regole al mercato del lavoro da parte di tutti gli attori in gioco.
6. Il ruolo della contrattazione collettiva nelle esternalizzazioni
La contrattazione collettiva di livello nazionale può costituire, in linea di principio, uno strumento idoneo per far fronte a queste problematiche perché concepita dall’ordinamento proprio come fattore di regolazione della concorrenza in grado di sottrarre le tutele del lavoro dalla logica capitalistica pura dello scambio. La contrattazione collettiva non è uno strumento a favore dei soli lavoratori, che stabilisce tutele minime ed evita la competizione tra questi, bensì la contrattazione collettiva è estremamente utile anche alle imprese in quanto impedisce la concorrenza e il gioco al ribasso sul costo del lavoro . Le retribuzioni minime rappresentano il fine di riequilibrio del rapporto di forza negoziale sul mercato realizzando la coalizione di un gruppo organizzato . La contrattazione collettiva nazionale, assicurando trattamenti uniformi, evita le distorsioni basate sulla rincorsa al ribasso e, quindi, più che restringere la concorrenza, offre ancoraggio alla concorrenza leale. Spesso si scambia il termine concorrenza con quello di competitività. Un mercato competitivo non necessariamente equivale a un mercato privo di ostacoli alla concorrenza, che a sua volta non equivale a un mercato in cui la concorrenza è libera. Questo porta a rilevare come non possa essere separata la concorrenza tra imprese e la concorrenza tra ordinamenti. Se la prima non sempre coinvolge gli Stati, la seconda si riverbera sempre sugli attori coinvolti . È così che il contratto collettivo, secondo Einaudi , diventa causa di eliminazione di tutti coloro che non possiedono le capacità di giungere sino al minimo salariale imposto dalla norma comune. O meglio, il contratto collettivo mantiene in piedi solo quelle aziende virtuose che sono in grado di garantire un trattamento economico e normativo minimo adeguato, stabilito in modo condiviso dalle parti, contrastando comportamenti opportunistici distorsivi e dannosi per il benessere sociale, non concedendo più alle imprese obsolete di sopravvivere compensando le loro inefficienze organizzative e manageriali con l’abbattimento dei salari .
Tale capacità regolativa del contratto collettivo è stata indebolita, non solo per la crescente dimensione globale della produzione che ha favorito la competizione degli ordinamenti, bensì anche dalla moltiplicazione di sistemi contrattuali in competizione all’interno di settori merceologici medesimi o affini, che hanno portato l’ordinamento da un sistema di contrattazione collettiva per la regolazione della concorrenza ad un sistema di contratti collettivi in concorrenza tra loro. L’effetto di spiazzamento delle relazioni industriali in considerazione della sfasatura tra dimensione del mercato e strutturazione della contrattazione collettiva è un fenomeno rinvenibile sia nell’economia globalizzata che nel mercato interno, a causa delle esternalizzazioni dei processi che sfidano il principio organizzativo chiave e le strategie centrali dei sindacati industriali volte a togliere i salari dalla concorrenza .
7. I contenuti dei contratti nazionali sul tema delle filiere
Il diritto del lavoro si è già occupato dei sistemi di frammentazione dei processi produttivi indagando alcune tematiche quali le clausole sociali nei contratti pubblici, la responsabilità solidale e le ritenute fiscali negli appalti. A ben vedere, poi, anche la contrattazione collettiva ha affrontato il tema della frammentazione produttiva nel sistema degli appalti in diversi settori. Le parti hanno disciplinato, sia a livello nazionale che territoriale, la questione degli appalti e dell’affidamento dei lavori a terzi. Interessandoci delle dinamiche settoriali, utilizziamo come principale focus la contrattazione di livello nazionale inerente le filiere produttive negli accordi sottoscritti dalle federazioni sindacali di categoria di Cgil, Cisl e Uil. All’interno di alcuni CCNL vigenti, le parti hanno introdotto un articolo dedicato agli appalti e al decentramento produttivo. L’obiettivo comune in tutti i contratti è quello di limitare (in taluni casi vietare) l’esternalizzazione dei processi produttivi al mero fine di abbattere il costo del lavoro attraverso minori tutele economiche e normative dei lavoratori in appalto rispetto ai lavoratori in house. Gli accordi hanno aggiunto maggiori obblighi nei rapporti tra aziende committenti e aziende in appalto in modalità differenti. Si rileva in gran parte di questi accordi l’apposizione di clausole che vincolino le imprese appaltatrici all’applicazione del CCNL del settore merceologico delle attività appaltate (v., tra i tantissimi, CCNL Industria Alimentare, CCNL Industria della Carta, CCNL Lavanderie Industriali, CCNL Metalmeccanici, CCNL Cemento e Calce, CCNL Gas e Acqua, CCNL Edilizia). Nel caso del contratto del cemento, la clausola non è automatica ma sono le aziende che la inseriscono nei contratti di appalto. Altro elemento caratterizzate la disciplina contrattuale degli apparti sono gli obblighi informativi verso le rappresentanze sindacali presenti in azienda. Nello specifico, nel contratto dell’industria della carta, le aziende devono comunicare periodicamente alle proprie RSU i nominativi delle ditte subentranti, il genere e la quantità dei lavori. Nel contratto del cemento, le aziende devono dichiarare alle proprie RSU, oltre ai nominativi come sopra, anche i relativi CCNL applicati e la durata previsionale dei lavori in appalto. Anche il contratto del gas-acqua obbliga le aziende ad informare le proprie RSU circa la natura, contenuti, obiettivi, prescrizioni di sicurezza e relativo CCNL applicato delle attività conferite in appalto; inoltre, l’obbligo di informazione avviene anche a monte della stipula del contratto di appalto dove le aziende forniranno alle loro rappresentanze sindacali informazioni preventive sulle attività da conferire in appalto. Peculiare la disciplina delle clausole sociali in settori che, storicamente, sono stati essi stessi causa di massive esternalizzazioni. Tra le imprese della logistica (CCNL 3 dicembre 2017), le parti hanno stabilito che le attività di logistica, facchinaggio, movimentazione, magazzinaggio delle merci siano affidate solo ad imprese che applicano il CCNL e non possono essere oggetto di subappalto. Il soggetto affidatario dovrà applicare il contratto in ogni sua parte, sulla base di quanto scritto, compresa la sanità integrativa e il contributo all’ente bilaterale (la cosiddetta “parte obbligatoria” del contratto). In caso contrario è prevista la risoluzione del contratto. Anche il contratto della concia ha previsto una disciplina molto simile per le lavorazioni di pulizia, facchinaggio e manutenzione ordinaria degli impianti. Un accordo che è intervenuto in maniera più stringente per le imprese applicanti il CCNL, escludendo alcune attività dal sistema degli appalti, è il contratto dell’industria alimentare. Con tale accordo, le parti hanno previsto che «sono esclusi dagli appalti i lavori svolti in azienda direttamente pertinenti le attività di trasformazione e di imbottigliamento proprie dell’azienda stessa nonché quelle di manutenzione ordinaria continuativa, ad eccezione di quelle che necessariamente debbono essere svolte al di fuori dei turni normali di lavoro». Il contratto dell’edilizia sembra essere il più dettagliato sotto la luce della disciplina degli appalti e delle relative procedure. Il contratto impone all’impresa che, nell’esecuzione di opere rientranti nella sfera di applicazione del contratto, affidi in appalto o subappalto le relative lavorazioni edili e affini, è tenuta a fare obbligo all’impresa appaltatrice o subappaltatrice di applicare nei confronti dei lavoratori il trattamento economico e normativo del contratto nazionale. L’impresa dovrà comunicare, inoltre, alla Cassa Edile le lavorazioni appaltate o subappaltate e trasmettere la dichiarazione dell’impresa medesima di adesione al contratto nazionale. L’impresa è tenuta altresì a comunicare alla propria RSU il nome dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice e l’indicazione delle opere appaltate o subappaltate. Anche il recente rinnovo della concia del 21 gennaio 2021 si è occupato del tema; le parti si “raccomandano” con le aziende committenti applicanti il CCNL di sensibilizzare le imprese subfornitrici ad applicare il CCNL di loro pertinenza, sottoscritto dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Un segnale di allarme importante è arrivato anche dall’importante e recente rinnovo dell’industria metalmeccanica avvenuto il 5 febbraio 2021. Nello specifico, le parti hanno reso più chiare quali sono le procedure da seguire e rafforzato la clausola sociale per le imprese applicanti il CCNL nei contratti pubblici, definendo due differenti casistiche specifiche nei cambi di appalto: ove l’appalto risulti a parità di termini, modalità e prestazioni contrattuali del precedente, viene previsto l’assorbimento del personale già impiegato; ove l’appalto risulti modificato, nel corso di un esame congiunto le parti si attiveranno per valutare le mutate esigenze tecnico-organizzative con il mantenimento dei livelli occupazionali.
Nei CCNL analizzati si riscontrano delle problematicità nell’applicazione delle clausole sociali, derivanti dallo stesso sistema di relazioni industriali e ordinamento intersindacale italiano. Nello specifico, in termini di clausole sociali contrattuali, gli accordi possono essere suddivisi in due differenti tipologie: quelli soft (v. CCNL concia, CCNL gas-acqua, CCNL cemento) dove le parti hanno stabilito un obbligo informativo e in taluni casi una sensibilizzazione verso l’applicazione dei contratti leader; quelli hard, dove le parti obbligano le imprese appaltatrici all’applicazione di determinati CCNL, stabiliscono le lavorazioni che possono essere oggetto di appalto, impongono la garanzia di un trattamento economico e normativo minimo ai lavoratori addetti negli appalti. Seppur questi accordi vadano nella direzione di definire una strada verso la regolamentazione dei sistemi di frammentazione produttiva e dell’armonizzazione dei diritti sul lavoro nazionali, tuttavia presentano una scarsa efficacia vincolante per le aziende applicanti il CCNL. I suddetti accordi, infatti, vanno ad inserirsi nei rapporti privatistici tra le imprese comportando una serie di contrasti nel bilanciamento con i principi comunitari di libertà di stabilimento, di concorrenza e di libera impresa (cfr., tra le tante, C.G. C-460/2002 e C-386/2003), ai quali si aggiunge il rispetto della libertà di iniziativa economica sancito dall’art. 41 della Costituzione. Ecco perché, nella pratica, le parti si pongono l’obiettivo di garantire la piena occupazione di tutti gli addetti nell’appalto ma non introducono un principio generale di automaticità per il passaggio dei lavoratori all’azienda subentrante (v. CCNL Multiservizi, CCNL Lavanderie Industriali). In altri accordi, durante l’esame congiunto, per contemperare le reciproche esigenze, le parti hanno tentato di garantire le libertà economiche sollecitando il ricorso a strumenti quali part‐time, riduzione orario di lavoro, flessibilità delle giornate lavorative nei cambi di appalto (v. CCNL TLC-call center).
Il punto focale è che, nonostante le clausole di inscindibilità nei contratti collettivi nazionali di lavoro, il Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 6148 del 2019, al punto 3.1.2 si è esposto sul tema stabilendo che le clausole sociali vincolino solo le imprese appartenenti alle associazioni datoriali firmatarie del contratto collettivo. Di fatto, l’essere associata alla datoriale firmataria potrebbe evidenziare una reale volontà da parte dell’impresa di accettazione dell’accordo sottoscritto. Tuttavia, ciò determina che, durante la fase di cambio di appalto, perché la clausola sociale sia efficace, è necessario che le due imprese applichino il medesimo CCNL, e che entrambe siano iscritte all’organizzazione datoriale firmataria. In un sistema come quello italiano in cui le imprese appartenenti alla stessa catena produttiva operano in settori differenti (ad esempio, un’impresa metalmeccanica che affida in appalto le pulizie) e spesso fanno parte di comparti differenti (ad esempio, un’industria che affida un servizio ad una azienda artigiana o ad una cooperativa), e in cui sussiste il problema dello sproporzionato numero di CCNL vigenti sovrapposti tra loro e incidenti nello stesso perimetro contrattuale, le clausole sociali all’interno dei CCNL risultano quasi sempre inattuabili e, soprattutto, totalmente inefficaci nella gestione delle esternalizzazioni produttive.
8. Perché un accordo intersettoriale di filiera
La gestione delle frammentazioni produttive può però avvenire ad opera delle parti sociali attraverso differenti modalità concentrandosi su momenti diversi del processo di esternalizzazione. I rapporti tra impresa committente e appaltatrice, la gestione dei subappalti, i cambi di appalto, gli obblighi informativi alle rappresentanze sindacali, i trattamenti economici e normativi minimi dei lavoratori in appalto, la gestione della flessibilità sono alcune delle tematiche oggetto di regolamentazione congiunta dei processi di esternalizzazione. Di rilievo per gli scopi di questo articolo è che, a partire dal 2008, le confederazioni Cgil, Cisl e Uil propongono di dispiegare una molteplicità di forme contrattuali al secondo livello tra cui la filiera, il distretto, il sito (v. CGIL, CISL e UIL, 7 maggio 2008, Linee di riforma della struttura della contrattazione). Anche a livello settoriale, la regolamentazione della filiera è sempre più oggetto di trattativa. Nell’accordo di rinnovo del 15 febbraio 2021 del CCNL delle aziende editrici e stampatrici di giornali quotidiani ed agenzie di stampa, le parti hanno istituto una commissione per delineare il percorso necessario alla definizione di un patto di filiera. Occorre allora interrogarsi sulle modalità con cui una contrattazione collettiva di filiera possa riuscire, attraverso un adeguato grado di efficacia vincolante, a normare comunemente un processo produttivo frammentato internamente che implichi una pluralità di imprese e di settori produttivi, al fine di evitare una frammentazione dei diritti e delle tutele sul lavoro che limiti la funzione regolatrice che sempre ha caratterizzato la contrattazione collettiva in Italia.
La filiera produttiva è caratterizzata di per sé dall’interconnessione tra soggetti economici diversi che condividono lo stesso processo produttivo, dedicandosi ognuno ad una specifica fase di esso, costituendo un ambito nel quale coesistono molteplici rapporti di lavoro che, seppur riconducibili a datori di lavoro diversi, creano un unico substrato organizzativo sul quale si regge l’intera filiera . Viene in tal modo istituita una “prossimità organizzativa” tra imprese dove il concetto di prossimità non rappresenta una vicinanza geografica bensì dell’organizzazione , che spiega e legittima la determinazione di norme comuni sull’organizzazione del lavoro per i soggetti che ne sono coinvolti. Il primo nodo da sciogliere è l’applicazione di un accordo che riguardi imprese operanti in settori produttivi diversi, associate a diverse organizzazioni datoriali (e sindacali da parte dei lavoratori) di categoria, che applicano contratti collettivi nazionali di lavoro differenti. Se le ragioni dell’outsourcing risiedono sul tipo di lavorazione che si vuole esternalizzare; come detto dinanzi, occorrono intese che abbiano come unità negoziale il complesso di aziende operanti nella stessa catena produttiva, dove il concetto di filiera non può essere individuato dall’ordinamento giuridico, considerate le veloci trasformazioni del lavoro, bensì dalle stesse organizzazioni sindacali e datoriali che sottoscrivono l’accordo. Bavaro e Laforgia promuovono due modelli per normare la c.d. prossimità organizzativa, intesa come fenomeno di dislocazione produttiva in catene “corte”. Il primo modello proposto è la sottoscrizione di un contratto interconfederale. Tale accordo, per tradizione, non è immediatamente vincolante per le imprese fino a quando non avviene l’adozione da parte della contrattazione collettiva di categoria delle organizzazioni sindacali e datoriali appartenenti alle confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale. Per superare tale problematica, gli autori promuovono allora, come secondo modello, la contrattazione di prossimità “intercategoriale”, ovvero un accordo sottoscritto tra associazioni sindacali territoriali delle categorie coinvolte con un’efficacia pari ad un normale contratto territoriale. Tuttavia, ciò sarebbe problematico se la filiera produttiva coinvolgesse aziende dislocate in territori differenti e lontani poiché, in tal caso, andrebbero coinvolte tutte le associazioni datoriali e sindacati competenti dei diversi territori per garantire la rispondenza ai criteri procedurali richiesti dalla contrattazione collettiva.
A queste due possibili soluzioni, se ne può aggiungere una terza: un processo di contrattazione collettiva tra associazioni datoriali e sindacali firmatarie di diversi CCNL, facenti parte o meno della stessa confederazione, operanti all’interno di una specifica filiera. Una contrattazione collettiva, a livello nazionale, intercategoriale, di filiera, che garantisca un’adeguata efficacia vincolante del contratto e superi il problema delle dislocazioni territoriali e del coinvolgimento di un elevato numero di soggetti negoziali, facilitando gli organi ispettivi nel lavoro di vigilanza della corretta applicazione delle clausole sociali contrattuali.
9. La forma dell’accordo intersettoriale nazionale di filiera
Innanzitutto, occorre interrogarsi sulla forma che l’accordo necessita per avere un adeguato grado di efficacia vincolante per le imprese. Un accordo di livello nazionale, sottoscritto dalle organizzazioni datoriali e sindacali che rappresentino tutte le imprese e i lavoratori addetti all’interno della medesima filiera, a prescindere dal CCNL che esse già sottoscrivono, permetterebbe al contratto di coprire il perimetro contrattuale di interesse per le parti. Di carattere nazionale sia perché in tal modo vengono coinvolte tutte le rappresentanze territoriali competenti, sia perché è quello il livello atto a garantire una regolamentazione unica dei fenomeni – presenti in tutto il territorio italiano seppur in misura preponderante in determinate aree – di dumping contrattuale. L’accordo necessita di essere sottoscritto da tutte le organizzazioni datoriali e sindacali appartenenti alla medesima filiera. Questo il momento in cui andrebbe fatto il maggiore sforzo da parte degli attori in gioco. L’accordo rappresenterebbe un piano regolatorio capace di far comunicare tra loro imprese applicanti diversi contratti collettivi nazionali di lavoro, non necessariamente siglati da associazioni datoriali dello stesso perimetro confederale, operanti in settori differenti ma facenti parte della stessa catena produttiva, attraverso un sistema di relazioni industriali inedito. L’obiettivo non è quello di aggiungere maggiori obblighi o maggiori tutele generalizzate – il che potrebbe generare l’effetto opposto e portare a una massiccia fuga delle imprese dai contratti – bensì quello di armonizzare le regole inerenti la gestione dei lavoratori all’interno di una filiera in modo tale da sottrarre il costo del lavoro dal sistema concorrenziale considerando l’intera catena produttiva. Oltre agli attori firmatari, un altro aspetto critico è la determinazione del perimetro contrattuale del patto. Al fine di evitare regole generalizzate per tutte le imprese, una strada è quella di regolare nel patto di filiera solamente gli aspetti legati ad una precisa e determinata catena. Per semplificare, prendendo come riferimento il rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 5 febbraio 2021, le parti hanno previsto all’articolo 10 un sistema di tutele nella gestione dei contratti pubblici che non si applichi a tutte le tipologie di appalto bensì ai soli comparti dell’installazione degli impianti tecnologici, dei servizi di efficienza energetica e del facility management, circoscrivendo in tal modo il perimetro di azione del disposto contrattuale, lasciando inalterati i rapporti negoziali privatistici inerenti altre filiere. In maniera del tutto simile, il perimetro del patto di filiera potrebbe essere individuato come segue. Se prendiamo come riferimento il settore delle strutture ricettive, le associazioni datoriali e le organizzazioni sindacali di livello nazionale, che rappresentano rispettivamente imprese e lavoratori della filiera turistico-alberghiera, sottoscrivono il patto, individuando i reparti e i processi componenti la catena produttiva, escludendo dal perimetro di azione attività che, seppur rientranti nei campi di applicazione dei CCNL da esse sottoscritti, non rientrano nel campo oggetto di indagine. Con riferimento poi ai contenuti del patto, esso può riguardare ogni momento del rapporto tra le imprese nella gestione del personale addetto. I contratti collettivi che regolano i processi di appalto sopra analizzati offrono già degli ottimi spunti da cui partire per regolamentare la filiera. Un elemento essenziale da inserire nel patto di filiera potrebbe essere il vincolo per le imprese appaltatrici di applicare il CCNL del settore merceologico sottoscritto dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Inoltre, nel caso in cui l’appalto venga affidato a società cooperative, la cooperativa va vincolata ad assicurare ai soci medesimi un trattamento economico e normativo equivalente a quello previsto dai contratti leader della categoria annessa all’attività oggetto dell’appalto, rafforzando quanto già previsto all’art. 7, comma 4, DL 248/2007, convertito il L. 31/2008. La libertà di scelta da parte dell’impresa del CCNL da applicare, seppur limitata sotto alcuni aspetti amministrativi e giurisprudenziali, ovvero l’assenza di meccanismi estensivi dell’efficacia dei contratti collettivi, nel rispetto del principio costituzionalmente garantito della libertà sindacale all’articolo 39 Cost., non preclude tuttavia la possibilità per le parti di stabilire, pattiziamente, sotto sistemi di filiera, dei vincoli che rassettino anzitutto il sistema interno evitando fenomeni di “shopping” contrattuale dentro la catena del valore. Sia chiaro che ciò tuttavia non preclude alle imprese la possibilità di applicare contratti diversi, ma permette a coloro che applicano il CCNL sottoscritto dalle associazioni datoriali firmatarie anche del patto di filiera di non frammentare, come oggi sta avvenendo, le regole della concorrenza e le condizioni di lavoro con l’allungarsi della catena produttiva. Resta ovvio che tale modello funziona solo a cascata, ovvero l’obbligo sussiste tra il committente e le aziende a cui esso affida i lavori. Pertanto, prendendo di nuovo l’esempio della filiera delle strutture ricettive, se ad applicare il CCNL rientrante nel patto di filiera è l’albergo, la parte componente più alta della catena, gli obblighi interessano, a caduta, tutte le imprese ad esso sottostanti. Qualora invece l’albergo applichi un CCNL diverso da quelli rientranti nel patto di filiera, ma l’azienda appaltatrice che, ad esempio, offre servizio di catering ne applichi uno rientrante, in tal caso solo quest’ultima e le aziende a cui essa affida i lavori (es. i servizi di trasporto) saranno vincolate al rispetto dell’accordo. In conclusione, la finalità di un accordo intersettoriale nazionale di filiera sarebbe quella di armonizzare le regole che muovono un mercato del lavoro sempre più terziarizzato, reticolato e frammentato sia nei processi che nel sistema di relazioni industriali, che potrebbe ritrovare un suo ordine basato su catene del valore nazionali. Qualora tutti gli attori sociali decidessero di impegnarsi per far sì che questo avvenga.

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