Testo Integrale con note e bibliografia

SOMMARIO
1.- Premessa. L’interpretazione costituzionalmente/comunitariamente orientata secondo la Corte costituzionale. 2.-Il caso del danno da termine illegittimo nel p.i.p. 3.- Il caso della “preesistenza” del ramo d’azienda. 4.- Il vecchio testo dell’art. 47, comma 5 e la novella del 2009: un artifizio legislativo. 5.-Una parentesi: qualche esempio di artifizio legislativo. 6.-L’interpretazione comunitariamente orientata del comma 4-bis.

1.- Ritengo opportuno premettere che esprimerò opinioni diverse da quelle dominanti in dottrina e giurisprudenza. Spero tuttavia che, più argomentate seppur sempre esposte con sinteticità, stimolino qualche riflessione ulteriore rispetto a quelle emerse in occasione della tavola rotonda nel corso della quale le ho espresse. .
Ritengo altrettanto opportuno muovere da due sentenze della Corte costituzionale che mi paiono fondamentali per orientarsi in materia di operazioni ermeneutiche costituzionalmente e comunitariamente orientate.
Nella sentenza n.231/2013, dinnanzi ad ordinanze di rimessione che escludevano il potere del giudice ordinario di fornire un’interpretazione “adeguatrice” dell’art. 19, lett. b, L. 300/1970 (laddove fa esclusivo riferimento alle “associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”) in quanto incompatibile con il testo normativo, la Corte afferma corretta questa opzione ermeneutica “risultando effettivamente univoco e non suscettibile di una diversa lettura l’art. 19, tale dunque da non consentire l’applicazione di criteri estranei alla sua formulazione”.
La Corte poi opera su tale formulazione un intervento dichiaratamente “additivo” conformemente al diritto costituzionale vivente da essa stessa prodotto che le consente operazioni sostanzialmente creative di nuovi dettati normativi.
-La Corte sente tuttavia il bisogno di precisare che il proprio intervento “non affronta il più generale problema della mancata attuazione complessiva dell’art. 39 Cost. né individua -e non potrebbe farlo- un criterio selettivo della rappresentatività sindacale…nel caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva” competendo al legislatore di operare la scelta tra le varie soluzioni ipotizzabili.
Nella sentenza n.227/2010 era questione dell’applicabilità allo straniero residente o dimorante in Italia di una previsione legislativa riferita al cittadino italiano.
La Corte muove dalla propria consolidata giurisprudenza secondo cui, in forza dell’art. 11 Cost, le fonti comunitarie hanno (entro determinati limiti) competenze normative anche sostitutive di quelle degli Stati membri con conseguente potere-dovere del giudice comune, e prim’ancora dell’amministrazione, di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale quando il contrasto sia con norme comunitarie prive di effetto diretto”.
Qui la Corte è investita da ordinanze di rimessione della Corte di cassazione secondo cui, stando alla giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, “la chiara ed univoca lettera” della norma “non permetterebbero una interpretazione diversa e meno restrittiva” tenuto conto che “anche la Corte di giustizia ha infatti affermato che i giudici nazionali devono interpretare le norme nazionali alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro entro i limiti consentiti dalla lettera delle medesime (sentenza 16 giugno 2005, n. 105/03, Pupino)” .
La Corte costituzionale rileva anzitutto che la prospettazione offerta nelle ordinanze “risulta suffragata sia dalla lettera della disposizione che dai lavori preparatori” con la conseguenza che il contrasto “insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta”. Anche in questo caso la Corte opera poi l’estensione dell’ambito di applicazione della norma tramite un intervento “additivo” .
Prima di venire alla questione oggetto precipuo di questo scritto, come dal titolo, sulla scorta di questi principi fondamentali credo opportuno fermare l’attenzione su due altrettanto recenti casi di interpretazione comunitariamente orientata anche perché la non episodicità dell’utilizzo di tale strumento ermeneutico induce a particolare riflessione.

2.- Un caso riguarda le conseguenze della illegittima apposizione di un termine ad un contratto di lavoro pubblico privatizzato.
Com’è noto, l’art. 36 del T.U. del 2001 preclude la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato prevedendo “il diritto del lavoratore al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di norme imperative”; danno che, inteso alla stregua del diritto comune, può non sussistere, anzi, per lo più non sussiste.
A fronte della giurisprudenza della CGUE che vuole, anche nei rapporti di lavoro pubblico, la predisposizione, da parte degli Stati membri, di un apparato sanzionatorio adeguatamente dissuasivo, lasciando peraltro agli Stati stessi la scelta discrezionale tra le varie soluzioni ipotizzabili, la nostra giurisprudenza, anziché considerare, anche sotto questo profilo, la fonte comunitaria sprovvista di “effetto diretto”, ha ritenuto, sul terreno appunto dell’interpretazione comunitariamente orientata, di poter creare la figura del “danno comunitario” parametrandolo sull’indennità prevista dall’art. 8 L. 604/1966 ovvero, successivamente, del danno “a prova agevolata”, d’ufficio parametrata sull’indennità prevista dall’art. 2 della legge del 2010 .
Si tratta però di figure di danno non tanto incompatibili con la lettera dell’art. 36, comma 5, quanto estranee al sistema del nostro ordinamento positivo; la cui creazione (malgrado la diffusa e pregevole argomentazione delle citate sentenze) non può che competere al legislatore .
Neppure la Corte costituzionale, infatti, potrebbe porre rimedio all’inadempienza comunitaria andando oltre la severa sollecitazione di un intervento legislativo posto che, secondo la sua stessa giurisprudenza, come si è visto prima, tale intervento non è surrogabile allorquando occorre creare una nuova norma operando la scelta tra diverse opzioni, tutte costituzionalmente e/o comunitariamente legittime. Nel caso di specie, ad es., il legislatore potrebbe scegliere di corredare la previsione del danno di diritto comune in favore del dipendente (da provare nell’ an e nel quantum) con una adeguata sanzione a carico della pubblica amministrazione inadempiente.
Peraltro la soluzione adottata dalle Sezioni Unite è ora confortata da una sentenza della CGUE secondo cui “una normativa nazionale” che la statuisce, pur senza prevedere anche “il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, non è incompatibile con la fonte comunitaria .
Non sorprende che i Giudici di Lussemburgo, talora tecnicamente approssimativi, riconducano a “normativa nazionale” una recente operazione ermeneutica giudiziale, sia pure delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Piuttosto sconcerta che un Giudice di Tribunale, dissentendo dalle indicazioni delle Sezioni Unite, abbia ritenuto di poter chiedere al Giudice comunitario una pronuncia pregiudiziale allo scopo di ottenere una sorta di “lasciapassare” per determinare a sua discrezione il danno o la sanzione ritenuti adeguati :

3.- L’altro caso su cui mi pare opportuno fermare preliminarmente l’attenzione riguarda l’individuazione del ramo d’azienda suscettibile di legittima alienazione.
Qui si è affermata una giurisprudenza della Corte di Cassazione che vuole la preesistenza e piena autonomia funzionale del ramo, talché rimanga invariato dopo la cessione, come stabilito dall’art.1 del d. lgs. 18/2001, in ragione di una interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 32 del d. lgs. 276/2003; ciò inserendo nel testo della nuova norma la nozione di preesistenza che il legislatore aveva espunto nel novellare la norma precedente e sopprimendo la frase “identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento della sua cessione” che il legislatore aveva inserito nel testo della norma novellata; sempre al fine di correggere in radice la definizione restrittiva introdotta dal decreto del 2001 .
Mi pare difficile potersi negare, pur se si tratta di un orientamento assunto con motivazioni diffuse e pregevoli, che l’operazione ermeneutica si risolva in una emendatio del testo normativo (tra l’altro in contrasto con la sua ratio), competendo allora alla Corte costituzionale, secondo la sua giurisprudenza prima richiamata, l’eventuale operazione ermeneutica manipolativa del testo stesso.
Nel caso del trasferimento di ramo d’azienda, peraltro, l’incompatibilità della norma con la fonte comunitaria è revocabile in forte dubbio giacché la Direttiva 2001/23/CE è unidirezionalmente volta a garantire, nelle vicende di circolazione delle aziende e dei rami, il passaggio dei lavoratori con conservazione dei loro diritti; tanto che la CGUE, specificamente interpellata, ha statuito che “la semplice mancanza di autonomia funzionale dell’entità trasferita non può, di per sé, costituire un ostacolo a che uno stato membro garantisca nel proprio ordinamento interno il mantenimento dei diritti dei lavoratori dopo il cambiamento dell’imprenditore” .
Viene da pensare, per inciso, iniziando a porsi dall’angolazione delle aziende in crisi, al disagio in cui verserebbe il giudice, ormai incline ad adottare come parametro l’orientamento sopra decritto, trovandosi di fronte alla contestazione della legittimità del trasferimento di un ramo di cui, nell’ambito di una procedura concorsuale, il curatore, per salvare il salvabile, concordi con il cessionario (ed eventualmente con le organizzazioni sindacali) i confini del ramo stesso alla stregua non della sua preesistenza bensì (del criterio, a lungo consolidato) della sua potenzialità produttiva.
4.- Il punctus dolens del vecchio testo dell’art. 47, comma 5, L. 420/1990, quale emerge con innegabile chiarezza dal raffronto con il testo della Direttiva 23/2001 e con l’interpretazione di essa fornita dalla CGUE visualizzando proprio la disciplina contenuta in quel comma, è costituito dalla facoltà, per cedente e cessionario, di escludere, con accordo sindacale, il passaggio totale dei dipendenti nel caso del trasferimento di aziende (o di rami di esse) interessate da procedure concorsuali con continuazione dell’attività produttiva e, ancor più, di aziende (solo) dichiarate in crisi.
L’eventuale esclusione della solidarietà debitoria non poneva problemi perché la Direttiva la prevede come facoltativa (art. 3, comma 1, 2° cap.). Ma neppure, a ben vedere, l’eventuale modifica delle “condizioni di lavoro” malgrado il confuso riferimento della sentenza CGUE all’art. 3, comma 3, 2° cpv (ove è stabilito che “gli stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle condizioni di lavoro, purché esso non sia inferiore ad un anno”); riferimento in realtà finalizzato alla conferma che la disposizione presuppone il passaggio dei rapporti di lavoro.
Questo capoverso, infatti, vuole introdurre una clausola di salvaguardia che non collide con l’ipotesi, di cui all’alinea, di sostituzione del contratto collettivo vigente presso il cedente, la quale può verificarsi anche contestualmente all’acquisizione da parte sua dei rapporti di lavoro. Ovviamente nei singoli casi possono porsi problemi di diritto interno con riguardo all’ambito di efficacia del nuovo contratto, ma questo è un altro scenario.
La L. n. 59/2009, in sede di conversione del D.L. n. 135/2009, ha inserito un art. 19-quater con il quale, “al fine di dare attuazione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di Giustizia…”, ha cancellato nel comma 5 dell’art. 47 la menzione delle “aziende o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato di crisi aziendale a norma dell’articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675” e l’ha collocata nella lettera a) di in un nuovo comma 4-bis prevedendo che, qualora siano oggetto di un trasferimento, “nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, l’art. 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo”.
Dal dato testuale risulta inequivocabilmente che il comma 4 bis contiene la medesima disciplina “rovesciata” del residuo comma 5: qui l’art. 2112 non si applica salvo diverse previsioni dell’accordo sindacale (che potrebbe arrivare a prevedere l’integrale transizione del personale oltre alla piena solidarietà debitoria tra cedente ed acquirente); lì l’art. 2112 si applica salvo le deroghe recate dall’accordo sindacale; deroghe che non si vede perché non potrebbero riguardare il passaggio dell’intero personale oltre ed altresì la solidarietà debitoria.
Dunque, un mero artificio legislativo, consapevole o meno, che si risolve nella stesura di una sorta di cortina fumogena tra disciplina nazionale e fonte comunitaria.
Il dubbio che l’artificio sia consapevole sorge se si pensa alla resistenza che il legislatore ha sempre opposto, dal 1978 in poi, al superamento della nostra disciplina speciale circa la derogabilità dell’art. 2112 nei casi di trasferimento di aziende insolventi o comunque in crisi. Ciò nella consapevolezza per un verso che è molto difficile se non improbabile il salvataggio di quelle aziende senza il sacrificio di una parte di posti di lavoro e per altro verso che quella disciplina è davvero speciale, rispetto allo scenario visualizzato, al fine dell’ uniformazione, dalla Direttiva e dalla giurisprudenza della CGUE, in quanto incardinata (anche nelle ipotesi del residuo comma 5, per le quali la totale deroga all’art. 2112 sarebbe possibile per solo accordo tra curatore e acquirente) sull’accordo sindacale, cioè sulla valutazione di quel sacrificio (il più limitato possibile) socialmente accettabile quale extrema ratio.

5.- D’altronde, volendo aprire una parentesi, il nostro legislatore non è certo alieno dagli artifici.
Non è forse un artificio la sequenza “insussistenza del fatto”, “manifesta insussistenza del fatto” e poi “insussistenza del fatto materiale”? Sequenza frutto del vano tentativo di conciliare tensioni contraddittorie, in seno alla stessa maggioranza parlamentare legiferante, tra innovazione e conservazione del vecchio testo dell’art. 18 L. 300/1970. Le quali tensioni non potevano non riprodursi nelle variegate operazioni ermeneutiche di dottrina e giurisprudenza.
Un artificio è stato consumato anche nella redazione dell’art. 1, comma 2, d. lgs. 81/2015 sulle c.d. collaborazioni eterorganizzate; norma che mi è subito parso di poter definire tranquillamente “apparente” in quanto priva di qualsiasi portata effettivamente additiva rispetto all’art. 2094 c.c. (non quanto al suo contenuto codicistico bensì) quanto al contenuto che ha assunto nel diritto vivente consolidato da decenni.
Ed artificio ancor più appariscente è stato consumato con l’integrazione dell’art. 409, n.3, c.p.c. nell’illusione (forse) di porre rimedio alla deficienza di capacità identificativa d’una qualche fattispecie ad opera della norma del 2015 attraverso una nuova definizione, sull’opposto versante delle collaborazioni autorganizzate, altrettanto priva di siffatta capacità .

6.- Tornando all’art. 47, comma 4 bis, dottrina e giurisprudenza prevalenti (ma finora non risulta che si sia pronunciata la Corte di cassazione) ritengono che, a fronte dell’evidente violazione della fonte comunitaria, sia (doverosamente) percorribile la via di una interpretazione comunitariamente orientata del comma 4-bis; un’interpretazione che conduca a ritenere precluse all’accordo sindacale deroghe all’art. 2112 eccedenti il contenuto dei rapporti di lavoro inerenti all’azienda o al ramo oggetto di cessione; segnatamente, preclusa la previsione del transito solo parziale dei dipendenti.
Siffatta interpretazione, si osserva, è del resto conforme alla ratio di una norma dichiaratamente emanata per dare attuazione alla sentenza di condanna della CGUE; una ratio peraltro non del tutto sicura al di là della destinazione ad essa attribuita, atteso lo storico atteggiamento, poc’anzi richiamato, del nostro legislatore, favorevole alla conservazione integrale del testo, sostanzialmente tralatizio dal 1978, del comma 5 dell’originario art. 47.
Resta comunque la difficoltà di disconoscere che l’operazione ermeneutica comporti l’eliminazione dal dato testuale del riferimento alla parzialità del mantenimento dell’occupazione; ciò tanto più considerando che la locuzione “nei limiti e nei termini” con cui è coniugato l’ambito di derogabilità dell’art. 2112 consentito all’accordo sindacale esprime, nella sua endiadi, il massimo di onnicomprensività.
Osservare, come talora si osserva, che l’interpretazione restrittiva è postulata dall’art. 4, comma 1, della Direttiva, laddove consente anche al cedente di adottare licenziamenti collettivi prima del trasferimento dell’azienda, significa pur sempre porsi dall’angolazione di ciò che la fonte comunitaria vuole e non di ciò che risulta dal testo della norma nazionale.
Dunque ancora una operazione che comporta una emendatio di quel testo, pur se forse meno appariscente di quella comportata dall’analoga operazione ermeneutica relativa all’art. 32 D. Lgs. n. 276/2001.
È poi appena il caso di aggiungere che neppure la via della disapplicazione sarebbe percorribile dal “giudice comune”, non tanto per l’incapacità delle Direttive, più volte riconosciuta dalla CGUE, di produrre effetti nei rapporti tra privati (come affermato nella sentenza della Corte di Appello di Roma citata in nota), quanto perché qui si tratta di una norma con un contenuto complesso, non integralmente confliggente con la fonte comunitaria. Non lo è ad esempio, si è visto, con riguardo alla eventuale esclusione da parte dell’accordo sindacale della solidarietà debitoria a carico del cessionario.
Le ragioni che ho esposto mi inducono a ritenere che la via maestra dovrebbe essere, anche nel caso del comma 4-bis, la rimessione alla Corte delle leggi, da parte del giudice comune, della questione di costituzionalità per infrazione comunitaria.
La quale Corte potrebbe anche ritenere di chiedere alla CGUE, nell’ambito di un “incidente preliminare”, di ripensare la questione dandosi carico, a fronte di una Direttiva intitolata al “ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri” nella specifica materia, la non riconducibilità, senza forzatura, all’uniformità, di una norma nazionale che, quale propria assoluta peculiarità, pone al centro di ogni operazione traslativa concernente aziende in stato di crisi o di insolvenza un consenso sindacale acquisito nel contraddittorio con interlocutori affidabili come le rsu o rsa e i sindacati di categoria stipulanti il contratto collettivo in esse applicato.
Fuori discussione, comunque, l’eventuale esercizio, da parte della Corte delle leggi, del potere, riconosciutole dal diritto costituzionale vivente, di operare un intervento “additivo” sul dettato legislativo, ad esempio dichiarando l’illegittimità della norma nella parte in cui non esclude dai termini e dalle limitazioni apponibili all’applicazione dell’art. 2112 dall’accordo sindacale limitazioni concernenti la transizione all’acquirente di tutti i rapporti di lavoro.

 

 

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