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TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Lo sconvolgimento negli spazi e nei tempi del lavoro

L’esistenza lavorativa è stata sottoposta a sconvolgimenti imprevisti. L’epidemia da virus ha investito come un ciclone il lavoro nelle sue diverse espressioni. Al momento stiamo raccogliendo i cocci di una destrutturazione che esige in ogni caso la capacità di dare risposte organizzative a trasformazioni cui si è stati costretti in un periodo di emergenza e che mostrano un elevato grado di incertezza quanto alla delineazione di strategie sia di recupero sia di innovazione. Anzitutto si presentano problemi di riallocazione del lavoro dopo le dislocazioni forzate o forzose imposte dalla necessità di scongiurare il ‘contagio’. Indubbiamente le situazioni non sono del tutto omogenee e si differenziano a seconda di quanto è avvenuto nei differenti settori dell’economia. Nell’arco temporale della pandemia si sono svuotati specialmente i luoghi della punta avanzata dell’economia, vale a dire gli uffici del settore dei servizi e della mediazione commerciale. L’uso dello spazio ha subito una metamorfosi repentina. Con l’abbandono delle cattedrali dei centri direzionali e il riflusso nella pratica del lavoro domestico, è stato giocoforza ritornare a una sorta di condizione precapitalistica caratterizzata dalla coincidenza di casa e bottega. La casa è ritornata a essere anche il luogo del lavoro, con l’abbattimento della distinzione tra lo spazio privato e quello posto a distanza. Il fenomeno è apparso di rilevanza epocale e di incidenza universale, sebbene abbia riguardato in misura minore i luoghi della produzione propriamente materiale, dove è stato impossibile prescindere dalla presenza umana accanto alle macchine e dove l’assenza obbligata dei prestatori d’opera non avrebbe potuto beneficiare del rimedio o del surrogato del telelavoro da casa, minacciando di risolversi nella chiusura o nella interruzione pura e semplice dell’attività.
Pur facendo le debite distinzioni, è indubbio che di fronte alla pandemia ha, per così dire, tremato l’intero sistema economico, dall’industria ai servizi fino al settore primario dell’agricoltura, dove si è affacciato il fantasma della mancanza di braccia per la raccolta nei campi. Si può dire che è stata messa in questione la tenuta complessiva della struttura maggiormente formalizzata del modus vivendi soprattutto dei paesi cosiddetti avanzati: il sistema del lavoro e della sua organizzazione. Insieme ai mutamenti nell’uso dello spazio, non sono stati da meno i mutamenti intervenuti nella dimensione temporale. Il codice lavorativo, nei decenni passati, è stato improntato al permanere della rigidità nella misurazione dei tempi, disciplinati per contratto e regolamentati nei ritmi e nelle pause. Non sono mancate le proposte e le attuazioni parziali del tempo scelto, ma la sua introduzione è stata considerata l’eccezione rispetto alla regola se non proprio la deviazione da essa. A seguito del trauma pandemico alla rigidità dei tempi è subentrata la loro inevitabile fluidificazione. Il tempo scelto, paradossalmente, si è reso necessario. Ciò ha portato persino a rivedere radicalmente la stessa valutazione della prestazione lavorativa in termini di ore di lavoro, a favore di un’idea di progetto lavorativo come compito svolto in autonomia .
Dei fenomeni di natura decisamente sismica che sopra ho cercato di evidenziare è stata data anche una lettura ‘progressiva’. Essa è consistita nel rimarcare che lo sconvolgimento dello status quo ha avuto il merito di accelerare processi di modifica della organizzazione del lavoro già in atto da tempo, ma di lenta realizzazione a causa di vischiosità e di pigrizie sia mentali sia sul fronte operativo. Di tale lettura positiva ha beneficiato la valutazione dello smart working .
Un effetto collaterale salutato come benvenuto e talvolta con entusiasmo ha riguardato il beneficio ecologico, dovuto alla limitazione degli spostamenti automobilistici dall’abitazione al luogo di lavoro. Non solo è stato celebrato Il disinquinamento dell’aria, ma anche il ritorno degli animali nel contesto urbano connotato dalla rarefazione della presenza degli umani.

Digitalizzazione, algoritmi, lavoro cognitivo
Nel panorama complesso della destrutturazione delle abitudini individuali e dei “riti” sociali variamente istituzionalizzati, dalla fabbrica agli uffici del terziario e delle amministrazioni pubbliche fino alla scuola e all’università, un elemento unificante è stata la digitalizzazione delle attività. Essa si è estesa, come è noto, anche a settori nei quali la relazione intersoggettiva in presenza sembrava non surrogabile, in particolare alla sfera dell’istruzione e dell’educazione. Qui lo strumento tecnologico ha avuto un deciso upgrade, con il passaggio dall’uso di strumenti ausiliari della pratica didattica al quasi monopolio, pur con oscillazioni, della intermediazione informatica nella relazione docenti-discenti.
L’uso massiccio e capillare delle tecnologie non può essere considerato un fenomeno del tutto nuovo, poiché risale a strategie di risparmio di lavoro (labour saving) utile all’aumento della produttività e all’incremento dei profitti. L’impiego delle tecnologie ha riguardato, fino al passato recente, specialmente gli strati più bassi delle prestazioni lavorative (emblematico l’impego dei robot nel prelievo e nel trasporto dei carichi nei colossi della distribuzione quale Amazon). Nell’accelerazione impressa dalla pandemia anche i compiti manageriali e di comando sono stati demandati in misura più intensiva al governo degli algoritmi o, per meglio dire, esercitato tramite gli algoritmi. Il supporto e il trasferimento tecnologico del comando non hanno riguardato infatti soltanto settori quale quello della distribuzione alimentare a mezzo di rider eterodiretti nella committenza, ma la gestione delle imprese su una scala più vasta. Di qui la domanda più generale: dei mutamenti che hanno segnato la stagione pandemica, quanto andrà a finire nel cestino delle cose effimere e quanto resterà e sarà incrementato?
Guardando avanti, le strategie della ripresa (a meno di colpi di coda) dal post covid non si presentano come univoche, stando ai rapporti sul lavoro di istituti specializzati che sono riferiti ampiamente dai maggiori organi di stampa e che tralascio di citare puntualmente. Nelle imprese di vario tipo, si pongono problemi che investono sia i livelli apicali sia gli strati dipendenti sia i rapporti con la clientela. Quali saranno i tratti, nel futuro prossimo, del lavoro ribattezzato come new normal, dopo la sterzata imposta dall’epidemia? In che misura si tornerà al lavoro stanziale (in particolare negli uffici) e in che misura saranno considerati irreversibili il remote working e lo smart working, posto che il secondo, qualificato da competenze intellettive e operative innovative, non si riduce alla mera dislocazione fisica di chi lo compie?
Il cervello manageriale non manca di secernere una peculiare filosofia business oriented che fa leva sulla valorizzazione delle risorse umane. Nell’applicazione di una logica d’impresa di tipo relazionale, manager e leader d’impresa si trovano a dover fidelizzare i dipendenti affinché esprimano il loro pieno potenziale nei compiti professionali e aumentino i loro livelli di soddisfazione. Vengono adottate anche politiche di gender equality finalizzate alla promozione della leadership femminile. Si cerca di dare sbocco all’esigenza di personalizzazione, unendo al riconoscimento economico l’ottimizzazione del coinvolgimento emotivo nel perseguimento delle carriere. Gli approcci alla clientela si distinguono per l’accresciuta attenzione ai bisogni e ai desideri, catturando con gli strumenti audiovisivi e informatici il tempo da dedicare alla selezione degli acquisti.
Nell’era “onlife” e dei cambiamenti radicali prodotti dalla “rivoluzione dell’infosfera” , il lavoro del futuro prossimo dovrà essere legato alla condivisione di informazioni e progetti da realizzare in spazi disseminati e gestibili con tecnologie sempre più sofisticate. La disponibilità della dotazione digitale sarà determinante non solo per la sopravvivenza della imprese, ma anche per il loro incremento. Digitalizzarsi o perire sembra l’alternativa d’obbligo. Su questo panorama si staglia l’ombra lunga degli “algoritmi”, a partire dai settori del commercio dove dipendenti con mansioni subordinate eseguono ordini delegati a dispositivi blind, imperscrutabili quanto impositivi.
Sarebbe troppo riduttivo considerare la “algoritmizzazione” del lavoro semplicemente come l’ultimo capitolo della organizzazione scientifica del processo produttivo risalente al fordismo-taylorismo, rispetto a esso più insidioso in quanto meno suscettibile di antagonismi animati da centrali sindacali che, a differenza di quanto è avvenuto nella fase di consolidamento del capitalismo del XX secolo, non hanno gioco facile sia nel proselitismo sia nella mobilitazione.
L’importanza delle tecnologie digitali è balzata sulla scena per la loro organicità al lavoro detto 4.0. e per le modalità comunicative che lo caratterizzano. Il lavoro 4.0 è strutturato nella triplice articolazione uomo/uomo, macchina/macchina, uomo/macchina. Nell’intreccio di questi livelli è cruciale il carattere intrinseco del mezzo del comunicare all’atto del comunicare. Quest’ultimo esiste proprio perché e nella misura in cui si sta nella mediazione strumentale, a tal punto che quest’ultima interloquisce come soggetto del comunicare e, a loro volta, i soggetti umani sono abilitati alla comunicazione solo in quanto comunicano con il mezzo e, per meglio dire, nel mezzo. Nella prassi comunicativa viene meno perciò il privilegio della soggettività umana: uomo e macchina comunicano ex aequo e si può presumere che arrivino a decidere altrettanto ex aequo, al punto che la responsabilità dell’uomo potrebbe essere delegata alla macchina o risolversi nell’avallo a esiti predeterminati dalla macchina stessa. Ancora più difficile sarebbe problematizzare le indicazioni della macchina o addirittura contraddirla, a differenza di quanto accade nella comunicazione tra umani. Se a un’offerta linguistica rivolta da un umano a un altro umano è previsto o è consentito che si risponda con un sì o con un no argomentati e motivati – secondo i crismi della teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas – , non è questo il tipo di interazione pertinente al sistema comunicativo strutturato dall’intreccio uomo/uomo, macchina/macchina, uomo/macchina. In esso, la relazione tra umani in che misura farebbe valere ragioni per reclamare lo status di variabile indipendente e di autonomia almeno in ultima istanza?

Riedizione della dialettica servo-signore
Non ho l’ardire di condividere la domanda iperfrancescana che, nella veste di conduttore di una pregevole trasmissione radiofonica che riguarda “uomini e profeti”, il filosofo dell’animalità Felice Cimatti fece al suo interlocutore di turno pressappoco nei termini seguenti: non si potrebbe chiamare il covid-19 “fratello virus” (eppure anche il fraticello di Assisi, in una circostanza narrata nella Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio, VIII, 6, ebbe a maledire una “empia” scrofa per avere ucciso col suo morso rapace un agnellino innocente). Direi invece che, nella pandemia, la destrutturazione degli spazi e dei tempi dell’esistenza lavorativa è stata segnata, nel suo insieme, dalla riedizione della hegeliana dialettica servo-signore, dove il virus ha ricoperto il ruolo di un invisibile ma realissimo soggetto dominante e l’umano ha dovuto ingaggiare con esso una lotta per la vita e la morte che non è ancora giunta a una conclusione definitivamente positiva. La soggezione al dominio oscuro di una forma vivente, spinta esclusivamente – per dirla con un linguaggio schopenhaueriano – dalla cieca volontà di vivere suscettibile di essere soddisfatta (soltanto) dall’aggressione di forme viventi ‘superiori’ (o almeno più complesse) è ormai depositata in una memoria storica che la capacità di rimozione di cui l’umano è campione non basterà a cancellare. Infatti, gli esperti meno superficiali pronosticano un futuro connotabile come età delle pandemie ricorrenti.
Che sia la stessa hybris umana nei confronti dell’ambiente naturale a fomentare, in mancanza di decisi ravvedimenti, l’ostilità di altre specie viventi, non toglie che l’umano lanciato verso il traguardo del super-umano o dell’oltre-umano debba imparare la lezione impartita dal non-umano ai fini di una contrazione virtuosa della propria volontà di dominio e disegnare piuttosto uno scenario improntato alla saggezza di un operare più misurato. E non ci sarebbe bisogno che il ravvedimento sia interpretato come l’espiazione di una colpa di invasione peccaminosa che avrebbe provocato il “giusto” castigo da parte del regno animale, riciclando curiosamente in chiave animalista lo stereotipo dei mali comminati per castigo divino da cui fortunatamente la buona teologia ci ha emancipato da tempo. Basterebbe una intelligente e accorta applicazione dell’etica della responsabilità, invece di osannare, involontariamente, il nume purificatore del virus, quasi a sentenziare “in viro veritas”.
L’esperienza della devastazione da virus sarà benefica se incoraggerà una revisione dei modelli di vita, coinvolgendo anche il perno dell’esistenza individuale e collettiva rappresentato dal lavoro. Curiosamente, nella stagione della pandemia si è verificata una divaricazione vistosa tra cura del vivere, affidata a competenze sanitarie e a regole di prudenza prescritte agli individui e alle relazioni interindividuali, e dedizione al lavoro. “La salute o il lavoro” o, in una forma meno alternativa, “senza la salute non può esserci lavoro” sono stati gli slogan più spesso ripetuti. In effetti, questa divaricazione ci ha fatto toccare con mano due verità a loro modo inconfutabili sebbene contrastanti. La prima consiste nello smarrimento causato dal blocco dell’attività lavorativa e dell’attività economica sotto la quale essa viene rubricata. La seconda consiste nella necessaria acquisizione della non coincidenza del lavoro, e dell’agire economico, con la totalità del vivere. Il lavoro ha dovuto subire una relativizzazione della sua importanza decretata dalla signoria del virus. L’insegnamento che ne può derivare è che il ritorno al lavoro non dovrebbe avere il marchio di un suo rilancio totalizzante.
Poiché la visione e la pratica totalizzante del lavoro si incastra nel dominio dell’economico e nella morsa del produttivismo-consumismo, introdurre un’idea diversa del lavoro significa sia liberare il lavoro dall’involucro dell’economia capitalistica che ne riduce lo spessore umano nel momento stesso in cui sembra esaltarlo all’insegna di una illimitatezza che deborda nelle chances di un consumo altrettanto illimitato, sia andare oltre l’egemonia della dimensione economica che soggioga e subordina a sé i molteplici ambiti dell’umano.
Ha scritto di recente Alain Supiot : «Le travail, en effet, n’est pas séparable de la personne du travailleur et son exécution mobilise un engagement physique, une intelligence et des compétences qui s’inscrivent dans la singularité historique de chaque vie humaine» . Ma l’economicismo è un virus che può arrivare a separare il lavoro dalla persona del lavoratore, privandolo del rapporto con l’intero umano grazie al quale esso può respirare pienamente. Disincastrare il lavoro dalla sua riduzione economicistica esige una visione della persona capace di proporne una ricchezza antropologica non appiattita su una soltanto delle sue dimensioni (il marcusiano L’uomo a una dimensione può ancora insegnarci qualcosa). Altrimenti, Come nelle patologia infiammatorie, l’ipertrofia economicistica del lavoro ne causa la consunzione e il collasso.

Segni positivi parziali e prospettive antropologiche
Non si tratta di sovrapporre una visione astrattamente utopica a una scena storica, come quella attuale, interpretata solo in una luce negativa. Una visione concretamente utopica deve invece inserirsi in una disposizione a leggere i segni positivi presenti nella effettualità storica. È già in atto un riassestamento dei fattori della produzione e una revisione dei modelli nella distribuzione dei beni, oltre che della loro tipologia, nei quali sia possibile intravedere possibilità di cambiamento? Nei programmi del “Piano di ripresa e resilienza” o “Piano dell’Unione europea per le nuove generazioni”, il rilancio della “crescita” si affida significativamente alla economia green e allo sviluppo sostenibile, che dovrebbero offrire una via di uscita a un’espansione soltanto quantitativa e rendere prioritari parametri qualitativi quali la cura della salute, la salvaguardia dell’ambiente, la tutela del territorio. A questo si intrecciano i programmi di ricerca e di formazione, nel presupposto che la seconda debba estendersi il più possibile all’intero arco dell’esistenza, sia per le esigenze di adattamento e conversione a nuovi tipi di attività lavorativa sia per le esigenze di un equipaggiamento esistenziale che non potrà prescindere dall’aggiornamento cognitivo e operativo.
È certamente positiva la formazione di professioni green con competenze trasversali e visione di sistema, fino a delineare il profilo di un “manager della felicità” che «pone al centro del suo lavoro il benessere delle persone» nella consapevolezza che «una forza lavoro soddisfatta di sé e sana sia un bene per la produttività dell’impresa» . Il lavoro per la persona ha però bisogno di essere inquadrato entro coordinate complessive che debordano dall’interesse produttivistico e dalla logica del profitto autoreferenziale, e sono invece di portata antropologica.
Nella prospettiva di transizione che si annuncia quali profili antropologici potranno farsi valere? Detto diversamente: una prospettiva di transizione che non sia la replica pura e semplice dei modelli di produzione e di consumo acquisiti prima del trauma endemico, ma comporti mutamenti non riducibili a un maquillage di facciata, con quali modelli dell’umano potrà legarsi? e, dicendo la cosa al contrario, da quali modelli dell’umano dovrà emanciparsi per avere possibilità di successo?
Il modello culturale sovra-determinante è stato finora quello dell’homo oeconomicus. Un tale modello non è soltanto attinente alla sfera peculiare della produzione e del consumo, ma trascina con sé la postura esistenziale complessiva.
Questo non significa certamente la cancellazione degli ambiti molteplici dell’esistenza individuale e collettiva, ma la loro subordinazione agli imperativi della sfera economica. Si tratta di ciò che possiamo definire l’ipoteca economicistica sulla totalità dell’esserci umano e delle sue manifestazioni, le quali coinvolgono le relazioni con il non-umano, dalle specie viventi a quelle non viventi (sebbene oggi sappiamo che gli aggregati molecolari a ogni livello hanno dinamiche processuali). Come si rileva nel contributo di Benedetta Giovanola in questo volume, si ha “economicismo” quando non solo l’economia rappresenta i propri processi in modo separato dalle altre sfere dell’esistenza e della convivenza, ma, a partire da una tale separatezza, esercita il proprio dominio, diretto e indiretto, sulla totalità delle sfere che da essa si distinguono.
Ciò di cui occorre acquisire consapevolezza è che l’unilateralità dell’economia si è agganciata indissolubilmente, nel corso della modernità, alla unilateralità dell’homo laborans, che si è protratta nella sfera dei consumi abnormi, nel senso letterale di avere come regola soltanto il loro stesso incremento. Fare fronte alle esigenze e alle aspirazioni di una svolta di civiltà non più differibile se si vogliono superare le sofferenze indotte dal soffocamento dell’umano, causato dalla ipertrofia di una sua componente parziale, esige allora un positivo upgrade antropologico. Se infatti l’altro dal presente e dalla sua eredità non avrà il volto di un guadagno positivo radicale che possa dare senso anche alle innovazioni apprezzabili nei piani della politica e nei disegni occupazionali avanzati delle imprese, l’uscita dalla illimitatezza del binomio produzione-consumo sarà vissuta come privazione e non invece come arricchimento delle possibilità di realizzazione umana nel contesto di una “ecologia integrale”.

Dal lavoro alla persona: lavorare, agire, contemplare
Il senso del lavoro, oggi, dovrebbe essere inquadrato in una visione complessiva dell’umano. Possiamo comprendere il valore del lavoro a partire dalla premessa che l’umano si realizza certamente anche nel lavoro, ma non in modo esaustivo. L’umano o, più concretamente, la persona – ogni persona – è sempre più del lavoro che svolge. In una visione antropologica ampia e articolata, insieme al lavoro, si dovrebbe dare spazio anche al rapporto dell’umano con l'essere e con l'agire.
Come distinguere i tre momenti del lavorare, dell’agire e dell’essere nell’intero dell’umano? Il rapporto con l’essere consiste in un’apertura totale al reale e al possibile, prima e oltre la capacità umana di produrre qualcosa con la potenza del lavoro. L'essere nella sua pienezza non è infatti rappresentabile come l'oggetto di una produzione, si offre piuttosto all’atto del contemplare. Noi contempliamo ciò che è incondizionato rispetto alla nostra potenza produttiva. L'apertura senza limiti all'essere non rimane però senza conseguenze sulla condizione umana. Essa dà conto dell’atteggiamento di libertà nei confronti di ogni situazione determinata. Inoltre, la contemplazione dell’essere che si dà da sé, e non è in nostro possesso, è la sorgente del dono gratuito nella relazione con gli altri .
Come configurare il momento dell’agire e perché distinguerlo dal lavorare? L’agire è indubbiamente intrecciato al lavorare, ma lo trascende perché, nell’applicarsi di volta in volta a fini specifici, è sempre un adoperarsi in vista del fine complessivo di un più di essere per la persona. Le espressioni dell’agire, in cui riversiamo i nostri pensieri e i nostri affetti, sono orientate a un incremento della persona che si è e all’arricchimento delle altre persone di cui ci sta a cuore la dignità-di-essere. Su questa linea l’agire si fa ricerca di modelli e di regole per una convivenza giusta, nell’impegno politico volto al bene di tutti e di ciascuno.
A sua volta il lavorare si configura come l’attività che si traduce in risultati oggettivi, che pone sempre capo a delle oggettivazioni, siano esse della mano o della nostra mente. Lavorare è arrivare a disporre di un mondo per noi e prendersi cura di esso. Il lavoro si esplica in modo specifico sulla linea dell’avere qualcosa e del processo operativo coerente con tale obiettivo. Di conseguenza, la logica del lavorare esige il farsi strumento per lo scopo che si vuole ottenere. Beninteso, l’avere non va separato dall’agire e nemmeno dall’essere. Tenendo conto della loro connessione, possiamo dire che il lavorare è quella manifestazione specifica dell’essere e dell’agire che tende ad avere qualcosa di determinato.
Il lavoro va riconosciuto nella sua peculiarità e, al tempo stesso, va correlato con le altre dimensioni dell’umano. Collocare il lavoro in un contesto antropologico più ampio non significa affatto sminuirne l’importanza, ma è essenziale alla sua valorizzazione e rappresenta un antidoto al rischio della sua riduzione esclusivamente strumentale. Collegare il lavoro all’intero della persona mi sembra inoltre l’aspirazione oggi più diffusa, anche quando non sia facile realizzarla. In sostanza, mi sembra che, rispetto al lavoro, il paradigma culturale oggi più valido possa consistere nella ricerca di un intreccio tra il lavoro stesso ed elementi qualificanti di azione e di contemplazione.
Il lavoro “cognitivo”, se non soggiace alla cattura in un funzionalismo persino più esasperato e pervasivo di quello legato alla struttura tradizionale del lavoro “fordista”, è certamente nella condizione più idonea a soddisfare questi parametri. A evitare la cattura nel funzionalismo di marca più recente, si richiede che il soggetto lavoratore, orientandosi nella sua attività alla globalità dell’umano, sia capace di una misura del lavoro che lo tuteli dalla sua versione ipertrofica subordinata all’«imperativo della prestazione» . Sul lato opposto, si tenga pure presente che l’avversione alla soggezione funzionalistica può scatenare sentimenti di disaffezione e quindi di rifiuto dell’impegno lavorativo. La cultura del rifiuto del lavoro, che non coincide affatto con la “misura” del lavoro che stiamo suggerendo, è ricorrente, sia in letteratura sia in esperienze di singoli o di gruppi alternativi e, a non volerla semplicemente stigmatizzare, pone interrogativi di rilievo .

Dalla persona al lavoro: ricchezza antropologica e qualità del lavoro
Quali sono, per la persona, i vantaggi di una visione equilibrata del lavoro? Inquadrare il lavoro in un’antropologia multilaterale consente di cautelarsi dalla caduta nell’alienazione da lavoro, cioè dal suo eccesso a scapito della capacità di essere e di agire. Con un non facile esercizio di saggezza, volto a dare al lavoro la sua giusta misura nell’ordine complessivo dell’attività umana, occorre stare in guardia dall’eccesso di attività lavorativa che mette a rischio le nostre istanze pratiche (esigenze di performance complessiva, di comunicazione interpersonale, di legami associativi, di partecipazione civile, di costruzione politica ecc.) e le istanze connesse al nostro essere (conoscenza e fruizione anche di contenuti non specialistici, sviluppo della personalità a tutto campo, coltivazione delle abilità di discernimento attraverso l’educazione al vero, al bene e al bello ecc.).
Perché tutto ciò va a vantaggio anche di una buona cultura e di una buona pratica del lavoro? Perché la correlazione con l’essere e con l’agire si può riversare nella stessa qualità del lavoro. Si tratta infatti di far emergere all’interno del lavoro componenti consapevoli e autogovernate di azione e di essere, quindi elementi di sapere, di partecipazione, di responsabilità e di decisione, ossia quei profili di valore che rischiano di rimanere soffocati in un vissuto lavorativo ingabbiato in prestazioni di natura puramente quantitativa o assorbito nell’accanimento funzionalistico. É vero infatti che il lavoro, nella sua evoluzione, ha manifestato la capacità non soltanto di afferrare, avvicinare, trasformare e curare il modo, ma anche di esplorarlo e conoscerlo con gli artifici che esso escogita e di cui si serve operativamente . Questa potenza manifestativa e di disvelamento creativo delle forme del mondo sarà però tanto più valorizzata quanto più la sfera del lavoro sarà coltivata da un soggetto umano che abbia come orizzonte di senso anche l’azione e la contemplazione non asservite a scopi soltanto strumentali. L’homo laborans è chiamato a entrare in sintesi con l’homo agens e l’homo contemplativus .
Oltre quindi l’accanimento lavoristico e il rifiuto del lavoro, in un’attività lavorativa connessa con l’agire e il contemplare, portata quindi al livello dell’intera persona e della relazione tra persone, può trovare alimento anche la declinazione etica del lavorare. Ne indichiamo una triplice modulazione: a) etica del lavoro, come ricerca di un lavoro motivato e il più possibile soddisfacente; b) etica nel lavoro, come acquisizione e padronanza delle abilità idonee a prestazioni ben compiute; c) etica per il lavoro, come disponibilità a condividerlo con altri in quanto bene comune. Anche in questo caso, le virtù specifiche del lavoro sono propiziate dal riferimento all’intero della persona e alle sue capacità relazionali a tutto campo. Dall’immagine della ricchezza complessiva dell’umano, nella molteplicità delle sue espressioni, dipende quindi la stessa ricchezza del lavoro e del suo destino peculiare.

I rischi del lavorismo e i benefici della ricomprensione personalistica del lavoro
Il primo rischio da cui guardarsi è il “lavorismo”, cioè il condizionamento che la visione unilaterale e assolutizzante del lavoro può esercitare sull’identità della persona e sulla stima di sé. Quando nella vita si vede soltanto il lavoro e la dignità della persona è riposta esclusivamente in esso, nel caso di difficoltà o di privazione del lavoro in un contesto aggravato da crisi economiche e da insufficienze della politica, la persona stessa è esposta a un vissuto di insignificanza e di vuoto esistenziale senza rimedio. “Non lavoro, quindi non sono”: questa equazione può condurre purtroppo ad atti dolorosamente autodistruttivi. Non sarebbe il caso di fare prediche trascurando la drammaticità della penuria materiale, bensì di favorire strategie di sostegno anche al senso di auto-apprezzamento o di self esteem, da associare, sul piano culturale e della concreta tenuta psicologica, alla capacità di resilienza della persona.
Il secondo rischio viene dai processi negativi che sono in agguato proprio nelle forme più avanzate e potenzialmente emancipatrici del lavoro. Come si è già detto, nella società dello sviluppo e della diffusione capillare delle conoscenze, il lavoro cognitivo, con le sue caratteristiche immateriali che favoriscono il superamento della separazione atavica tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, potrebbe contribuire a una ricomposizione più generale delle lacerazioni che hanno afflitto storicamente la divisione delle attività umane. Il lavoro esplorativo corre però il rischio di cadere in una trappola tesa con modalità più accattivanti e insidiose che nel passato: in ragione del suo potenziamento, e delle gratificazioni che ne derivano, può essere indotto a diventare un ingranaggio sempre più lubrificato della produzione e dell’accumulazione come scopi dominanti. Su questa via, tutta la vita, individuale e collettiva, sarebbe “messa al lavoro” e l’apertura a un vissuto umanamente più ricco sarebbe bloccata.
L’alternativa è allora tra l’ampliamento delle possibilità umane verso la loro pienezza di espressione e l’ingabbiamento di ogni persona, nell’insieme delle sue competenze conoscitive e delle sue aspirazioni emotive, in una sorta di autosfruttamento funzionale al meccanismo della produzione e del consumo. Sarebbe allora auspicabile orientare i soggetti dei lavori di nuova generazione, facendo leva specialmente sulle azioni educative e formative, alla cura esistenziale di un equilibrio antropologico che protegga dalla cattura nel paradigma produttivistico fine a se stesso e favorisca la correlazione del momento lavorativo con gli altri elementi dell’umano.

Democrazia tecnologica e partecipazione al lavoro come bene comune
La pista che stiamo tracciando consentirebbe un orientamento positivo alla questione spinosa della sostituzione del lavoro umano con le tecnologie. In proposito, un documento universalmente apprezzato come l’enciclica Laudato si’ contiene un’esortazione che merita grande attenzione: «non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe se stessa» (n. 128). La preoccupazione espressa è sacrosanta. Ne scaturisce la domanda seguente: le tecnologie sono necessariamente in opposizione al lavoro? La posta in gioco è cruciale: la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie, che potrebbe essere una benedizione per l’umano, rischia di rovesciarsi in una maledizione. Le proiezioni nel futuro prossimo, pur prevedendo figure professionali di nuovo conio, ci dicono infatti che il lavoro umano va incontro a un processo di rarefazione, in quanto sostituito o sostituibile, sia nelle mansioni inferiori sia nelle mansioni superiori, da tecnologie sempre più “esperte”. Siamo in grado di districarci positivamente da questa stretta a tutta prima angosciante?
Dal fenomeno della crescente sostituzione tecnologica del lavoro, indubbiamente dirompente oltre che ambiguo, possono derivare due sbocchi antitetici. Il primo porterebbe a sacche spaventose di disoccupazione di massa: un esito probabile qualora mantenessimo l’attuale organizzazione del lavoro e dei processi produttivi, contrassegnata da moduli intensivi di tempi e orari per ogni “unità di lavoro”, cioè per ciascun soggetto lavoratore. Nel caso opposto, il lavoro umano, quantitativamente alleggerito per ogni individuo grazie all’uso intelligente di tecnologie sostitutive ma non distruttive dell’umano e della natura, sarebbe spalmato su una platea il più possibile allargata di soggetti. Con un impiego virtuoso delle tecnologie, si eviterebbe che i processi di sostituzione del lavoro sfocino in esiti incontrollabili, e giustamente temibili, di esclusione.
Per giungere a questo traguardo è necessaria una ristrutturazione del sistema produttivo e del circuito distributivo entro cui far posto a una tecnologia democratica conforme all’idea della partecipazione universale al lavoro come bene comune e a un disegno politico ispirato a principi di giustizia e di eguaglianza nella fruizione delle risorse.

 

Liberare lavoro ed economia nella prospettiva della persona

Nello scenario dell’auspicabile riorganizzazione del lavoro e della riconfigurazione dei tempi di vita delle persone, si tratta di portare in primo piano anche una questione di senso. Vale a dire: per che cosa vivere in una nuova condizione umana non più coperta massicciamente dal lavoro? Con quali tempi e in quali spazi ognuno potrà scandire l’esistenza propria e la relazione con gli altri, con la natura e con il mondo delle cose edificate dall’operare umano? Quali bisogni e quali desideri si potranno coltivare? Per quali scopi si potranno tessere i fili dell’esistenza individuale e collettiva? Domande cruciali cui si può cominciare a dare risposta a patto che venga squarciata la rete onniavvolgente della produzione e del consumo.
L’umano che si fa definire soltanto dal lavoro – riecheggiando i timori che Hannah Arendt esprimeva in The Human Condition – non sarà in grado di affrontare le sfide del futuro che è già alle nostre porte. Un nuovo stile di vita che assuma la parzialità del lavoro – una parzialità compatibile con la sua partecipazione la più ampia possibile – senza traumi e frustrazioni dovrà dotarsi appunto delle capacità di azione e di contemplazione richieste da una svolta antropologica necessaria. L’umano si fa definire in modo esclusivo dal lavoro quando il lavoro è incastrato (embedded) nella morsa dell’economicismo-produttivismo e degli imperativi del turbo-consumismo (per dirla con Gilles Lipovetsky), ai quali Serge Latouche ha contrapposto il paradigma dell’abbondanza frugale, spesso banalizzato nello slogan della decrescita .
Sarebbe anche auspicabile che una cultura del lavoro inserita in una visione antropologica complessiva fosse elemento qualificante dei corsi di “formazione al lavoro” d’ora in poi indispensabili a propiziare una mobilità occupazionale socialmente accettabile. La formazione al lavoro non può limitarsi all’acquisizione di abilità tecniche e di skills professionali e di mestiere. Dopo l’offerta di una philosophy for children, non sarebbe il caso di introdurre una philosophy for workers? Avvenne al tempo della organizzazione, nelle università italiane, delle 150 ore per lavoratori. Perché non riproporle in forme aggiornate?
Concludiamo riprendendo le coordinate di questa riflessione. Persona per l’economia o economia per la persona? Persona come mezzo per l’economia o economia come mezzo per la persona? Nel secondo caso il lavoro può e deve essere concordato con l’agire e il contemplare. Invertiamo infine l’ordine del discorso: possiamo dire che il lavoro liberato dal virus dell’economicismo-produttivismo-consumismo sarebbe benefico per la stessa economia? Non si tratterebbe allora di negare l’esistenza dell’economia, ma di liberarla dalla sua pretesa egemonica e totalizzante.
Sembra che si voglia mirare alla quadratura del cerchio. A ben vedere però è proprio questa la posta in gioco: adoperarsi affinché non sia la persona a essere assorbita nella prospettiva dell’economia, ma sia quest’ultima a essere declinata dalla prospettiva della persona. La persona è “prospettiva delle prospettive”, si legge nel Manifesto dell’Associazione “Persona al Centro”: il rapporto della persona con il lavoro e l’economia ne è un banco di prova.

 

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